Gabriel García Márquez L'AMORE AI TEMPI DEL COLERA Titolo dell'opera originale: "El amor en los tiempos del colera" Traduzione di Claudio M. Valentinetti "A Mercedes, senza dubbio". "In anticipo vanno questi luoghi: hanno già la loro dea incoronata". Leandro Díaz. 1 Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati. Il dottor Juvenal Urbino lo sentì appena entrato nella casa ancora in penombra, dove era accorso d'urgenza per occuparsi di un caso che per lui aveva cessato di essere urgente da molti anni. Il rifugiato antillano Jeremiah de Saint–Amour, invalido di guerra, fotografo di bambini e il suo avversario di scacchi più pietoso, si era messo in salvo dai tormenti della memoria con un suffumigio di cianuro di oro. Trovò il cadavere sotto una coperta nella branda da campo dove aveva dormito sempre, vicino a uno sgabello con la bacinella che era servita a vaporizzare il veleno. Per terra, legato a una gamba della branda, c'era il corpo disteso di un gran danese col petto spruzzato di bianco, e vicino a lui c'erano le grucce. La stanza soffocante e confusionata che serviva al tempo stesso da camera da letto e da laboratorio, incominciava appena a illuminarsi col bagliore dell'alba dalla finestra aperta, ma era una luce sufficiente per riconoscere immediatamente l'autorità della morte. Le altre finestre, così come qualsiasi altra fessura della stanza, erano imbavagliate da stracci o sigillate da cartoni neri, e questo ne aumentava la densità oppressiva. C'erano un bancone pieno di flaconi e boccette senza etichetta, e due bacinelle di peltro corroso sotto un fornello comune coperto di carta rossa. La terza bacinella, quella del fissante, era vicino al cadavere. Dappertutto c'erano riviste e giornali vecchi, pile di negativi su lastre di vetro, mobili rotti, ma tutto era preservato dalla polvere da una mano diligente. Anche se l'aria della finestra aveva purificato l'ambiente, rimaneva ancora, per chi l'avesse saputo riconoscere, il sentore tiepido degli amori disgraziati delle mandorle amare. Il dottor Juvenal Urbino aveva pensato più di una volta, senza animo premonitore, che quello non era un luogo propizio per morire in grazia di Dio. Ma col tempo aveva finito per supporre che il disordine che vi regnava obbedisse a una risoluzione cifrata della Divina Provvidenza. Un commissario di polizia era arrivato prima con uno studente di medicina molto giovane che faceva pratica nell'ambulatorio municipale, erano stati loro a ventilare la stanza e a coprire il cadavere fino all'arrivo del dottor Urbino. Tutti e due lo salutarono con una solennità che questa volta era più di condoglianze che di venerazione, dato che nessuno ignorava il grado di amicizia che aveva per Jeremiah de Saint–Amour. L'eminente maestro strinse loro la mano, come faceva da sempre con tutti i suoi allievi prima di incominciare la lezione quotidiana di clinica medica, poi prese il bordo della coperta con i polpastrelli dell'indice e del pollice, come se fosse un fiore, e scoprì il cadavere poco per volta con una circospezione sacramentale. Era completamente nudo, rigido e ritorto, con gli occhi aperti e il corpo azzurro, e come più vecchio di cinquant'anni rispetto alla notte precedente. Aveva le pupille diafane, la barba e i capelli giallognoli, e il ventre attraversato da una cicatrice di vecchia data cucita con punti da imballaggio. Il torace e le braccia avevano la larghezza da galeotto per il disagio delle grucce, ma le gambe inermi parevano quelle di un orfano. Il dottor Juvenal Urbino lo contemplò per un attimo con il cuore addolorato come pochissime volte nei lunghi anni della sua contesa sterile contro la morte. «Vigliacco» gli disse. «Il peggio era già passato.» Lo ricoprì e riassunse la sua aria accademica. L'anno prima aveva celebrato gli ottant'anni con un giubileo ufficiale di tre giorni, e nel discorso di ringraziamento aveva resistito ancora una volta alla tentazione di ritirarsi a vita privata. Aveva detto: «Mi avanzerà parecchio tempo per riposare quando sarò morto, ma questa eventualità non rientra ancora nei miei progetti». Anche se sentiva sempre di meno dall'orecchio destro e si appoggiava a