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Fuoco pallido. W.G. Sebald: l'arte della trasformazione PDF

117 Pages·2019·1.65 MB·Italian
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GLI ANELLI DI SATURNO / 2 Estetica, media e linguaggi dell’arte DIREZIONE S T ALVATORE EDESCO COMITATO SCIENTIFICO Felice Cimatti (Cosenza), Michele Guerra (Parma), Enrica Lisciani Petrini (Salerno), Winfried Menninghaus (Frankfurt am Main), Salvatore Tedesco (Palermo), Pierandrea Amato (Messina) Salvatore Tedesco Fuoco pallido W.G. Sebald: l’arte della trasformazione MELTEMI Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Gli anelli di Saturno, n. 2 Isbn: 9788855190138 © 2019 – MELTEMI PRESS SRL Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232 A mia madre Sigle e nota editoriale Nel corso del testo si fa uso delle seguenti sigle, accompagnate dall’indicazione del numero di pagina nell’edizione tedesca e in quella italiana: A: W.G. Sebald, Austerlitz (2001), Fischer, Frankfurt am Main 2015; ed. it. Austerlitz, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2002. AW: W.G. Sebald, Die Ausgewanderten. Vier lange Erzählungen (1992), Fischer, Frankfurt am Main 2015; ed. it. Gli emigrati, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2007. NN: W.G. Sebald, Nach der Natur. Ein Elementargedicht (1988), Fischer, Frankfurt am Main 2008; ed. it. Secondo natura. Un poema degli elementi, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2009. RS: W.G. Sebald, Die Ringe des Saturn. Eine englische Wallfahrt (1995), Fischer, Frankfurt am Main 2007; ed. it. Gli anelli di Saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2010. SG: W.G. Sebald, Schwindel. Gefühle (1990), Fischer, Frankfurt am Main 2013; ed. it. Vertigini, trad. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2003. Una prima redazione del capitolo quarto è apparsa sul “Bollettino filosofico”, XXXII, 2017, pp. 389-409; una prima redazione del capitolo quinto è apparsa su “Giornale di Metafisica”, 2, 2015, pp. 261-270; infine, una prima redazione del capitolo sesto è apparsa in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del Ventunesimo secolo, Meltemi, Milano 2018, pp. 85-97. Si ringraziano editori e curatori per il permesso di riprendere qui quei testi. Introduzione Wir studieren die Ordnung der Dinge, aber was angelegt ist in ihr, erfassen wir nicht. Darum dürfen wir unsere Philosophie bloß in kleinen Buchstaben schreiben, in den Kürzeln und Stenogrammen der vergänglichen Natur, auf denen allein der Abglanz der Ewigkeit liegt. W.G. Sebald, Die Ringe des Saturn Questo libro nasce dal bisogno, comune suppongo a molti lettori di Sebald, di ritornare circostanziatamente su alcuni, su pochi passi della sua opera poetica e critica, per riprendere a seguirne i percorsi, per scorgere ulteriori strati, ulteriori tempi che vi sono custoditi. Si sarebbe forse tentati per questo aspetto di rinviare addirittura alle “idee estetiche” kantiane, a quelle rappresentazioni dell’immaginazione che danno molto da pensare, senza che alcun concetto determinato sia ad esse adeguato, se non fosse per il netto tenore cosale che in generale domina tali passi sebaldiani, per l’ostinazione con cui le venature materiali vi vengono messe in risalto, e reiterate, e disposte come pietre segnaletiche di una geografia o stratigrafia che forse non ha analoghi per densità tematica ed esiti estetici nella scrittura del nostro tempo. Dico, ad esempio, di quanto accade nei versi d’apertura del poemetto Nach der Natur, prima ancora che ci venga incontro la figura malinconica di San Giorgio, il suo sguardo con quel fardello d’afflizione e quella irregolarità negli occhi (NN 7-8, 13-14); ben prima di tutto ciò, prima dell’immagine, Sebald prescrive e addita un doppio movimento di chiusura a seguito del quale quel volto potrà indirizzare il suo sguardo verso di noi: Wer die Flügel des Altars der