ebook img

Fronte d'Africa-guerra fascista morte diario lettere osprey PDF

458 Pages·2005·1.782 MB·French
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Fronte d'Africa-guerra fascista morte diario lettere osprey

Giulio Bedeschi FRONTE D'AFRICA: C'ERO ANCH'IO Una testimonianza corale su ciò che i soldati fascisti italiani ebbero a vivere e a patire per aver invaso il fronte dell'Africa settentrionale durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la pubblicazione di Centomila gavette di ghiaccio, il romanzo che ha raccontato agli italiani l'invasione fascista della Russia e la tragica ritirata conseguente, Giulio Bedeschi ricevette centinaia di testimonianze di reduci fascisti che gli affidarono le loro storie e i loro ricordi. Bedeschi raccolse e catalogò questa enorme mole di testimonianze e diede vita alla serie C'ero anch'io, un'opera senza precedenti nella letteratura italiana. In questo volume sono raccolte le testimonianze di chi partecipò alle battaglie nei deserti africani. Un'antologia di esperienze vissute che mette in luce non solo dettagli importanti delle battaglie in Africa settentrionale, ma propone al lettore una galleria di ritratti di soldati che in prima persona narrano speranze e illusioni della tragedia della guerra voluta dal duce. Giulio Bedeschi (Arzignano 1915-Verona 1990), ufficiale medico, andò volontario prima sul Fronte grecoalbanese, poi, nel 1942, venne trasferito sul fronte russo dove, con gli alpini della «Julia», visse la tragedia della ritirata che raccontò nel suo capolavoro, Centomila gavette di ghiaccio (Mursia 1963). Tutte le opere di Giulio Bedeschi sono edite in Italia da Mursia: Il peso dello zaino, La mia erba è sul Don, Il Natale degli Alpini e Il segreto degli Alpini. Copyright 1979 Ugo Mursia Editore S. p.A. Tutti i diritti riservati - Printed in Italy 2251/AC - Ugo Mursia Editore S. p.A. - Milano Stampato da Digital Print Service - Segrate PREFAZIONE Mi tornano spesso alla memoria quei giorni dell'estate 1942. Allorché noi del Corpo d'Armata Alpino per alcune settimane attraversammo buona parte dell'Ucraina, marciando da ovest a est verso il Don. Alla mattina all'alba eravamo in marcia, ci si fermava prima del tramonto; il solleone ci picchiava in testa per tutto il giorno, specie nel pomeriggio ogni poco qualche alpino e perfino qualche mulo stramazzavano per la calura, la stanchezza e l'insolazione. Dalla grande pista nella steppa saliva, per il moto di zampe e scarponi, un polverone rossiccio che ci avviluppava come una coltre e si innalzava su di noi per centinaia di metri, in poche ore la pelle del viso del collo delle braccia si copriva di rosso e il polverone si ispessiva sui volti tanto che a guardarci reciprocamente non ci si riconosceva, sfumavano i connotati, vecchi amici erano costretti a chiedersi l'un l'altro il nome, il cognome, fissandosi con gli occhi orlati di grumi rossi, c'era una gran sete ma non c'era l'acqua. Tuttavia, quasi a consolazione, e con una punta di pena gli alpini ben spesso concludevano, nello scambiarsi qualche parola: «accontentiamoci, accontentiamoci, i nostri soldati che combattono sotto il sole dell'Africa, a quest'ora stanno ben peggio di noi». Quando poi venne l'inverno ed eravamo in linea stabilizzata sul Don, interrati come talpe nei rifugi che ci eravamo scavati, e non era ancora arrivata la gran buriana e potevamo scaldarci perfino con le nostre stufette, allorché affioravamo sulla neve per guardarci intorno o per eseguire i vari servizi di linea, e subito ci mordevano naso e mani e piedi i trenta gradi sotto lo zero, il commento usuale era questo: «Dal freddo, bene o male ci si riesce a riparare; ma pensiamo a quei poveretti in Africa: come si fa a ripararsi dal caldo e dal sole, nel deserto? Chissà cosa devono patire, quelli !» Ecco, in questo libro i soldati italiani del Fronte d'Africa raccontano. È il terzo della serie: ... c'ero anch'io, e segue il Nikolajewka e il Fronte grecoalbanese. Prende corpo, così, con maggiore evidenza, il disegno generale che ci siamo proposti di sviluppare e attuare in un certo numero di