un bastone con l'impugnatura d'argento per nascondere l'incertezza dei suoi passi, continuava a indossare con il portamento dei suoi anni giovanili il completo di lino con il gilè attraversato dalla catenella d'oro dell'orologio. La barba alla Pasteur, color madreperla, e i capelli dello stesso colore, con l'abito perfettamente stirato e con la riga netta in mezzo, erano espressioni fedeli del suo carattere. L'erosione della memoria, sempre più inquietante, la compensava fin dove gli era possibile con note scritte frettolosamente su fogliettini scompagnati, che finivano per confondersi in tutte le tasche, proprio come gli strumenti, le boccette di medicine, e tante altre cose disordinate nella valigetta strapiena. Non era solo il medico più vecchio e illustre della città, ma l'uomo più elegante. Tuttavia, il suo scibile troppo ostentato e il modo per nulla ingenuo di usare il potere del suo nome gli avevano procurato meno affetti di quanto meritasse. Le istruzioni al commissario e al praticante furono precise e rapide. Non era necessario fare l'autopsia. L'odore della casa bastava a stabilire che causa della morte erano state le emanazioni del cianuro attivato nella bacinella da qualche acido fotografico, e Jeremiah de Saint–Amour ne sapeva abbastanza per non farlo per caso. Di fronte a un dubbio del commissario, lo parò con una stoccata tipica del suo modo di essere: «Non si dimentichi che sono io a firmare il certificato di morte». Il medico giovane rimase deluso: non aveva mai avuto la possibilità di studiare gli effetti del cianuro di oro su un cadavere. Il dottor Juvenal Urbino era rimasto sorpreso di non averlo visto alla Scuola di Medicina, ma lo capì subito dal suo facile rossore e dalla pronuncia andina: probabilmente era uno arrivato da poco in città. Gli disse: «Non le mancherà qui qualche pazzo d'amore che gliene darà l'occasione, uno di questi giorni». E solo mentre lo diceva si rese conto che fra gli innumerevoli suicidi che ricordava, quello era il primo col cianuro che non fosse provocato da amori disgraziati. Qualcosa nella sua voce allora mutò. «Quando lo troverà, stia molto attento» disse al praticante: «di solito hanno della sabbia nel cuore». Poi parlò con il commissario come avrebbe fatto con un subalterno. Gli ordinò di darsi da fare perché il funerale fosse fatto quella sera stessa e con il massimo riserbo. Disse: «Ne parlerò poi con il sindaco». Sapeva che Jeremiah de Saint–Amour era di un'austerità primitiva, e che guadagnava con la sua arte più di quanto avesse bisogno per vivere, cosicché in qualche cassetto della casa doveva esserci denaro in abbondanza per le spese del funerale. «Ma se non lo trovate, non importa» disse. «Mi faccio carico io di tutto.» Ordinò di comunicare ai giornali che il fotografo era morto di morte naturale, anche se pensava che la notizia non li avrebbe interessati in nessun modo. Disse: «Se necessario, parlerò con il governatore». Il commissario, un impiegato serio e umile, sapeva che il rigore civico del maestro esasperava perfino i suoi amici più cari, ed era sorpreso dalla facilità con cui saltava le formalità legali per accelerare il funerale. L'unica cosa che non riuscì a fare fu parlare con l'arcivescovo, perché Jeremiah de Saint–Amour fosse seppellito in terra consacrata. Il commissario, addolorato per la sua impertinenza, cercò di scusarsi. «Avevo capito che quest'uomo era un santo» disse. «Qualcosa di ancora più strano» disse il dottor Urbino, «un santo ateo. Ma questi sono affari di Dio.» Lontano, dall'altra parte della città coloniale, si udirono le campane della cattedrale che chiamavano alla messa solenne. Il dottor Urbino inforcò gli occhiali a mezza luna con la montatura d'oro, e guardò l'orologio con la catenella, che era quadrato e sottile, con il coperchio a molla: stava per perdere la messa di Pentecoste. Nella sala c'era un'enorme macchina fotografica su ruote come quelle dei giardini pubblici e lo sfondo di un crepuscolo sul mare dipinto artigianalmente, e le pareti erano tappezzate di ritratti di bambini nelle loro date memorabili: la prima comunione, il mascheramento da coniglio, il compleanno felice. Il dottor