Pfarrkirche von Lindenhardt zumacht und die geschnitzten Figuren in ihrem Gehäuse verschließt, dem kommt auf der linken Tafel der hl. Georg entgegen (NN 7, 131). Un doppio segnale motorio che dice una chiusura, una negazione; la quasi spontaneità nel reiterato farsi incontro di un volto; finalmente la storia di un’immagine sunteggiata in uno sguardo, nella sua irregolarità. Vorremmo trattenerci su queste dinamiche; crediamo che anzitutto di esse si costruisca e su di esse s’interroghi un’estetica. Sebald ha descritto una volta questo movimento parlando di una tensione e contrapposizione protostorica fra quanto è privo di forma e il processo formante (Ungestalt e Gestaltung), del paesaggio illuminato che ci si distende innanzi quale esito visibile di quell’antico processo, e dello “inindagato areale”, dell’“immensa selva” che ad un’indagine più ravvicinata si mostra dietro quel paesaggio2. Sebald dice della sensazione di vertigini come del punto d’indifferenza nell’espressione delle emozioni dinanzi alla bellezza delle immagini naturali ed artistiche, e della qualità anonima di quell’orrore atterrante che ci attraversa a fronte della rievocazione delle prime impressioni figurative peculiari di quegli stadi prelinguistici della vita in cui “mondo interno e mondo esterno non sono ancora divisi fra loro, mutando incessantemente l’uno nell’altro in un diffuso avvertimento del dolore”3. E a tutto ciò si associa l’inevitabile congettura che l’innalzamento del grado di ordine conseguito con l’attività artistica non dica tanto del superamento dell’angoscia primordiale, ma tutto al contrario costituisca un’anticipazione del sempre imminente irrompere della distruzione. Quali transizioni avvengono dunque in quei gesti motori, in quello stadio eminentemente estetico ed emozionale, fra quella preistoria e l’immagine, fra il prelinguistico e l’elaborazione artistica? Quali attese in quell’anticipazione, e quali bilanciamenti hanno luogo in quelle vertigini? Ed ancora, se è vero che quella sensazione panica d’orrore si qualifica come anonima, in che relazione sta quella preistoria con il vissuto sentimentale del “soggetto narrante”4 che ne sperimenta il ricorrere? L’incipit della terza sezione di Nach der Natur appare per più versi proseguire queste domande, ritornare sul soggetto narrante, sul senso di quell’ordine e di quell’anticipazione, raccogliendosi sulla preistoria dell’immagine: Schwer zu entdecken sind nämlich die zwischen den Schiefertafeln eingelagerten geflügelten Wirbeltiere der Vorzeit. Seh ich aber die Nervatur des vergangenen Lebens vor mir in einem Bild, dann denk ich immer, es hätte dies etwas mit der Wahrheit zu tun. Das Gehirn arbeitet ja fortwährend mit irgendwelchen und sei es ganz schwachen Spuren der Selbstorganisation, und manchmal entsteht daraus eine Ordnung, stellenweis schön und beruhigend, doch auch grausamer als der vorherige Zustand der Ignoranz (NN 71, 775).5 Tornerò diffusamente sulle tematiche qui poste in indice; quel che al momento occorre osservare è invece appunto la lettura stratigrafica verso cui Sebald ci indirizza. Le deboli tracce della vita organica custodite fra lamine di scisto, il lento processo di apprendimento che conduce verosimilmente da Archaeopteryx lithographica al soggetto narrante, ci restituiscono un ordine a tratti (stellenweis) bello e pacificante, eppure intimamente legato a qualcosa di più crudele della nostra precedente condizione di ignoranza; poste in immagine, le nervature di quella vita che ci precede – anzi piuttosto: che mi precede, che precede il singolo io nella sua finitezza, nella sua contingenza – mostrano un rapporto tanto evidente quanto impenetrabile con la verità. Dove si arresta l’operazione di risalimento in questa lettura stratigrafica? Quale livello di consistenza delle nervature della vita passata sarà sufficiente – e quale tipo di elaborazione artistica sarà richiesto – per consentire che l’immagine soggiacente acquisisca la luce ad essa adeguata? Nach der Natur ci fornisce una risposta “prossimale”, eppure per alcuni versi sorprendente, proponendoci di arrestarci a una fotografia di quella mattina del 9 gennaio 1905 in cui i nonni dell’autore si misero in marcia da Klosterlechfeld a Obermeitingen per sposarsi, e così dare inizio alla vicenda novecentesca dei Sebald. Per inciso è vero che entrambe le località della bassa Baviera si trovano ormai a un’oretta d’automobile da Solnhofen6 (il sito di rinvenimento di Archaeopteryx), ma senz’altro colpisce il lettore l’abisso che si scava fra i due accenti così vicini, simile in questo a quanto avviene con certi intervalli minimi nella musica atonale, abissalmente lontani sul piano armonico. Se non è difficile rintracciare già in assoluta prossimità a questi versi una traccia della riflessione sebaldiana sul processo di sviluppo che in senso tecnico-artistico conduce dalla lastra litografica preistorica alla lastra fotografica allora ancora in possesso dell’autore, ed intendo in senso specifico una riflessione sulle antinomie storiche e artistiche connesse alla tecnica della luce7, la scena tuttavia – come è peculiare dell’ambivalenza fra pathos e ridicolo che informa fra tessitura e destrutturazione i racconti cosmogonici8 – si presta a un capovolgimento, a una trasformazione vagamente grottesca e in certo modo persino macabra che ravvisa appunto quel passato lontanissimo nel presente: scorciato e distorto punto per punto sin quasi all’irriconoscibilità. Ecco la stessa scena ancestrale riproposta da Sebald in un fondamentale lavoro su Herbert Achternbusch9: Per giungere alla verità, ad ogni modo, non abbiamo bisogno di tornare agli antipodi preistorici. Persino a Plattling, come ci mostra l’omonima pièce di Achternbusch, tutto è coperto di cemento. Plattling, nella bassa Baviera, una specie di confino, è ora un grande snodo autostradale. E nel centro, mezzo matto e mezzo angelo, la pièce ci mostra il profeta Herbert, un ramo di palma in mano, che cerca di vedere se c’è ancora la possibilità di salvare qualcosa. Le lamine di scisto sono piuttosto una colata di cemento, ed il faticoso emergere della vita intelligente dalle tracce dei vertebrati alati collassa adesso nel compiuto chiasma dell’immagine del profeta mezzo matto e mezzo angelo. Quale verità è dunque in gioco? È ancora possibile salvare qualcosa, per quest’angelo dimidiato che piuttosto che alla celebrazione storica del passato sembra intento alla lamentazione funebre del presente10? Il senso di queste domande troverà ancora eco nella conclusione del poemetto, in cui Sebald ci indirizza verso lo sguardo che attraversa il paesaggio della Alexanderschlacht di Albrecht Altdorfer, che costituisce anche uno dei riferimenti costanti nonché addirittura il titolo di un romanzo di Herbert Achternbusch11. La tessitura poetica del citato passo d’apertura della sezione ci offre tuttavia un rinvio ulteriore e inatteso mostrandoci come quella scena ancestrale costituisca in effetti a sua volta la ripetizione di una scrittura più antica, inducendoci a risalire al primo testo edito da Sebald ventenne in una piccola rivista studentesca: Schwer zu verstehen ist nämlich die Landschaft, wenn du im D-Zug von dahin nach dorthin vorbeifährst, während sie stumm dein Verschwinden betrachtet.12 Il tacere del paesaggio dinanzi allo svanire del soggetto umano costituisce forse già uno dei vertici estetici della scrittura di Sebald, uno dei momenti più potenti di un dialogo fra la lingua dell’uomo e un linguaggio ad essa precedente; il panorama certo diventerà in seguito più complesso e la profondità storica di quel paesaggio prenderà quasi fuoco13, ma raramente la superficie della vita umana e di quell’esistenza più antica giungeranno a toccarsi con tanta nettezza.

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