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Gli anni del terrore. Da Al-Qaeda allo Stato islamico PDF

469 Pages·2017·1.99 MB·Italian
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Lawrence Wright GLI ANNI DEL TERRORE DA AL-QAEDA ALLO STATO ISLAMICO Traduzione di Jacopo M. Colucci Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: The Terror Years From al-Qaeda to the Islamic State Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata In copertina: Osama bin Laden in un fotogramma televisivo (Florida, 30 ottobre 2004) Foto di Thomas Dworzak © THOMAS DWORZAK/MAGNUM PHOTOS Prima edizione digitale 2017 © 2016 LAWRENCE WRIGHT All rights reserved © 2017 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-4597910-1 GLI ANNI DEL TERRORE In memoria di James Foley Steven Sotloff Peter Kassig Kayla Mueller e del mondo che avrebbero potuto costruire PROLOGO La mia esperienza in Medio Oriente è cominciata per un caso della storia. Come obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, ero tenuto a prestare due anni di servizio civile nell’«interesse nazionale», con una paga minima e a non meno di ottanta chilometri da casa. Di norma il servizio civile consisteva nel cambiare le padelle dei degenti di qualche ospedale, ma negli anni della recessione nixoniana era difficile trovare persino questo genere d’impiego. Allontanarmi da casa per me non era un problema; all’epoca volevo andarmene il più possibile lontano dagli Stati Uniti. Mi presentai presso le Nazioni Unite, a New York, pensando di potervi trovare una posizione che soddisfacesse i requisiti richiesti. La persona con cui parlai a quanto pareva aveva incontrato altri nella mia situazione; mi disse che il lavoro presso l’ONU non valeva come servizio civile, ma aveva un elenco di istituzioni americane all’estero adatte alla bisogna, fra cui una che aveva sede proprio sull’altro lato della piazza: l’American University del Cairo (AUC). Quando attraversai la United Nations Plaza, non sapevo che fra Stati Uniti ed Egitto non esistevano relazioni diplomatiche, e che, al di là del piccolo corpo insegnanti dell’AUC, nell’intero paese praticamente non c’erano americani. E forse non sapevo neanche che lingua si parlasse in Egitto. Ma nel giro di trenta minuti dal mio ingresso in quell’ufficio mi venne chiesto se potevo partire la notte stessa. No, non potevo: i miei vestiti erano a Boston, come la mia ragazza; non avevo detto ai miei genitori ciò che stavo facendo; e poi dovevo consultarmi con la commissione di leva. Allora potevo partire l’indomani? Quarantotto ore più tardi stavo già insegnando davanti alla mia prima classe, giovani egiziani con una conoscenza della lingua inglese ancora insufficiente per l’ammissione all’università. Quel periodo in Egitto si sarebbe rivelato decisivo nel foggiare la mia carriera. Nel 1998 collaborai alla sceneggiatura di un film – Attacco al potere, interpretato da Denzel Washington, Bruce Willis, Annette Bening e Tony Shalhoub – che raccontava di un ipotetico attacco a New York da parte di un terrorista arabo. La questione posta dal film era: Che cosa accadrebbe se anche in America arrivasse il terrorismo che francesi e inglesi stavano già sperimentando? Come reagiremmo? Che razza di paese diventeremmo? Attacco al potere fu un insuccesso al botteghino, in parte a causa delle proteste di arabi e musulmani offesi dallo stereotipo del terrorista. Dopo l’11 settembre, è stato il film più noleggiato in America: era divenuto una sorta di inquietante profezia. Nei cinque anni successivi mi immersi nelle ricerche per Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre. Tre pezzi inclusi nel presente volume come ritratti approfonditi compaiono in forma diversa in quel libro. L’uomo dietro Bin Laden mi riportò in Egitto per studiare la figura di Ayman az-Zawahiri, allora il numero due di al-Qaeda, e suo leader dopo la