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Gli Angeli Piangono PDF

285 Pages·2016·1.88 MB·Italian
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Wilbur Smith. Gli angeli piangono. Copyright 1982 by Wilbur Smith TRAMA Bianchi e neri: l'interminabile rivalità tra due razze costrette a convivere nel medesimo territorio. L'esplosione della più cieca violenza seguita al flagello della carestia: tra apocalittiche profezie di streghe invasate e travolgenti passioni si consuma l'esaltante avventura africana di una grande famiglia. GLI ANGELI PIANGONO PARTE PRIMA 1895 Tre uomini uscirono a cavallo dalla foresta con un'impazienza trattenuta che neppure le settimane faticose di continua ricerca avevano potuto smussare. Si fermarono a fianco a fianco e guardarono giù, in un'altra valle poco profonda. Tutti gli steli dell'erba inaridita dall'inverno portavano un seme lanuginoso d'un rosa tenero, e la brezza leggera li agitava e li faceva danzare, così che sul fondovalle le antilopi nere del branco sembravano immerse fino al ventre in una turbinante nebbia rosata. Era un branco con un unico maschio, alto quasi quattordici spanne al garrese. La groppa e le spalle, lucide come raso, erano nere come quelle d'una pantera, ma il ventre e i fregi intricati del muso avevano il candore iridescente della madreperla. Le grandi corna a rilievi, curve come la scimitarra di Saladino,. s'inarcavano all'indietro fino a sfiorare il dorso, e il collo era orgoglioso come quello d'uno stallone arabo. Ormai annientata dai cacciatori nei territori meridionali, la più nobile delle antilopi africane aveva finito per simboleggiare agli occhi di Ralph Ballantyne quella nuova terra, selvaggia e bellissima, tra il Limpopo e l'ampio, verde Zambesi. Il grande maschio nero fissò con arroganza i cavalieri fermi sul dosso, poi sbuffò e scrollò la testa bellicosa. La folta criniera scura ondeggiante, gli zoccoli acuminati che scalpitavano sul terreno sassoso, guidò al galoppo le femmine color cioccolata oltre la cresta opposta, mentre gli uomini osservavano muti la loro maestà e la loro bellezza. Ralph Ballantyne fu il primo a scuotersi. Si girò sulla sella e si rivolse al padre. «Allora, papà» chiese, «hai riconosciuto la zona?» «Sono passati più di trent'anni» mormorò Zouga Ballantyne, accigliandosi con una concentrazione che gli disegnò una punta di freccia al centro della fronte. «Trent'anni, e io ero disfatto dalla malaria.» Si rivolse al terzo cavaliere, il piccolo ottentotto grinzoso che era il suo compagno e il suo servitore fin da quei tempi lontani. «Cosa ne pensi, Jan Cheroot?» L'ottentotto si tolse il malconcio berretto militare e si allisciò i capelli candidi e lanosi, fitti e serrati come granelli di pepe. «Forse...» Ralph s'intromise bruscamente. «Forse fu soltanto un sogno dovuto alla febbre.» Il bel volto barbuto del padre si aggrottò ancor più e la cicatrice sulla guancia sfumò dal biancore della porcellana al rosa, mentre Jan Cheroot sorrideva soddisfatto: quando quei due erano insieme, era uno spasso più grande dei combattimenti dei galli. «Maledizione, ragazzo» scattò Zouga. «Perché non torni ai carri a tener compagnia alle donne?» Zouga sfilò la catena sottile dal taschino e la fece dondolare davanti alla faccia del figlio. «Ecco qui» disse. «Ecco la prova.» All'anello della catena erano appesi un mazzetto di chiavi e altri oggetti, un sigillo d'oro, un san Cristoforo, uno spunta-sigari e un pezzo irregolare di quarzo grosso quanto un acino d'uva. Era screziato come un marmo azzurro e al centro era stellato da un grosso cuneo di luccicante metallo puro. «Oro rosso» disse Zouga. «A disposizione del primo che se lo porterà via!» Ralph sorrise al padre, ma era un sorriso insolente e provocatorio, perché si annoiava. Vagabondare per settimane in una ricerca inutile non era nello stile di Ralph. «Ho sempre sospettato che quello tu l'abbia comprato a qualche bancarella nella Grand Parade di Città del Capo, e che sia soltanto pirite.» La cicatrice sulla guancia del padre divenne di un rosso rabbioso; e Ralph rise soddisfatto e strinse la spalla di Zouga. «Oh, papà, se lo credessi davvero, pensi che sprecherei così le settimane? Con la costruzione della ferrovia e le dozzine d'altre cose con cui devo giostrarmi, pensi che sarei qui invece che a Johannesburg o a Kimberley?» Scosse delicatamente la spalla di Zouga. Il suo sorriso non era più ironico. «E' qui... lo sappiamo tutti e due. Può darsi che proprio in questo momento ci troviamo sopra al filone, come può darsi che sia appena al di là del prossimo dosso.» Lentamente la cicatrice di Zouga si schiarì, e Ralph continuò con calma: «Il difficile, naturalmente, è ritrovarlo. Potremmo incocciarlo fra un'ora e potremmo dover cercare per altri dieci anni.» Jan Cheroot