Urbino aveva visto quei muri ricoprirsi giorno dopo giorno, anno dopo anno, durante le cavillosità assorte dei pomeriggi di scacchi, e aveva pensato spesso con un palpito di desolazione che in quella galleria di ritratti casuali c'era il germe della città futura, governata e pervertita da quei bambini incerti, e nella quale non sarebbero più rimaste neanche le ceneri della sua gloria. Sulla scrivania, vicino a un barattolo pieno di pipe da lupo di mare, c'era la scacchiera con una partita non conclusa. Malgrado la fretta e l'animo malinconico, il dottor Urbino non resistette alla tentazione di studiarla. Sapeva che era la partita della sera prima, dato che Jeremiah de Saint–Amour giocava tutti i pomeriggi della settimana e almeno con tre avversari diversi, ma arrivava sempre fino alla fine e poi metteva la scacchiera e le pedine nella scatola, e metteva la scatola in un cassetto della scrivania. Sapeva che giocava con i bianchi, e quella volta era evidente che sarebbe stato sconfitto senza rimedio in quattro mosse. «Se fosse stato un assassinio, qui ci sarebbe una buona pista» disse tra sé. «Conosco solo un uomo capace di preparare questa imboscata maestra.» Non avrebbe potuto vivere senza scoprire più tardi perché quel soldato indomito, abituato a battersi fino all'ultimo sangue, avesse lasciato inconclusa la guerra finale della sua vita. Alle sei di mattina, quando faceva l'ultima ronda, la guardia notturna aveva visto il cartello attaccato alla porta: "Entrate senza bussare e avvisate la polizia". Poco dopo era accorso il commissario con il praticante, e ambedue avevano ispezionato la casa in cerca di qualche evidenza contro l'odore inconfondibile delle mandorle amare. Ma nei pochi minuti che indugiò ad analizzare la partita incompiuta il commissario scoprì fra le carte della scrivania una busta indirizzata al dottor Juvenal Urbino, e protetta da tanti sigilli di ceralacca che fu necessario farla a pezzi per estrarne la lettera. Il medico scostò la tenda nera della finestra per avere più luce, diede prima un rapido sguardo agli undici fogli scritti da tutte e due le parti con una calligrafia comprensibile, e non appena ebbe letto il primo periodo capì di aver perso la comunione di Pentecoste. Lesse con l'animo agitato, tornando indietro in più pagine per riprendere il filo che aveva perso, e quando ebbe finito sembrava che tornasse da molto lontano e da molto tempo. La sua prostrazione era visibile nonostante lo sforzo che faceva per impedirlo: sulle labbra aveva lo stesso colore azzurro del cadavere, e non riuscì a dominare il tremore delle dita quando ripiegò la lettera e se la mise nel taschino del gilè. Allora si ricordò del commissario e del giovane medico, e gli sorrise dalle brume del dolore. «Niente di particolare» disse. «Sono le sue ultime volontà.» Era una mezza verità, ma loro la credettero completa perché lui ordinò di sollevare una mattonella non cementata del pavimento e lì trovarono un libro di conti molto usato che conteneva le chiavi per aprire la cassaforte. Non c'era tanto denaro quanto pensavano, ma ce n'era in abbondanza per le spese del funerale e per saldare altre incombenze minori. Il dottor Urbino era conscio in quel momento di non riuscire ad arrivare alla cattedrale prima del Vangelo. «E' la terza volta che perdo la messa della domenica da quando ho l'uso della ragione» disse. «Ma Dio capisce.» Cosicché preferì attardarsi qualche minuto di più per lasciare tutti i dettagli risolti, anche se riusciva a stento a sopportare l'ansia di dividere con sua moglie le confidenze della lettera. Si impegnò ad avvisare i numerosi rifugiati del Caribe che vivevano in città, nel caso avessero voluto rendere gli ultimi onori a chi si era comportato come il più rispettabile di tutti, il più attivo e radicale, anche dopo che era stato troppo evidente che aveva dovuto soccombere alla remora della disillusione. Avrebbe avvisato anche i suoi amici di scacchi, fra i quali c'erano da insigni professionisti fino a operai senza nome, e altri amici meno assidui, ma che probabilmente avrebbero voluto assistere alla cerimonia funebre. Prima di conoscere il contenuto della lettera