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Giudeo-italiano PDF

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Marcello Aprile Giudeo-italiano “Enciclopedia dell'Italiano”, 2010 1. Definizione Giudeo-italiano è un’etichetta ambigua perché può designare due fatti linguistici e culturali diversi, qualunque sia il rapporto ‘genetico’ tra loro, di continuità o di indipendenza. Da una parte c’è la produzione medievale e rinascimentale italiana di testi in caratteri ebraici; dall’altra, le parlate dei ghetti, documentate tra la fine del Settecento e i primi del Novecento, e successivamente delle comunità ebraiche cittadine. Per questo con la dicitura di giudeo-italiano ci si riferisce di solito alla documentazione medievale; ci si riferisce invece alle testimonianze otto-novecentesche con quella di parlate giudeo-italiane, con eventuali specificazioni areali: giudeo- (o giudicaico-) romanesco, giudeo- veneziano, ecc.). Una differenza tutt’altro che trascurabile è costituita dal fatto che i testi antichi sono redatti in ebraico, quelli moderni in caratteri latini. 2. Fonti Negli ultimi anni il numero delle fonti giudeo- italiane dei primi secoli (su cui cfr. Sermoneta 1976 e Cuomo 1983) si è arricchito, risolvendo probabilmente in favore della tesi della continuità tra la documentazione antica e le parlate moderne un dibattito ormai secolare (Mancini 1992; Ryzhik in corso di stampa). Il repertorio dei testi antichi in giudeo-italiano comprende (si riprende qui lo schema di Galli de’ Paratesi 1992: 133, da cui si traggono anche le citazioni): (a) glosse in italiano a testi in ebraico, di varia entità (a volte consistono di una sola parola); i primi testi del genere sembrano essere le glosse nel Rotolo di Aḥima’az e nel Sefer Yosippon (X-XI sec.; Modena Mayer 2003: 65); in molti casi, testimonianze di questa natura sono anche i più antichi testi in volgare finora noti: per es., per il salentino antico, le 154 glosse a una Mišna conservata nella Biblioteca Palatina di Parma precedono cronologicamente gli altri testi romanzi in alfabeto greco e latino e presentano un aspetto molto arcaico, documentando forme come aera «computo», ânaure leve «orecchini», âvultru «non genuino, falso», mimòra «pietra tombale», pesklu «chiavistello» (Cuomo 1977); (b) glossari biblici e di altra natura, a volte ordinati per argomento; (c) traduzioni della Bibbia, dal XIII al XVII secolo, in cui il volgare assume le caratteristiche di una vera e propria lingua-calco, proiettato com’è sulla sacralità dell’originale ebraico; (d) traduzione in italiano di preghiere, di rituali e di testi ebraici, di midrashim, di formulari di preghiera; (e) testi originali prodotti in italiano, ma sempre scritti in caratteri ebraici, di argomenti vari, come prediche e composizioni poetiche; tra questi ultimi hanno un posto speciale le testimonianze letterarie degli ebrei pugliesi stabilitisi a Corfù dopo l’espulsione (Sermoneta 1990); le loro elegie e i loro brani narrativi riflettono fasi precedenti e potrebbero essere stesure scritte di versioni tramandate oralmente da molto tempo. 3. Le parlate moderne Le parlate moderne giudeo-italiane rappresentano un’esperienza particolare nel panorama linguistico italiano. Si tratta di un fenomeno sostanzialmente estinto, debole sin dai primi anni del Novecento. La scomparsa delle parlate, avvertita a un certo punto come imminente, indusse per reazione alcuni intellettuali locali a documentarle in una produzione letteraria e teatrale ipergergale e non spontanea. Due figure si distinsero: Guido Bedarida (1956) a Livorno e Crescenzo Del Monte (1927, 1932 e 1955) a Roma. Per il resto, a parte le inchieste di Raffaele Giacomelli nelle comunità ebraiche italiane prima dell’Olocausto (per tutti, cfr. Terracini 1951) e l’inchiesta di Fortis & Zolli (1979) sulla comunità di Venezia, il più delle volte disponiamo di semplici raccolte antiquarie di liste lessicali. Le comunità in cui esistono parlate giudeo- italiane documentate sono quelle di Torino, Cuneo, Casale Monferrato, Alessandria, Moncalvo, Mantova, Venezia, Trieste, Verona, Bologna, Modena, Reggio, Ferrara, Ancona, Firenze, Livorno, Pitigliano, Roma, Corfù (panorama generale e bibliografia in Aprile 2006). L’aspetto più vistoso delle parlate giudeo- italiane è il lessico; in particolare, ciò che ha colpito di più gli osservatori è la presenza di una serie di ebraismi veicolati attraverso la tradizione a cui è stata affidata, nel corso dei secoli, gran parte dell’identità degli ebrei italiani. Gli ebraismi sono usati in ambito di tradizioni religiose e culturali (riti religiosi, preghiere, festività), ma anche per indicare situazioni di intimità familiare e per esorcizzare il male o eventi infausti (morte, malattia, disgrazie, dolore), l’ostilità antisemita, o ancora per segnare i complessi rapporti con la maggioranza e con la stessa religione cattolica (Modena Mayer 1978). Qualche esempio dell’ultima categoria: si va dai riflessi dell’ebr. bama «altura; palco; santuario» (che nella Bibbia, e nella coscienza ebraica, ha un’accezione negativa) e dell’assai meno benevolo to’eva «abominio» per «chiesa» (edificio), fino alla conversione e al battesimo, sentiti come un tradimento e sanzionati perciò con i riflessi dell’ebr. šimmed «distruggere; perseguitare; costringere alla conversione»; chi cambia religione è un mesciumàd, forma diffusa in tutte le comunità (qui la forma giudeo-mantovana), dall’ebr. mešummad «convertito; rinnegato». Alcuni di questi ebraismi sono passati ai dialetti cittadini e da questi all’italiano. È il caso del giudeo-romanesco fasullo, riflesso dell’ebr. pasul «illegittimo, invalido», transitato già nell’Ottocento al romanesco gergale, poi a quello comune e infine alla lingua nazionale, in cui è documentato dal 1950. Ancora attraverso la trafila del romanesco è entrato in italiano sciamannato, in ultima analisi riconducibile all’ebr. post-biblico siman «segno», diventato per specializzazione il segno distintivo che gli ebrei erano costretti a portare addosso per essere riconosciuti come tali. Sono ebraismi mediati dalle comunità (o dall’osservazione, spesso piena di pregiudizi, delle abitudini religiose delle comunità) l’ital. adonai (ebr. ’adonay «Signore») e goi (ebr. goy «popolo; gente»), mentre l’ital. cabala (ebr. post-biblico qabbala «ricezione; tradizione; mistica») non ha come tramite i ghetti. Uno spazio a parte merita kasher (ebr. post- biblico kašer «idoneo»), ormai noto, nel quadro più ampio della riscoperta urbana delle tradizioni gastronomiche etniche, come aggettivo invariabile (macelleria kasher, ristorante kasher, ecc.). Più rilevanti sono i contributi alle parlate locali, segno di una continua, anche se altalenante, relazione con l’ambiente attorno al ghetto. I rapporti avvenivano preferibilmente attraverso ambienti professionali ben definiti. A Ferrara, Marighelli (1977) raccoglie una serie di ebraismi usati inconsapevolmente nel gergo dei commercianti ferraresi di tessuti e confezioni non ebrei, a volte anche in funzione criptica nei confronti dei clienti. Primo Levi, nel racconto Argon (1975) in cui descrive la vita quotidiana del suo ambiente torinese, cita il giudeo-torinese dei commercianti di stoffe vesta a kiním «vestito a puntini», notissimo anche tra quelli non ebrei, prestito con metafora trasparente dall’ebr. kinnim «pidocchi». Un aspetto misconosciuto del lessico delle parlate giudeo-italiane è costituito dagli elementi romanzi, più difficili da individuare e da studiare rispetto a quelli di etimo ebraico e ai pochissimi di origine yiddish, il più importante dei quali è orsài, orzài «anniversario della morte di un congiunto; commemorazione dei defunti» (diffuso ovunque) < yiddish Yorzeit. Si ha così una serie di forme conservative usate in passato dai dialetti comuni e da un certo punto in poi proprie solo o prevalentemente della comunità ebraica locale (per es., giudeo- veneziano in cagnaro «in malora», che un tempo doveva appartenere al veneziano o al veneto comune), parole che i dialetti non hanno mai usato e le comunità ebraiche sì (per es., giudeo-triestino sesandel «lampada accesa nella chiesa; talvolta anche nella sinagoga», dal lat. tardo cicindelum, venez.

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