guardava padre e figlio con un vago senso di disappunto. Li aveva visti azzuffarsi una volta. ma era passato molto tempo. Adesso Ralph era nel fiore dell'età, poco meno di trent'anni, ed era abituato a trattare con le centinaia di uomini rudi che impiegava nella sua compagnia di trasporti e nelle squadre addette alla costruzione, e li faceva filare tutti con lingua, calci e pugni. Era grande e grosso e duro e spavaldo come un gallo; ma Jan Cheroot sospettava che il vecchio cagnone fosse ancora in grado di far rotolare il cucciolo nella polvere. Il soprannome elogiativo che i matabele avevano dato a Zouga Ballantyne era Bakela, «il Pugno» ed egli era ancora agile e snello. Sì, pensò Jan Cheroot con un po' di rammarico, sarebbe valsa la pena di assistere allo scontro; ma sarebbe stato per un altro giorno, perché i due s'erano calmati e avevano ripreso a parlarsi a voce più bassa, tendendosi dalle selle, l'uno verso l'altro. Adesso sembravano più due fratelli: sebbene la rassomiglianza tra loro fosse inequivocabile, Zouga non pareva ancora abbastanza vecchio per essere il padre di Ralph. La pelle era ancora troppo liscia, l'occhio troppo svelto e vivace, e le lievi striature d'argento nella barba dorata potevano essere semplicemente frutto del feroce sole africano. «Se almeno avessi potuto fare il punto con il sole... le altre osservazioni che avevi fatto erano tutte così precise» commentò Ralph. «Sono riuscito a ritrovare tutti i nascondigli d'avorio che avevi lasciato quell'anno.» «Erano già incominciate le piogge.» Zouga scosse la testa. «E per Dio, come pioveva! Non vedevamo il sole da una settimana, tutti i fiumi erano in piena, e noi marciavamo in cerchio, alla ricerca di un guado...» S'interruppe e alzò le redini con la mano sinistra. «Ma te l'ho raccontato cento volte. Continuiamo» propose senza alzare la voce, e scesero al trotto verso il fondovalle. Zouga si sporgeva dalla sella ed esaminava il suolo in cerca di qualche frammento spezzato del filone, si girava adagio per scrutare il profilo del terreno e riconoscere la sagoma delle creste o la macchia azzurrognola di un kopje distante contro lo sfondo dell'alto cielo africano, dove veleggiavano tranquilli i cumuli del bel tempo. «L'unico punto di riferimento sicuro su cui possiamo basarci è il sito della Grande Zimbabwe» borbottò Zouga. «Ricordo che marciammo per otto giorni direttamente verso ovest, partendo dalle rovine.» «Nove giorni» lo corresse Jan Cheroot. «Perdesti un giorno quando morì Matthew. Avevi la febbre. Dovevo curarti come un bambino, e portavamo quel maledetto uccellaccio di pietra.» «Non potevamo fare più di quindici chilometri al giorno» continuò Zouga senza badargli. «Otto giorni di marcia, non più di centoventi chilometri.» «E la Grande Zimbabwe è là. Direttamente a est.» Ralph trattenne il cavallo quando giunsero su un'altra cresta. «Ecco la Sentinella.» Indicò un kopje di roccia, una lontana vetta azzurra modellata come un leone acquattato. «Le rovine subito oltre. Non posso sbagliare.» Per padre e figlio la città in rovina aveva un significato particolare. Là, entro le massicce mura di pietra, Zouga e Jan Cheroot avevano trovato le antiche immagini scolpite d'uccelli, abbandonate dagli abitanti scomparsi ormai da molto tempo. Nonostante la situazione disperata in cui erano ridotti dalla febbre e dalle altre traversie della lunga spedizione dal fiume Zambesi, Zouga aveva insistito per portarsi via una delle statue. Poi, dopo molti anni, era venuto il turno di Ralph. Guidato dal diario del padre e dalle meticolose osservazioni effettuate con il sestante, Ralph aveva ritrovato la cittadella deserta. Anche se era stato inseguito dagli impi di Lobengula, il re dei matabele, aveva sfidato il tabù imposto dal sovrano sul luogo sacro e aveva portato via le statue rimaste. Tutti e tre gli uomini, quindi, conoscevano bene quelle rovine impressionanti e stregate; e mentre guardavano le colline lontane che ne segnavano il sito, tacevano, presi dai ricordi. «Mi chiedo ancora chi erano gli uomini che costruirono Zimbabwe» disse finalmente Ralph. «E dove sono finiti?» La voce aveva un tono insolitamente sognante. E non si aspettava una risposta. «Erano i minatori della regina di Saba? Era questa l'Ofir della Bibbia? Portavano a Salomone l'oro che estraevano?» «Forse non lo sapremo mai.» Zouga si scosse. «Ma sappiamo che apprezzavano l'oro quanto lo apprezziamo noi. Trovai foglie e perline d'oro e lingotti nel cortile della Grande Zimbabwe, e a pochi chilometri da qui io e Jan Cheroot esplorammo i pozzi che avevano scavato, e scoprimmo mucchi di minerale pronto per la macinatura.» Zouga lanciò un'occhiata al piccolo ottentotto. «Riconosci qualcosa?» Il volto scuro di folletto si raggrinzì come una prugna seccata al sole. «Forse dal