postuma aveva deciso di essere il primo, ma dopo averla letta non era sicuro di niente. In ogni modo avrebbe mandato una corona di gardenie, nel caso che Jeremiah de Saint–Amour avesse avuto un ultimo minuto di pentimento. La cerimonia sarebbe stata alle cinque, che era l'ora più propizia nei mesi più caldi. Se avessero avuto bisogno di lui, da mezzogiorno sarebbe stato nella casa di campagna del dottor Lácides Olivella, suo amato discepolo, che quel giorno celebrava con un pranzo di gala le nozze d'argento con la professione. Il dottor Juvenal Urbino aveva abitudini facili da seguire, da quando erano passati gli anni tormentati delle prime armi, e aveva ottenuto una rispettabilità e un prestigio senza eguali nella provincia. Si alzava al primo canto del gallo, e a quell'ora incominciava a prendere le sue medicine segrete: bromuro di potassio per sollevarsi l'animo, salicilati per i dolori delle ossa quando pioveva, gocce di segale cornuta per i capogiri, belladonna per dormire bene. Prendeva qualcosa in ogni momento, sempre di nascosto, perché nella sua lunga vita di medico e maestro era stato sempre contrario a prescrivere palliativi per la vecchiaia: gli era più facile sopportare i dolori degli altri che i suoi. In tasca portava sempre un sacchettino di canfora che aspirava a fondo quando nessuno lo vedeva per togliersi la paura di tante medicine ingarbugliate. Restava un'ora nel suo studio, a preparare la lezione di clinica medica che tenne alla Scuola di Medicina tutti i giorni dal lunedì al sabato, alle otto in punto, fino alla vigilia della sua morte. Era anche un lettore attento alle novità letterarie che gli mandava per posta il suo libraio di Parigi, o quelle che ordinava a Barcellona dal suo libraio locale, anche se non seguiva la letteratura di lingua castigliana con tanta attenzione come quella francese. Comunque non leggeva mai di mattina, ma dopo la siesta per un'ora, e la sera prima di dormire. Finito lo studio, faceva quindici minuti di esercizi respiratori nel bagno, davanti alla finestra aperta, respirando sempre verso il lato da cui cantavano i galli, che era dove c'era l'aria nuova. Poi faceva il bagno, si regolava la barba e si impomatava i baffi in un ambiente saturo di acqua di colonia di Farina Gegenüber, e si vestiva di lino bianco, con gilè e cappello floscio, e stivaletti di pelle di capra. A ottantun anni conservava i modi facili e lo spirito allegro di quando era tornato da Parigi, poco dopo la grande epidemia di colera, e i capelli ben pettinati con la scriminatura in mezzo che continuava a essere uguale a quella della gioventù, salvo per il colore metallico. Faceva colazione in famiglia, ma con una dieta personale: un infuso di fiori di assenzio maggiore per il benessere dello stomaco e una testa d'aglio i cui spicchi pelava e mangiava a uno a uno masticandoli coscienziosamente con una pagnotta di pane, per prevenire gli affanni del cuore. Di rado non aveva dopo la lezione qualche impegno legato alle sue iniziative civiche o alla sua militanza cattolica o alle sue invenzioni artistiche e sociali. Pranzava quasi sempre a casa, faceva una siesta di dieci minuti seduto nella terrazza del patio, udendo in sogno le canzoni delle domestiche sotto le fronde dei manghi, udendo le urla dei venditori ambulanti della strada, il fragore di olii e motori della baia, i cui effluvi aleggiavano intorno alla casa nei pomeriggi caldi come un angelo condannato al marciume. Poi leggeva per un'ora i libri più recenti, specialmente romanzi e saggi storici, e dava lezioni di francese e di canto al pappagallo di casa che da diversi anni era un'attrazione locale. Alle quattro usciva a visitare i suoi malati, dopo essersi sorbito un gran boccale di limonata con ghiaccio. Nonostante l'età era contrario a ricevere i pazienti in studio, e continuava a seguirli a casa loro, come aveva fatto sempre, da quando la città era così domestica da potersene andare a piedi dovunque. Dopo che era arrivato dall'Europa, nei primi tempi girava sul landò di famiglia con due sauri dorati, ma quando questo era diventato inservibile lo aveva cambiato con una vittoria a un solo cavallo, e aveva