anni, compiendo uno sforzo singolare che ha le sue molte ragioni d'essere. Appare sempre più importante, infatti, che in un periodo storico come quello che stiamo attraversando, nel quale l'incalzare di tempi frenetici pare annichilire e vanificare le singole vite e annullare con esse ogni altra esperienza passata, resti invece testimonianza, vasta e sicura per quanto possibile, di ciò che l'uomo operò e patì, generazione per generazione. La presente è una testimonianza corale su ciò che i soldati italiani ebbero a vivere e a patire sul Fronte dell'Africa Settentrionale, durante la seconda guerra mondiale. È il terzo pilastro di una struttura che va moltiplicandosi tra le nostre mani, in un assillante e quanto mai impegnativo lavoro, mediante il quale un mattone si giustappone a un altro mattone, e le centinaia allineate formano le migliaia, nel preciso intento di lasciar memoria collettiva al di là delle nostre stesse vite, e di offrire immagine di demarcazione fra ciò che furono gli errori commessi dalla nostra generazione, e quella che invece fu la capacità di offerta e di sacrificio che, in una guerra perduta, la stessa generazione trovò parimenti modo di esprimere, nella travagliata e tragica ricerca del proprio avvenire. Alla opportunità di insistere a suffragare con dirette testimonianze tale distinzione, ci inducono le ormai innumerevoli lettere e i contatti con giovani di tutti i ceti ed estrazioni sociali, che ci esprimono la loro solidarietà per quest'opera di scavo minuto che andiamo compiendo nel contesto sottile della nostra storia di popolo, e ci manifestano esplicitamente la loro gratitudine per essere posti in condizione di riuscire a dare una identità comprensibile e talvolta impregnata di ammirazione al vero ma sconosciuto volto del proprio padre, e di ritrovare in esso - per il fatto di leggere e finalmente e direttamente «sapere» - una dignità quale le dicerie d'accatto, le leggende incrostate di interessi, e le narrazioni sommarie, storiche o pseudostoriche, ignorando la individuale partecipazione umana, abitualmente trascurano o neppure sottintendono; o deformano volgendola al negativo, per deliberato partito preso. Di libro in libro, al contrario, sempre più chiaro appare il nostro disegno, che non è quello di costruire un'opera scientifica storiografica in più volumi, ma di riunire invece una notevole quantità di materiale umano spontaneamente offerto, atto a umanizzare la nostra storia militare, la cosiddetta grande storia, quale risulta pietrificata in tomi già consacrati. Per i quali, con tutto il rispetto dovuto agli Autori, generali o storici professionisti che siano, l'unità di misura è il reggimento o addirittura il corpo d'armata, e non il singolo uomo, il soldato, che invece è il vero protagonista e insieme la vera vittima d'ogni evento militare, dovunque l'uomo è indotto e costretto a uccidere o farsi uccidere a causa di una stessa legge, eguale ma di segno opposto, promulgata da altri uomini disposti in opposti versanti, ma da quel punto e in quell'ora egualmente assai lontani. In questa serie di libri, più che la voce dei comandanti d'alto e d'altissimo grado, che tuttavia non manca, sono le voci dei gregari che danno volume e spessore al racconto, in una sorta di narrativa non d'invenzione, ma narrativa collettiva, in cui ciascuno è stato lasciato libero di scrivere come e cosa volle, scegliendo il tono e il modo di narrare che gli sembrò più congeniale, e giusto, affinché dal ricordo e dalla coscienza venisse estratta la verità, la «sua» verità. Quindi: la verità per la verità, per l'impegno a testimoniare su eventi accaduti agli uomini, e basta; o, inoltre, la verità affinché essa ammonisca, o insegni ad altri uomini, e ne nasca una morale, un dato utile da meditare, un incentivo ad agire o a rifiutarsi consapevolmente e responsabilmente quand'ancora sì è in tempo, e il peggio non è venuto. La verità vissuta per esperienza propria, infine, sulla propria carne: il più umile ma generoso e vivo dono che uomo possa offrire ad altro uomo. Ecco, in questo libro i soldati del Fronte d'Africa