prossimo dosso» borbottò Jan Cheroot in tono lugubre; e i tre discesero nella valle che sembrava identica alle cento altre attraversate durante le settimane precedenti. Ralph precedeva gli altri due d'una dozzina di passi, al piccolo galoppo. Fece deviare il cavallo per aggirare un boschetto d'alberi d'ebano, e poi all'improvviso si alzò sulle staffe, si tolse il cappello e lo sventolò. «Ehilà!» gridò. «Via! Via!» E Zouga vide il lampo d'oro bruciato, il movimento fluido sul terreno scoperto del pendio opposto. «Tre diavoli!» L'eccitazione e l'odio erano evidenti nel tono della voce di Ralph. «Jan Cheroot, mandali verso sinistra! Papà, bloccali prima che attraversino il burrone!» Ralph Ballantyne diede gli ordini istintivamente, e gli altri due uomini li accettarono con la stessa naturalezza. Nessuno di loro dubitava della necessità di uccidere i magnifici animali che Ralph aveva stanato dal boschetto. Ralph possedeva duecento carri, e ognuno era trainato da sedici buoi. King's Linn, la tenuta di Zouga creata con le concessioni terriere accordate dalla British South Africa Company ai volontari che avevano annientato gli impi del re matabele, copriva decine di migliaia di ettari, dove pascolavano il meglio delle mandrie tolte ai matabele e i tori da riproduzione importati dal Capo di Buona Speranza e dalla vecchia Inghilterra. Padre e figlio erano allevatori, e avevano subìto perdite gravissime a causa dei branchi di leoni che infestavano quella terra magnifica a nord del Limpopo e dello Shashi. Troppo spesso avevano sentito nella notte i muggiti strazianti delle loro bestie preziose, e allo spuntar del giorno avevano trovato le carcasse sbranate. Per entrambi, i leoni erano i peggiori dei parassiti, e li esaltava quella rara occasione di sorprenderne un branco in pieno giorno. Ralph tolse il Winchester a ripetizione dalla custodia sotto il ginocchio sinistro mentre lanciava il castrone baio al galoppo, all'inseguimentO dei grandi felini biondi. Il leone maschio era stato il primo ad allontanarsi e Ralph lo intravedeva appena, con il ventre un po' pendulo e la schiena arcuata, la folta criniera scura irta per l'allarme, mentre si muoveva maestoso tra i cespugli bassi. La leonessa più vecchia lo seguì prontamente Era magra e sfregiata da mille cacce, e il pelo sulle spalle e il dorso era sfumato di bluastro. Fuggiva a balzi. Ma la leonessa più giovane, non abituata agli uomini, era audace e curiosa come un gatto. Aveva ancora qualche traccia della maculatura dei cuccioli sul ventre dorato; e al margine del boschetto si voltò a soffiare in direzione del cavaliere. Le orecchie erano appiattite contro il cranio, la lingua rosea e rasposa sporgeva tra le zanne, e le vibrisse erano bianche e rigide come gli aculei di un istrice. Ralph lasciò cadere le redini sul collo del castrone, e il cavallo reagì istantaneamente fermandosi di colpo per dargli la possibilità di sparare. Solo il brusco movimento a forbice degli orecchi tradiva l'agitazione. Ralph alzò il Winchester e sparò nell'attimo stesso in cui il calcio gli toccò la spalla. La leonessa gettò un ringhio violento quando il proiettile le penetrò nella carne, diretto al cuore. Balzò nell'aria come se cercasse di afferrare il sole, con un ruggito smanioso. Cadde, rotolò sul dorso, dilaniando i cespugli con i gialli artigli sguainati, poi si protese in un'ultima convulsione sussultante prima di accasciarsi nell'abbandono della morte. Ralph inserì un altro colpo nella camera di scoppio del Winchester e riprese le redini. Il castrone si slanciò in corsa. Lontano, sulla destra, Zouga galoppava lungo il ciglio del burroncello protendendosi in avanti, e in quell'istante la seconda leonessa eruppe allo scoperto davanti a lui e corse verso gli arbusti fitti. Zouga sparò senza intelrompere il galoppo. Ralph vide il sangue sprizzare sotto il ventre della belva. «Troppo basso e a sinistra. Papà sta diventando vecchio» pensò ironicamente Ralph, e fermò di colpo il castrone. Ma prima che potesse far fuoco, Zouga sparò di nuovo e la leonessa stramazzò e rotolò come una palla dorata sulla terra pietrosa, colpita al collo una spanna dietro l'orecchio. «Bravo!» Ralph rise, euforico, e batté i calcagni contro i fianchi del castrone mentre salivano al galoppo il pendio, spalla a spalla. «Dov'è Jan Cheroot?» gridò Zouga, e nello stesso istante sentirono lo spato nella foresta sulla loro sinistra e girarono i cavalli in quella direzione. «Riesci a vederlo?» gridò Ralph. Davanti a loro gli arbusti erano più fitti, e i rami spinosi sferzavano le cosce dei due cavalieri. Risuonò un secondo sparo e subito dopo i ruggiti furiosi e assordanti del leone si mescolarono agli strilli atterriti di Jan Cheroot. «E' nei guai!» gridò Zouga, preoccupato, mentre uscivano al galoppo dai