continuato a usarla sempre con un certo disdegno nei confronti della moda, quando le carrozze incominciavano ormai a sparire dal mondo e le uniche che restavano in città servivano solo per portare in giro i turisti e le corone ai funerali. Anche se continuava a non volersi ritirare, sapeva benissimo che lo chiamavano solo per occuparsi di casi persi, ma considerava che anche questo fosse un tipo di specializzazione. Era capace di sapere quello che aveva un malato solo dal suo aspetto, e ogni volta si fidava meno delle medicine di moda e guardava allarmato alla volgarizzazione della chirurgia. Diceva: «Il bisturi è la prova maggiore dell'insuccesso della medicina». Pensava che con stretto criterio ogni medicina fosse un veleno e che il settanta per cento degli alimenti correnti affrettasse la morte. «In ogni caso» era solito dire nelle sue lezioni, «la poca medicina che si sa la sanno solo pochi medici.» Dai suoi entusiasmi giovanili era passato a una posizione che lui stesso definiva un umanesimo fatalista. «Ognuno è padrone della propria morte, e l'unica cosa che possiamo fare, arrivato il momento, è aiutarlo a morire senza paura né dolore.» Ma nonostante queste idee estreme, che facevano parte del folklore medico locale, i suoi antichi alunni continuavano a consultarlo anche quando erano già professionisti affermati, dato che gli riconoscevano quello che allora si chiamava occhio clinico. Comunque era sempre stato un medico caro ed esclusivo, e la sua clientela si era sempre concentrata nelle case avite del quartiere dei Viceré. Aveva una giornata così metodica che sua moglie sapeva dove mandargli un messaggio se succedeva qualcosa di urgente nel corso del pomeriggio. Da giovane si attardava al Caffè della Parrocchia prima di tornare a casa, e così aveva perfezionato i suoi scacchi con gli amici di suo suocero e con alcuni rifugiati del Caribe. Ma dagli albori del nuovo secolo non era più tornato al Caffè della Parrocchia e aveva cercato di organizzare tornei nazionali patrocinati dal Club Social. Era stata quella l'epoca in cui era venuto Jeremiah de Saint–Amour, già con i suoi ginocchi morti e ancora senza l'attività di fotografo di bambini, e prima che fossero passati tre mesi era conosciuto da chiunque sapesse muovere un alfiere sulla scacchiera, perché nessuno era riuscito a vincergli una partita. Per il dottor Juvenal Urbino era stato un incontro miracoloso, in un momento in cui gli scacchi si erano trasformati per lui in una passione indomabile e non gli restavano più molti avversari per saziarla. Grazie a lui, Jeremiah de Saint–Amour aveva potuto essere quello che era stato fra di noi. Il dottor Urbino si era trasformato nel suo protettore incondizionato, nel suo garante di tutto, senza prendersi nemmeno la fatica di verificare chi fosse, né che cosa facesse, né da quali guerre senza gloria venisse in quello stato di invalidità e di sconcerto. Infine gli aveva prestato il denaro per metter su la bottega da fotografo, che Jeremiah de Saint– Amour gli aveva pagato con un rigore da passamantiere, fino all'ultimo centesimo, da quando aveva ritratto il primo bambino impaurito dal lampo di magnesio. Tutto era stato per gli scacchi. All'inizio giocavano alle sette di sera, dopo cena, con ragionevoli vantaggi per il medico vista la superiorità notevole dell'avversario, ma ogni volta con meno vantaggi, finché erano stati pari. Più tardi, quando don Galileo Daconte aprì la prima sala cinematografica, Jeremiah de Saint–Amour era uno dei suoi clienti più puntuali, e le partite di scacchi si erano ridotte alle sere in cui non c'erano "prime". A quell'epoca era diventato così amico del medico che questi lo accompagnava al cinema, ma sempre senza la moglie, un po' perché lei non aveva la pazienza di seguire il filo degli argomenti difficili, un po' perché gli era sempre parso, a naso, che Jeremiah de Saint– Amour non fosse una buona compagnia per nessuno. Il suo giorno diverso era la domenica. Assisteva alla messa solenne nella cattedrale, e poi tornava a casa e lì rimaneva a riposare e a leggere sulla terrazza del patio. Raramente usciva a visitare un malato in una festa di precetto, se non