morte di Bin Laden. Fu strano ritrovare il paese a cui mi ero tanto affezionato intorbidito dalle contrastanti emozioni di orgoglio, vergogna e rifiuto prodotte dagli attentati a New York e Washington. E fu anche sconcertante rivedere luoghi un tempo a me cari, e adesso macchiati da implicazioni del tutto differenti: le aule dell’AUC in cui avevo insegnato erano infestate dal fantasma di Mohammed Atta, che vi aveva studiato inglese; e il Maadi Sporting Club, dove partecipavo a tornei di tennis, aveva ospitato da giovanissimo Ayman az-Zawahiri, nelle serate estive di cinema all’aperto. Iniziai L’antiterrorista qualche giorno dopo l’11 settembre, mentre cercavo disperatamente di capire come e perché tutto ciò fosse avvenuto. Cominciai col passare in rassegna il flusso di notizie biografiche sulle vittime che stavano apparendo online. Sul sito del «Washington Post» trovai quelle di John O’Neill, ex capo dell’antiterrorismo presso l’ufficio di New York dell’FBI – lo stesso ufficio su cui avevo scritto per Attacco al potere. Il necrologio aveva un che di avvilente per l’immagine di O’Neill: aveva perso il lavoro poco prima dell’11 settembre per l’incauta diffusione di informazioni riservate; dopodiché era divenuto capo della sicurezza del World Trade Center, e là era morto. Lì per lì considerai la sua fine uno scherzo del destino: avrebbe dovuto prendere Bin Laden, e invece Bin Laden se l’era preso. Oggi vedo la morte di O’Neill come una tragedia greca: quell’uomo andò volontariamente nel luogo che si aspettava sarebbe diventato il Ground Zero di una tragedia che sapeva incombente. Un pezzo correlato, e qui incluso, è L’agente: il mio profilo di Ali Soufan, il talentuoso pupillo di John O’Neill che si occupò dell’attacco di al-Qaeda alla USS Cole, avvenuto nell’ottobre 2000. Soufan aveva anche giocato un ruolo inconsapevole nelle mie ricerche per Attacco al potere: avevo sentito parlare di un abile agente sotto copertura presso l’ufficio di New York del Bureau, un musulmano americano nato a Beirut che parlava fluentemente in arabo; su di lui ho basato il personaggio di Tony Shalhoub, anche se Soufan e io in realtà ci saremmo incontrati solo qualche anno dopo. Nel mio articolo ponevo delle domande riguardo all’incapacità della CIA di cooperare con le indagini di Soufan sull’omicidio di diciassette marinai americani. Se l’Agenzia avesse risposto alle richieste d’informazioni di Soufan – indizi che avrebbero denunciato la presenza di al-Qaeda in America venti mesi prima dell’11 settembre –, è molto probabile che gli attentati di quel giorno non sarebbero mai avvenuti. A tutt’oggi la CIA non è riuscita a identificare alcun responsabile di questa catastrofica negligenza. Sapevo che Osama bin Laden sarebbe stato un protagonista delle Altissime torri, ma per più di un anno i sauditi rifiutarono di concedermi un visto giornalistico. Alla fine trovai lavoro come istruttore dei giovani reporter della «Saudi Gazette», un quotidiano in lingua inglese di Gedda, la città natale di Bin Laden. Normalmente, durante la fase preparatoria di un articolo, sto in hotel, faccio telefonate, cerco di fissare incontri; in quel caso vissi in un appartamento della borghesia saudita, presentandomi ogni giorno al lavoro. Ufficialmente ero lì a insegnare il mestiere del giornalista, ma furono i miei studenti a insegnarmi riguardo al loro paese molto più di quanto avrei mai potuto apprendere per mio conto. È stata una dura lezione sui paraocchi che i reporter indossano quando si ritrovano catapultati in un’altra cultura, un’esperienza qui raccontata nel Regno del silenzio. Il silenzio mi attirò, nel 2006, anche in un altro paese: la Siria. Il Medio Oriente è una regione litigiosa, volubile – un paradiso per i giornalisti, a parte quando si rivela una trappola letale –, ma la Siria era stranamente muta. Vista da lontano, sembrava progressista e laica