cespugli. Davanti a loro si estendeva un tratto aperto di erba lussureggiante sotto le alte acacie piatte che orlavano la cresta dell'altura. Un centinaio di metri più avanti Jan Cheroot galoppava furiosamente lungo il dosso, girato sulla sella per guardare indietro. La faccia era una maschera di terrore, gli occhi erano stralunati, bianchissimi. Aveva perso il cappello e il fucile, e sferzava disperatamente il cavallo con le redini sul collo e sulle spalle, sebbene l'animale fosse già lanciato a un galoppo folle, incontrollabile. Il leone era una dozzina di passi più indietro ma guadagnava terreno a ogni balzo, come se cavallo e cavaliere fossero immobili. Il fianco ansimante era lucido di sangue: era stato colpito al ventre, ma la ferita non l'aveva immobilizzato, non l'aveva neppure costretto a rallentare: l'aveva reso pazzo di rabbia piuttosto, e i ruggiti che esplodevano dalla sua gola erano come tuoni. Ralph fece deviare il castrone per tentare d'intercettare l'ottentotto e cambiare l'angolazione per sparare al leone; ma in quel momento il grande felino interruppe la carica sinuosa, si rizzò avventandosi sui quarti posteriori del cavallo, li dilaniò con i lunghi artigli ricurvi. La pelle scurita dal sudore si squarciò in profondi solchi paralleli e il sangue ne uscì fumigando in una nube cremisi. Il cavallo nitrì disperatamente e scalciò: centrò il leone al petto, facendolo barcollare. Ma subito il felino si riprese e si lanciò di nuovo, affiancandosi al cavallo in corsa. Gli occhi gialli erano imperscrutabili mentre si preparava a balzargli sulla groppa. «Buttati, Jan Cheroot!» urlò Ralph. Il leone era troppo vicino all'ottentotto perché fosse possibile arrischiarsi a sparare. «Buttati, accidenti a te!» Ma sembrava che Jan Cheroot non l'avesse sentito. Si teneva aggrappato convulsamente alla criniera aggrovigliata, paralizzato dalla paura. Il leone spiccò un balzo e si posò come un enorme uccello dorato sul dorso del cavallo, schiacciando Jan Cheroot sotto il peso del corpo massiccio e striato di sangue. In quell'attimo cavallo, cavaliere e leone parvero sprofondare nel terreno, e rimase soltanto una colonna turbinante di polvere. Ma i ruggiti furibondi della belva e le urla atterrite di Jan Cheroot divennero ancora più forti mentre Ralph galoppava verso il punto dov'erano scomparsi. Strinse il Winchester con una mano, liberò i piedi dalle staffe e balzò dalla sella, lasciandosi portare avanti dallo slancio fino a che si trovò sul ciglio della fossa scoscesa. E là, sul fondo, vide un groviglio di corpi sussultanti. «Questo diavolo mi ammazza!» urlò Jan Cheroot. Ralph vide che era incuneato sotto il corpo del cavallo. L'animale doveva essersi spezzato il collo nella caduta: era una massa inerte, con la testa piegata sotto la spalla, e il leone stava dilaniando con gli artigli carne e sella per cercare di arrivare a Jan Cheroot. «Stai fermo!» urlò Ralph. «Dammi il tempo di sparare!» Ma fu il leone a udirlo. Abbandonò il cavallo e si avventò su per la parete verticale della fossa con l'agilità di un gatto che si arrampica su un albero. Le lucide zampe posteriori lo sospingevano verso l'alto, gli occhi gialli erano fissi su Ralph, ritto sull'orlo della fossa. Ralph si lasciò cadere su un ginocchio e mirò all'ampio petto dorato. Le fauci erano spalancate, le zanne lunghe quanto l'indice di un uomo erano bianche come l'avorio, il ruggito assordante che eruttava dalla gola investiva il volto di Ralph. Sentì l'odore di carne putrida nel fiato del leone, mentre i bioccoli di saliva calda gli spruzzavano le guance e la fronte. Sparò, ricaricò e sparò di nuovo, così fulmineamente che gli spari furono un'esplosione ininterrotta. Il leone s'inarcò all'indietro, rimase aggrappato per un lungo attimo alla parete della fossa, e poi ripiombò sulla carcassa del cavallo. Sul fondo della buca più nulla si muoveva. Il silenzio era più intenso del fragore devastante di pochi attimi prima. «Jan Cheroot, tutto bene?» chiamò ansiosamente Ralph. Il piccolo ottentotto non si vedeva. Era coperto dalle carcasse del cavallo e del leone. «Jan Cheroot, mi senti?» La risposta fu un lugubre bisbiglio sepolcrale. «I morti non sentonO... è finita. E' finita per il vecchio Jan Cheroot.» «Vieni fuori» ordinò Zouga Ballantyne, affiancandosi a Ralph. «Non è il momento di fare il buffone, Jan Cheroot.» * * * Ralph lanciò una corda a Jan Cheroot, e padre e figlio issarono alla superficie l'ottentotto e la sella del cavallo. La buca dov'era caduto Jan Cheroot era in realtà una trincea stretta e profonda lungo la cresta del dosso. In certi punti era alta anche sei metri, ma non superava mai i due metri di ampiezza. Era quasi completamente intasata di rampicanti e d'erbacce: ma questo non bastava a nascondere che era stata scavata da esseri