era di estrema urgenza, e da molti anni non accettava un impegno sociale che non fosse strettamente obbligatorio. Quel giorno di Pentecoste, per un caso eccezionale, erano successi contemporaneamente due avvenimenti rari: la morte di un amico e le nozze d'argento di un suo eminente discepolo. Tuttavia, invece di ritornare direttamente a casa, come aveva previsto dopo aver certificato la morte di Jeremiah de Saint–Amour, si era lasciato prendere dalla curiosità. Appena salito in carrozza, aveva riletto rapidissimamente la lettera postuma, e aveva ordinato al cocchiere di portarlo a un indirizzo difficile nel vecchio quartiere degli schiavi. Quella decisione era così estranea alle sue abitudini che il cocchiere volle assicurarsi che non ci fosse qualche errore. Non c'era: l'indirizzo era chiaro, e chi lo aveva scritto aveva motivi a iosa per conoscerlo molto bene. Il dottor Urbino era tornato allora al primo foglio, e si era immerso di nuovo in quella sorgente di rivelazioni sgradevoli che avrebbero potuto cambiargli la vita, persino alla sua età, se fosse riuscito a convincersi che non erano i deliri di uno privo di ogni speranza. L'umore del cielo aveva incominciato ad alterarsi da molto presto, ed era nuvoloso e fresco, ma non c'erano rischi di pioggia prima di mezzogiorno. Cercando di trovare un cammino più breve, il cocchiere si era infilato nelle vie impervie di pietra della città coloniale, e aveva dovuto fermarsi parecchie volte perché il cavallo non si spaventasse con il disordine dei collegi e delle confraternite religiose che ritornavano dalla liturgia della Pentecoste. C'erano ghirlande di carta per le strade, musiche e fiori, e ragazze con ombrellini colorati e abiti leggeri di mussolina che guardavano passare la festa dai balconi. Nella Piazza della Cattedrale, dove si distingueva solo la statua del Libertador1 fra le palme africane e i nuovi lampioni a globo, c'era un imbottigliamento di automobili per l'uscita dalla messa e non c'era un posto libero nel venerabile e rumoroso Caffè della Parrocchia. L'unica carrozza era quella del dottor Urbino, e si distingueva dalle pochissime che restavano ancora in città perché aveva sempre mantenuto la cappotta di pelle verniciata lucida e aveva i ferramenti di bronzo perché non se li mangiasse il salino, e le ruote e le stanghe dipinte di rosso con i bordini dorati, come nelle serate di gala dell'Opera di Vienna. Per di più, mentre le famiglie più eleganti si accontentavano che i loro cocchieri avessero la camicia pulita, lui continuava a esigere dal suo la livrea di velluto vizzo e la tuba da domatore di circo, che, oltre a essere anacronistiche, venivano giudicate come una mancanza di misericordia nella canicola del Caribe. Malgrado il suo amore quasi maniacale per la città, e benché la conoscesse meglio di chiunque altro, il dottor Juvenal Urbino aveva avuto molto raramente un motivo come quello di quella domenica per avventurarsi senza reticenze nel fragore del vecchio quartiere degli schiavi. Il cocchiere aveva dovuto fare parecchi giri e domandare diverse volte per trovare l'indirizzo. Il dottor Urbino aveva riconosciuto da vicino la pesantezza delle paludi, il loro silenzio fatidico, i loro olezzi da affogato che in tante albe insonni salivano su fino alla sua camera da letto confusi con la fragranza dei gelsomini del patio, e che lui sentiva passare come un vento di ieri che non aveva niente a che vedere con la sua vita. Ma quella pestilenza tante volte idealizzata dalla nostalgia si era trasformata in una realtà insopportabile quando la carrozza aveva incominciato a saltare nel fango delle strade dove gli avvoltoi si contendevano gli avanzi del mattatoio trascinati dalla marea. A differenza della città dei viceré, le cui case erano in muratura, lì erano fatte di legno scolorito e tetti di zinco, e la maggioranza poggiava su palafitte per non farci entrare le piene delle fogne all'aperto ereditate dagli spagnoli. Tutto aveva un aspetto miserabile e abbandonato, ma dalle taverne sordide veniva lo strepito di musica di festa senza Dio né legge della Pentecoste dei poveri. Quando infine trovarono l'indirizzo, la carrozza era seguita