rispetto ai suoi vicini arabi, ma anche sfuggente ed enigmatica. Come potevo sperare di decifrare una cultura tanto reticente? Riflettei su quanto il mondo capisca dell’America attraverso i nostri film. La Siria aveva una propria industria cinematografica, piccola ma affascinante, così decisi di guardare i film siriani e intervistarne i registi per poter rivolgere un rapido sguardo al mondo interiore gelosamente custodito di quella nazione. Il pezzo si intitola Catturato su pellicola. Ciò che trovai fu un popolo costretto al silenzio con la violenza. All’epoca era difficile immaginare la guerra civile, ma la disperazione e la rabbia che ribollivano erano già evidenti, tanto fra i registi quanto nelle loro opere. Al-Qaeda e la sua progenie non sono solo organizzazioni terroristiche, ma anche culti religiosi, devianti, isolati e ostili verso i loro avversari. Dopo l’11 settembre, al-Qaeda ha rappresentato un’opportunità straordinaria per osservare un sistema di credenze che sotto pressione si evolve e si adatta alle sfide. Ho seguito alcune delle argomentazioni teologiche, consequenziali ma spesso sconcertanti, che regolano questo movimento negli articoli Il piano guida, La ribellione interna e La rete del terrore. Per decenni la disputa israelo-palestinese ha dato giustificazione morale al terrorismo, con conseguenze devastanti per la regione. Nel 2006 un giovane soldato israeliano, Gilad Shalit, fu catturato da Hamas, che richiese in cambio la liberazione di un migliaio di prigionieri palestinesi. Prima che fosse raggiunto un accordo, Israele invase Gaza: ne conseguì la morte di tredici israeliani e di millequattrocento abitanti della Striscia. La disparità nel valore della vita umana mi ha colpito come un fattore perturbante, che contribuisce alla violenza di entrambe le parti. Il pezzo si intitola Prigionieri, perché il termine riflette tanto la condizione di Gilad Shalit quanto quella delle persone che lo stavano sequestrando. La guerra al terrore ha scosso la comunità dell’intelligence americana e ha intaccato la nostra democrazia. Dal 2007 al 2009 un uomo si è ritrovato al centro del vortice: Mike McConnell, il direttore della National Intelligence, vale a dire il soprintendente di un mondo, quello delle spie americane, in crescita tentacolare. Il mio profilo di McConnell è qui incluso sotto il titolo Il capo delle spie. Lui e io avevamo punti di vista diversi in fatto di privacy. Il mio telefono era stato controllato mentre scrivevo per il «New Yorker» e lavoravo alle Altissime torri. McConnell non riteneva di dovermi delle scuse; per lui, simili intrusioni erano fatti insignificanti, accessori. E avevamo idee molto differenti anche sul valore di quelle che allora venivano definite «tecniche di interrogatorio rafforzate». Nel corso di una delle nostre interviste, McConnell mi disse che lui stesso era stato «torturato»: ciò che intendeva dire era che, durante i corsi di sopravvivenza della Marina militare cui aveva partecipato, era stato sottoposto a maltrattamenti fisici che avrebbero dovuto prepararlo ad affrontare un’eventuale prigionia. In seguito, quando l’articolo fu sottoposto al fact- checking dei contenuti, McConnell dapprima negò di aver rilasciato una simile dichiarazione, e poi, dopo che gli ebbi ricordato che l’intervista era stata registrata, mi chiese di tralasciare quelle parole perché, disse, gli sarebbero costate il posto di lavoro. Il licenziamento di McConnell non era fra i miei obiettivi, e lui si era dimostrato insolitamente generoso nel concedermi di avvicinarlo. Ma mi è capitato di domandarmi se non fu un errore omettere quello scampolo di conversazione dal profilo che pubblicai sul «New Yorker», dato che la questione, a mio modo di vedere, era senz’altro pertinente al dibattito nazionale sulla tortura. McConnell non ricopre più un

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