umani. «Il filone era stato messo allo scoperto lungo questa linea» disse Zouga mentre seguivano il ciglio della vecchia trincea. «I minatori non s'erano presi il disturbo di ricoprirlo.» «E come facevano a frantumarlo?» chiese Ralph. «Laggiù la roccia è compatta.» «Probabilmente vi accendevano sopra i fuochi e poi li spegnevano con l'acqua. La contrazione violenta spaccava la roccia.» «Be', mi sembra che abbiano portato via tutto il minerale, senza lasciare niente per noi.» Zouga annuì. «E' logico. Prima devono aver sfruttato questa sezione, e quando il filone si è esaurito hanno scavato buche per cercare di intercettarlo di nuovo.» Zouga si rivolse a Jan Cheroot. «Adesso riconosci il posto?» chiese; e quando l'ottentotto esitò, tese il braccio per indicare ai piedi del pendio. «La palude nella valle laggiù e i teak...» «Sì, sì.» Jan Cheroot batté le mani. Un lampo di gioia gli passò negli occhi. «E' il posto dove uccidesti quel grosso elefante... le zanne sono sulla veranda di King's Linn.» «L'antico deposito, allora, dev'essere proprio davanti a noi.» Zouga si avviò in fretta. Trovò il monticello coperto dall'erba, e s'inginocchiò per frusare tra le radici. Prendeva a uno a uno i frammenti di quarzo bianco, li esaminava rapidamente e li gettava via. Ogni tanto ne umettava uno con la lingua, lo rigirava sotto il sole per cercare di scoprire lo scintillio del metallo, poi aggrottava la fronte e scuoteva la testa, deluso. Alla fine si alzò e si ripulì le mani sui calzoni. «E' quarzo, sì. Ma gli antichi minatori avevano setacciato tutto il minerale. Dovremo trovare i vecchi pozzi, se vogliamo vedere un po' d'oro.» Dall'alto del vecchio tumulo, Zouga si orientò in pochissimi istanti. «L'elefante cadde in quel punto» disse, indicando, e Jan Cheroot frugò tra l'erba e sollevò un femore enorme, bianco e rinsecchito come gesso, che incominciava a sgretolarsi, dopo trent'anni. «Era il padre di tutti gli elefanti» disse Jan Cheroot in tono reverente. «Non ce ne sarà mai un altro come quello. E fu lui a condurci qui. Quando gli sparasti, cadde in questo punto come per indicarcelo.» Zouga si girò d'un quarto di cerchio e tese di nuovo il braccio. «E là dev'esserci l'antico pozzo dove seppellimmo Matthew.» Ralph ricordava la caccia all'elefante che il padre aveva descritto nel celebre libro Odissea di un cacciatore. Il negro che portava i fucili non era fuggito di fronte alla carica del colosso: era rimàsto per porgere a Zouga il secondo fucile, e aveva sacrificato la vita per salvare il padrone. Ralph lo sapeva. Rimase in silenzio mentre Zouga piegava un ginocchio accanto al cumulo di pietre che segnava il luogo della sepoltura. Dopo qualche istante Zouga si rialzò, si spolverò il ginocchio e disse semplicemente: «Era un uomo coraggioso.» «Coraggioso ma stupido» commentò Jan Cheroot. «Se fosse stato furbo, sarebbe scappato.» «Se fosse stato furbo, avrebbe scelto un'altra tomba» mormorò Ralph. «E' proprio al centro del filone aurifero. Dovremo disseppellirlo.» Zouga si accigliò. «Lasciamolo in pace. Ci sono altri pozzi lungo il filone.» Si allontanò e gli altri lo seguirono. Cento metri più avanti Zouga tornò a fermarsi. «Ecco!» esclamò soddisfatto. «Il secondo pozzo... erano quattro in tutto.» Anche quell'apertura era stata colmata con frammenti di roccia. Ralph si tolse la giacca, appoggiò il fucile al tronco dell'albero più vicino e scese nella depressione poco profonda, chinandosi verso l'imboccatura ostruita. «Riapriamola.» Lavorarono per mezz'ora, smuovendo i macigni con un ramo d'albero e spingendoli da parte fino a quando misero allo scoperto l'apertura squadrata. Era stretta: così stretta che soltanto un bambino sarebbe potuto passare. S'inginocchiarono a guardare. Era impossibile capire quanto fosse profondo il pozzo. La tenebra era impenetrabile e c'era un lezzo d'umidità, di muffa, di pipistrelli e di putredine. Ralph e Zouga scrutavano nel varco, inorriditi e affascinati. «Dicono che gli antichi facessero lavorare nelle miniere gli schiavi bambini e i prigionieri boscimani» mormorò Zouga. «Dobbiamo scoprire se il filone è lì sotto» disse Ralph. «Ma un uomo adulto...» S'interruppe. Vi fu un altro istante di silenzio pensieroso, poi Zouga e Ralph si scambiarono un'occhiata, sorrisero, e si girarono all'unisono verso Jan Cheroot. «No!» esclamò in tono irremovibile il piccolo ottentotto. «Sono vecchio e malato. No! Ammazzatemi, se volete, ma io non vado!» * * * Ralph trovò un mozzicone di candela nella borsa della sella mentre Zouga annodava insieme le tre corde che usavano per legare i cavalli. Jan Cheroot assisteva ai preparativi come un condannato segue la costruzione della forca. «Per ventinove anni, da quando sono nato, non hai fatto che parlarmi del tuo coraggio e della tua audacia» gli rammentò