da comitive di bambini nudi che si burlavano dell'abbigliamento teatrale del cocchiere, e lui doveva scacciarli con la frusta. Il dottor Urbino, che si era preparato a una visita confidenziale, capì troppo tardi che non esisteva ingenuità più pericolosa di quella della sua età. L'esterno della casa senza numero non aveva niente che la distinguesse dalle meno felici, all'infuori della finestra con le tende di pizzo e un portone smontato da qualche chiesa antica. Il cocchiere fece risuonare il batacchio della porta, e solo quando ebbe verificato che era l'indirizzo giusto aiutò il medico a scendere dalla carrozza. Il portone si era aperto 1 E' Simón Bolívar (1783-1830). (Nota del Traduttore). senza fare rumore, e nella penombra dell'interno c'era una donna matura, vestita tutta di nero e con una rosa rossa dietro un orecchio. Malgrado i suoi anni, che non erano meno di quaranta, era ancora una mulatta superba, con gli occhi dorati e crudeli, e i capelli adattati alla forma del cranio come un casco di cotone di ferro. Il dottor Urbino non la riconobbe, anche se l'aveva vista diverse volte fra le nebbie delle partite a scacchi nello studio del fotografo, e in qualche occasione le aveva prescritto delle cartine di chinino per la febbre terzana. Le tese la mano, e lei la prese fra le sue, più per aiutarlo a entrare che per salutarlo. La sala aveva il clima e il mormorio invisibile di una foresta, ed era piena di mobili e begli oggetti, ognuno al suo posto naturale. Il dottor Urbino si ricordò senza amarezza della bottega di un antiquario di Parigi, un lunedì d'autunno del secolo scorso, al numero 26 di Rue Montmartre. La donna si sedette davanti a lui e gli parlò in un castigliano difficile. «Questa è casa sua, dottore» disse. «Non l'aspettavo così presto.» Il dottor Urbino si sentì denunciato. La osservò con il cuore, osservò il suo lutto intenso, la dignità della sua angoscia, e allora capì che quella era una visita inutile, perché lei sapeva più di lui tutto quanto era detto e giustificato nella lettera postuma di Jeremiah de Saint–Amour. Era così. Lei lo aveva accompagnato fino a pochissime ore prima della morte, così come lo aveva accompagnato per quasi vent'anni con una devozione e un affetto sottomessi che erano troppo simili all'amore, e senza che nessuno lo sapesse in questa sonnolenta capitale di provincia dove erano di dominio pubblico perfino i segreti di stato. Si erano conosciuti in un ricovero per viandanti di Port–au-Prince, dove lei era nata e dove lui aveva passato i suoi primi tempi da fuggiasco, e lo aveva seguito fin qui un anno dopo per una visita breve, anche se tutti e due sapevano senza essersi messi d'accordo che era venuta per fermarsi per sempre. Lei si occupava di tenere pulito e in ordine lo studio una volta alla settimana, ma neanche i vicini più malpensanti avevano confuso le apparenze con la verità, perché supponevano come tutti che l'invalidità di Jeremiah de Saint–Amour non riguardasse solo il camminare. Lo stesso dottor Urbino lo supponeva per ragioni mediche ben fondate, e non avrebbe mai creduto che avesse una donna se lui stesso non glielo avesse rivelato nella lettera. In ogni modo stentava a capire come due adulti liberi e senza passato, ai margini di una società ripiegata su se stessa, avessero scelto il rischio degli amori proibiti. Lei glielo spiegò: «Era quello che gli piaceva». E, in più, la clandestinità divisa con un uomo che non era mai stato completamente suo, e nella quale più di una volta avevano conosciuto l'esplosione improvvisa della felicità, non le era sembrata una condizione indesiderabile. Anzi: la vita le aveva dimostrato che forse era stata esemplare. La sera prima erano andati al cinema, ognuno per proprio conto e in posti lontani, come facevano almeno due volte al mese da quando l'immigrante italiano don Galileo Daconte aveva installato un salone all'aperto nei ruderi di un convento del diciassettesimo secolo. Avevano visto un film tratto da un libro che era stato di moda l'anno prima, e che il dottor Urbino aveva letto col cuore afflitto per la barbarie della guerra: "All'Ovest niente di nuovo". Si erano ritrovati poi nello