Ralph. Passò un braccio intorno alle spalle di Jan Cheroot e lo guidò verso l'imboccatura del pozzo. «Forse esageravo un pochino» ammise l'ottentotto mentre Zouga gli annodava la corda sotto le ascelle e gli legava una borsa alla vita. «Hai combattuto contro i selvaggi, sei andato a caccia di elefanti ,o di leoni... che cos'hai da temere in questa buca? Qualche serpente, il buio, gli spiriti dei morti, ecco tutto.» «Forse esageravo più di un pochino» bisbigliò Jan Cheroot con voce rauca. «Ma tu non sei un vigllacco, vero, Jan Cheroot?» «Sì.» L'ottentotto annuì, convinto. «Certo che lo sono, e questo non è posto per i vigliacchi.» Ralph lo tirò indietro mentre si dibatteva come un pesce-gatto preso all'amo, lo sollevò agevolmente e lo calò nel pozzo. Le grida di protesta si smorzarono via via, mentre Ralph faceva scorrere la corda. Ralph misurava la lunghezza della fune allargando le braccia: calcolando due metri per ogni tratto, doveva aver calato l'ottentotto per poco meno di una ventina di metri quando sentì che la fune non era più tesa. «Jan Cheroot!» muggì Zouga affacciandosi sul pozzo. «C'è una piccola caverna.» La voce di Jan Cheroot era soffocata, distorta dagli echi. «Ho appena lo spazio per stare in piedi. Il filone è tutto nero di fuliggine.» «I fuochi che accendevano per cucinare. Gli schiavi venivano tenuti laggiù, senza dubbio» disse Zouga. «Non rivedevano più la luce del sole, fino alla morte.» Poi alzò la voce. «C'è altro?» «Corde, corde d'erba intrecciata, e secchi, secchi di cuoio come quelli che usavamo nelle miniere di diamanti a New Rush...» Jan Cheroot s'interruppe con un'esclamazione. «Vanno a pezzi quando li tocco. Sono diventati polvere.» Dall'alto, i due lo sentirono sternutire e tossire. Quando riprese a parlare, la sua voce era diventata più nasale. «Ci sono attrezzi di ferro, qualcosa che sembra un'ascia.» Poi chiamò di nuovo in tono impaurito. «In nome del grande serpente, qui ci sono uomini morti... Le loro ossa. Voglio risalire... tiratemi su!» Ralph scrutò nel pozzo, e vide sul fondo la luce tremolante della candela. «Jan Cheroot, c'è una galleria che parte dalla caverna?» «Tiratemi su!» «Vedi una galleria?» «Sì. E adesso, mi tirate su?» «No, se prima non la segui fino in fondo.» «Siete matti! Dovrei strisciare carponi.» «Prendi uno degli attrezzi di ferro per staccare un pezzo di minerale.» «No. Ne ho abbastanza. Non faccio un passo di più, con tutti questi morti.» «D'accordo» urlò Ralph. «Allora ti butto addosso la corda.» «No!» «E poi rimetterò le pietre sull'imboccatura.» «Vado.» La voce di Jan Cheroot aveva un tono disperato. La corda cominciò a snodarsi di nuovo nel pozzo come un serpente che rientri nella tana. Ralph e Zouga si accosciarono accanto all'imboccatura. Si passaronO l'ultimo sigaro e attesero, impazienti. «Quando abbandonarono la miniera, chiusero gli schiavi nel pozzo. Uno schiavo era una proprietà d'un certo valore, quindi questo dimostra che stavano ancora sfruttando il filone e che se ne andarono in gran fretta.» Zouga s'interruppe, inclinò la testa per ascoltare e poi esclamò: «Ah!» in tono soddisfatto. Dalle viscere della terra saliva il clangore lontano di un utensile di metallo che batteva sulla roccia viva. «Jan Cheroot è arrivato al punto dove stavano sfruttando il filone.» Trascorsero ancora parecchi minuti prima che vedessero riapparire la luce ondeggiante della candela in fondo al pozzo e giungessero fino a loro le implorazioni patetiche di Jan Cheroot. «Per piacere, padron Ralph, ho fatto quello che volevate. Adesso mi tirate su, per piacere!» Ralph si piazzò saldamente con i piedi ai due lati del pozzo e ritirò la corda. I muscoli delle braccia si tendevano e guizzavano sotto il cotone della camicia, mentre issava verso la superficie l'ottentotto e il suo carico. Quando ebbe finito, il suo respiro era ancora regolare, e non c'era una stilla di sudore sul volto. «Dunque, Jan Cheroot, cos'hai trovato?» Jan Cheroot era coperto dalla testa ai piedi d'una finissima polvere chiara, scavata dai rivoletti di sudore, e puzzava di guano di pipistrello e del sentore di funghi che caratterizza le grotte abbandonate da molto tempo. Con le mani che ancora tremavano per la paura e lo sfinimento aprì la borsa legata al fianco. «Ecco cos'ho trovato» gracchiò, e tese a Zouga un frammento di roccia. Aveva una struttura cristallina che scintillava come ghiaccio, ed era venato d'azzurro e crivellato da minuscole crepe, in parte apertesi sotto i colpi dell'ascia di ferro quando Jan Cheroot l'aveva staccato dalla parete. Ma le schegge di quarzo erano tenute insieme dalla sostanza che aveva riempito ogni screpolatura: e quel cemento era un sottile strato malleabile di metallo lucente che sfolgorò nel sole quando Zouga l'inumidì con la punta della lingua. «Per Dio, Ralph, guarda!» E Ralph prese il pezzo di roccia dalla mano del padre con la reverenza d'un devoto che riceva la comunione. «Oro» mormorò. E l'oro scintillava con quello splendido sorriso giallo che aveva affascinato gli uomini fin quasi dal tempo in cui avevano acquisito la posizione eretta. «Oro!» ripeté Ralph. Per trovare quel barbaglio di metallo prezioso avevano faticato gran parte delle loro vite, padre e figlio, s'erano spinti lontano e, in compagnia d'altri avventurieri, avevano combattuto battaglie cruente, avevano distrutto una nazione orgogliosa, avevano inseguito un re fino alla sua morte solitaria. Guidati da un malato dal cuore dilatato e invalido e dai sogni grandiosi, s'erano impadroniti d'un territorio immenso che ora portava il nome di quel gigante, Rhodesia, e avevano costretto il suolo a cedere a una a una tutte le sue ricchezze. Avevano preso i grandi pascoli e le splendide catene montuose, le foreste di essenze pregiate, le mandrie di bestiame ben nutrito, le legioni di robusti uomini neri che, in cambio di una misera paga, fornivano la manodopera per lo sterminato raccolto. E adesso, finalmente, tenevano nelle mani il tesoro supremo. «Oro!» disse Ralph per la terza volta. * * * Piantarono i paletti lungo il dosso, tagliandoli dalle acacie che grondavano linfa trasparente dalle ferite inferte con le scuri, e conficcandoli nel terreno duro con il piatto della lama. Poi eressero mucchi di pietre per indicare gli angoli delle concessioni. Secondo l'accordo stipulato a Fort Victoria, che entrambi avevano firmato quando s'erano offerti volontari per combattere contro gli impi di Lobengula, ognuno di loro aveva diritto a dieci concessioni aurifere. Naturalmente questo non valeva per Jan Cheroot. Sebbene si fosse avventurato nel Matabeleland con la colonna volante di Jameson e avesse ucciso gli amadoda matabele sul fiume Shangani e al guado del Bemberi con lo stesso entusiasmo dei suoi padroni, era un uomo di colore e non poteva partecipare alla spartizione delle spoglie. Oltre al bottino cui Zouga e Ralph avevano diritto secondo l'Accordo di Victoria, entrambi avevano acquistato interi blocchi di concessioni dai soldati dissoluti e spendaccioni dell'esercito di Jameson: alcuni le avevano cedute per il prezo d'una bottiglia di whisky E quindi, tra tutti e due, potevano recintare l'intero dosso e gran parte dei fondovalle su entrambi i versanti. Era un lavoro faticoso ma urgente, perché c'erano altri cercatori in giro, e qualcuno di loro poteva averli seguiti a distanza. Lavorarono nel caldo meridiano e alla luce della luna fino a quando lo sfinimento li costrinse ad abbandonare le scuri e a buttarsi a terra per dormire. La quarta sera, finalmente, poterono fermarsi nella certezza d'essersi assicurati l'intero filone. Tra i loro paletti non c'erano varchi dove avrebbe potuto insinuarsi un altro cercatore. «Jan Cheroot, è rimasta una sola bottiglia di whisky» borbottò Zouga, stirandosi le spalle indolenzite. «Ma stasera lascerò che tu ne beva quanto ne vuoi.» Padre e figlio rimasero a guardare divertiti mentre Jan Cheroot riempiva fino all'orlo il boccale. Aveva ignorato completamente la linea intorno al fondo che segnava la sua razione quotidiana; e quando il boccale fu pieno, non si fidò a sollevarlo con la mano, ingurgitò la prima sorsata abbondante mettendosi accucciato come un cane. Ralph riprese la bottiglia ed esaminò malinconicamente il liquore rimasto prima di versare una razione per sé e per il padre. «Alla Miniera Harkness» brindò Zouga. «Perché la chiami così?» chiese Ralph, quando abbassò il boccale e si passò sui baffi il dorso della mano. «Fu il vecchio Tom Harkness a darmi la mappa che mi portò fin qui» rispose Zouga. «Potremmo trovare un nome più bello.» «Può darsi, ma questo mi sta bene.» «L'oro sarà lucente comunque, immagino» disse Ralph arrendendosi, e sistemò prudentemente la bottiglia fuori della portata di Jan Cheroot, che aveva già vuotato il boccale. «Sono contento che facciamo di nuovo qualcosa insieme, papà.» Ralph si appOggiò soddisfatto alla sella. «Sì» ammise Zouga, a voce bassa. «E' passato troppo tempo da quando abbiamo lavorato insieme nella miniera di diamanti a New Rush.» «Io conosco l'uomo adatto per aprire i pozzi. E' il migliore dei campi auriferi del Witwatersrand; e farò portare i macchinari con i miei carri prima dell'inizio delle piogge. S'erano accordati in precedenza: Ralph avrebbe fornito gli uomini, il macchinario e il denaro per mettere in attività la Miniera Harkness, quando Zouga l'avesse ritrovata. Ralph, infatti, era ricco. Qualcuno sosteneva che fosse già milionario, sebbene Zouga sapesse che era improbabile. Ma Zouga ricordava che Ralph aveva provveduto ai mezzi di trasporto e ai rifornimenti per la colonna del Mashonaland e