studio, e le era sembrato sperduto e nostalgico, e aveva pensato che fosse per le scene brutali dei feriti moribondi nel fango. Cercando di distrarlo lo aveva invitato a giocare a scacchi, e lui aveva accettato per farla contenta, ma giocava senza attenzione, con i bianchi, naturalmente, finché aveva scoperto prima di lei che sarebbe stato sconfitto in quattro mosse, e si era arreso senza onore. Il medico capì allora che il contendente della partita finale era stata lei e non il generale Jerónimo Argote, come lui aveva supposto. Mormorò sbigottito: «Era una partita da maestro!» Lei insistette che il merito non era suo, ma che Jeremiah de Saint–Amour, già smarrito nelle brume della morte, muoveva le pedine senza amore. Interrotta la partita, verso le undici e un quarto, dato che era già finita la musica dei balli pubblici, lui le aveva chiesto di lasciarlo solo. Voleva scrivere una lettera al dottor Juvenal Urbino, che considerava l'uomo più rispettabile che avesse mai conosciuto, e anche un amico dell'anima, come gli piaceva dire, benché la loro unica affinità fosse il vizio degli scacchi inteso come un dialogo della ragione e non come una scienza. Allora lei aveva saputo che Jeremiah de Saint–Amour era arrivato al termine dell'agonia, e che non gli rimaneva più tempo di vita all'infuori di quello necessario per scrivere la lettera. Il medico non riusciva a crederci. «E così lei lo sapeva!» esclamò. Non solo lo sapeva, confermò lei, ma lo aveva aiutato a sopportare l'agonia con lo stesso amore con cui lo aveva aiutato a scoprire la felicità. Perché questo erano stati i suoi ultimi undici mesi: una crudele agonia. «Doveva dirlo pubblicamente» disse il medico. «Non avrei potuto fargli questo» disse lei, scandalizzata: «lo amavo troppo». Il dottor Urbino, che credeva di averle sentite tutte, non aveva mai sentito nulla di simile, e detto in un modo così semplice. La guardò risolutamente con i cinque sensi per fissarla nella sua memoria come era in quel momento: sembrava un idolo fluviale, impavida nel suo vestito nero, con gli occhi da vipera e la rosa dietro l'orecchio. Molto tempo prima, su una spiaggia solitaria di Haiti dove tutti e due giacevano nudi dopo l'amore, Jeremiah de Saint–Amour aveva sospirato improvvisamente: «Non sarò mai vecchio». Lei lo aveva interpretato come un proposito eroico di lottare senza quartiere contro i danni del tempo, ma lui era stato più esplicito: aveva deciso irrevocabilmente di togliersi la vita a sessant'anni. Li aveva compiuti, in effetti, il 23 gennaio di quell'anno, e allora aveva fissato come termine ultimo la vigilia di Pentecoste, che era la festa più importante della città consacrata al culto dello Spirito Santo. Non c'era nessun particolare della notte precedente che lei non avesse conosciuto anticipatamente, e ne parlavano spesso, sopportando insieme il torrente irreparabile dei giorni che ormai né lui né lei potevano arrestare. Jeremiah de Saint–Amour amava la vita con una passione senza senso, amava il mare e l'amore, amava il suo cane e lei, e più la data si avvicinava più soccombeva alla disperazione, come se la sua morte non fosse stata una decisione sua quanto un destino inesorabile. «Ieri sera, quando l'ho lasciato solo, non era già più di questo mondo» disse lei. Avrebbe voluto portarsi via il cane, ma lui lo aveva guardato mentre dormiva vicino alle grucce e lo aveva accarezzato con la punta delle dita. Aveva detto: «Mi dispiace, ma Mister Woodrow Wilson se ne va con me». Le aveva chiesto di legarlo alla gamba della branda mentre lui scriveva, e lei lo aveva fatto con un nodo finto perché potesse liberarsi. Era stato il suo unico atto di slealtà ed era giustificato dal desiderio di continuare a ricordare il padrone negli occhi invernali del suo cane. Ma il dottor Urbino la interruppe per dirle che il cane non si era liberato. Lei disse: «Allora è stato perché non ha voluto». E ne fu contenta, perché preferiva continuare a evocare l'amante morto come lui le aveva chiesto la sera prima, quando aveva interrotto la lettera che aveva incominciato e l'aveva guardata per l'ultima volta.
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