per la spedizione contro Lobengula nel Matabeleland, ed era stato ben pagato dalla British South Africa Company del signor Rhodes... non in contanti, ma con azioni della compagnia. Come Zouga, aveva speculato acquistando le concessioni di terreni dagli sbandati improvvidi che avevano costituito il grosso della colonna e li aveva pagati con il whisky trasportato a mezzo dei suoi carri dal capolinea della ferrovia. La Rhodesia Land Company di Ralph possedeva più terre di quante ne avesse Zouga. Ralph aveva speculato anche sulle azioni della British South Africa Company. In quei giorni esaltanti, quando la colonna aveva raggiunto Fort Salisbury, aveva venduto alla Borsa di Londra per tre sterline e quindici scellini le azioni che il signor Rhodes gli aveva ceduto a una sterlina. E poi, quando le grandi speranze dei pionieri erano appassite nel veld acido e nei giacimenti sterili del Mashonaland, e Rhodes e Jameson avevano preparato in segreto la guerra contro il re dei matabele, Ralph aveva ricomprato le azioni per otto scellini. Le aveva viste salire fino alla quotazione di otto sterline, quando la colonna era entrata fra le rovine in fiamme del kraal di Lobengula a Bulawayo e la Compagnia aveva aggiunto ai suoi possedimenti l'intero reame del sovrano matabele. Ora, mentre ascoltava il figlio che parlava con quell'energia carismatica e contagiosa, non smussata neppure dai giorni e dalle notti di fatica, Zouga ricordò che Ralph aveva posato le linee telegrafiche da Kimberley a Fort Salisbury, che le sue squadre di operai stavano costruendo in quel momento i binari verso Bulawayo, che i suoi duecento carri trasportavano merci a oltre cento posti di scambio, sempre di sua proprietà, sparsi nel Bechuanaland, nel Matabeleland e nel Mashonaland, e che adesso era anche padrone di metà d'una miniera d'oro, probabilmente ricca quanto quelle del favoloso Witwatersrand. Zouga sorrise tra sé mentre ascoltava Ralph che parlava nella luce guizzante del fuoco, e all'improvviso pensò: «Accidenti, può darsi che abbiano ragione, dopotutto... può darsi che il cucciolo sia già milionario.» E il suo orgoglio era sfumato d'invidia. Zouga aveva lavorato e sognato fin da molto tempo prima che Ralph nascesse, aveva compiuto sacrifici e affrontato traversie che lo facevano rabbrividire al ricordo... e ne aveva ricavato molto meno. A parte il nuovo filone, tutto ciò che gli avevano fruttato quegli anni di fatiche era rappresentato da King's Linn e da Louise... Ma poi sorrise: gli bastavano per sentirsi più ricco di quanto avrebbe mai potuto esserlo il signor Rhodes. Zouga sospirò, s'inclinò il cappello sugli occhi, pensò al viso amato di Louise e si abbandonò al sonno mentre, dall'altra parte del fuoco, Ralph continuava a parlare a voce bassa, a se stesso più che a suo padre, ed evocava nuove visioni di ricchezza e di potere. * * * Impiegarono due giorni per ritornare ai carri; ma erano ancora a quasi un chilometro dal campo quando furono avvistati, e una marea gioiosa di servitori, bambini, cani e mogli venne rumorosamente a incontrarli. Ralph spronò il cavallo e si sporse dalla sella per sollevare Cathy, così bruscamente che i capelli le piovvero sul viso. Lei si lasciò sfuggire un grido e Ralph lo soffocò baciandola sulla bocca, e continuò a baciarla mentre il piccolo Jonathan saltellava impaziente intorno al cavallo e gridava: «Anch'io! Prendi in sella anche me, papà!» Quando infine Ralph smise di baciare la moglie, continuò a tenerla stretta a sé. Le solleticò l'orecchio con i baffi scuri e morbidi: «Appena saremo nella tenda, Katie, amor mio, collauderemo a dovere il tuo materasso nuovo.» Cathy arrossì e gli allungò uno schiaffetto affettuoso. Ralph rise, si chinò, sollevò Jonathan per un braccio e lo issò sulla groppa del castrone, dietro la sella. Il bambino gli passò le braccia intorno alla vita e chiese con voce acuta, un po' pigolante: «Hai trovato l'oro, papà?» «Una tonnellata.» «Hai sparato ai leoni?» «A cento.» «Hai ammazzato qualche matabele?» «La stagione di caccia è chiusa.» Ralph rise e gli arruffò i capelli folti e scuri, ma Cathy si affrettò a rimproverare il figlio. «Non devi chiedere certe cose a tuo padre, piccolo pagano assetato di sangue..» Louise seguì la donna più giovane e il bambino a passo più tranquillo, muovendosi con agile grazia sulla polvere della strada carraia. I capelli erano tirati all'indietro dalla fronte ampia e scendevano sul dorso in una grossa treccia che arrivava fino alla vita. La pettinatura metteva in risalto le arcate alte degli zigomi. Gli occhi avevano cambiato di nuovo colore. Zouga restava sempre affascinato nel vedere come i mutamenti d'umore si rispecchiassero nei grandi occhi a mandorla. Adesso erano d'un azzurro più

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