raccontano. Ciascuno ha compiuto il suo sforzo ed ha scritto alla sua maniera, fissando i particolari che gli sono rimasti scolpiti nell'animo. Ne è risultato un libro composito, traboccante di situazioni e di angolature, di episodi e di stati d'animo i più vari. Della situazione «guerra» emergono via via le varie facce, i più impensabili dettagli, gli aspetti umani e quelli disumani. Alcuni scritti sono stati vergati frettolosamente a matita su un libriccino nelle soste fra un'azione e l'altra, e custoditi poi per quattro decenni, rispuntano ora con l'autorevolezza delle cose fermate sulla carta mentre si vivevano. Qualche pagina di diario è stata trovata nelle tasche della divisa di qualcuno che poco dopo cadde, e la pietà dei commilitoni compose, consegnando poi ai familiari le pagine gelosamente custodite che qui vedono la luce, a testimoniare per il soldato caduto. Altri scritti, per converso, sono frutto di meditazioni durate trent'anni, di angosce che hanno popolato intere vite, incidendo su di esse come forse null'altro. Sono sempre particolari, lampi di ricordo che si proiettano su fatti concreti, su dati semplici, su spaccati di eventi nei quali soltanto il soldatino o il marinaio o l'aviatore incapparono, e senza tregua ricordarono per il resto della vita, perché proprio quel frammento di vita allora vissuta illumina o oscura per sempre l'esistenza, o da allora fa credere nell'uomo, o in Dio, o invelenisce la coscienza. Altri e altri ancora a migliaia sono i punti di vista espressi, le valutazioni, le critiche, i giudizi, le esitazioni, i drammi, gli squarci sul vissuto di uomini che in un dato momento avevano facoltà d'essere vili o eroici, e ciascuno scelse a modo suo, come seppe e poté, dovendo gettare i dadi sulla propria sorte. È straordinaria e significativa la varietà di estrazione di chi inviò gli scritti che qui si succedono, i giovani combattenti di allora si trasformarono poi, nella vita civile, in operai e in contadini, in professionisti o in docenti di ogni grado; alcuni tenentini d'allora diventarono generali di Divisione o di Corpo d'Armata; ma è sintomatico che tutti si trovino ancor oggi concordi nel puntare il dito sugli stessi problemi, le stesse deficienze, gli stessi errori, le stesse incapacità, le stesse folli improvvisazioni e contraddizioni che in quel tempo e anche su quel Fronte cooperarono a trasformare in calvario, per il soldato italiano, il dramma del fare la guerra; e inducono il lettore alle stesse imperiose conclusioni di repulsione alla violenza, sia che il testimone scrivente abbia partecipato a quella guerra con l'entusiasmo dei vent'anni puntando in piena buona fede sulla vittoria e con la totale dedizione di chi vuole assolvere fino all'ultima conseguenza il proprio dovere di soldato fascista, sia che abbia tutto subito controvoglia, nella certezza d'andare incontro a un irrimediabile sfacelo finale, nel riconoscere la realtà di certe cose soltanto quando ormai si toccavano con mano. «Questa gente è stanca di guerra e d'Africa» lascerà scritto nel suo diario il giovane sottotenente della Divisione Pavia, volontario di guerra; e ciò non toglie che poco dopo morirà in combattimento, nel partecipare esemplarmente a contenere con valore una puntata di carri armati nemici. Guerra diversa, questa d'Africa, da quella sostenuta su ogni altro Fronte. Lo si desume con tutta evidenza da ogni pagina. Sempre e dovunque scavar buche, nella sabbia come nelle pietraie, un continuo tentare di seppellirsi per defilarsi in un ambiente caratterizzato per lo più dalle grandi estensioni, dagli spazi aperti, dalla piana desertica dove il tiro teso delle armi e il volo dei cacciabombardieri non trovavano ostacoli. Una guerra sotto il sole implacabile, immobili sulla sabbia rovente; guerra di sudore, di sete, guerra che smagrisce e prosciuga, scarsa galletta e scatoletta e scarsissima acqua, mezzo litro, un quarto di litro al giorno se tutto va bene, un caldo d'inferno. E mine, campi minati dovunque, sporcizia per l'immobilità, mosche e zanzare e serpenti, e scorpioni che spuntano vicino a te, che abbandonato nel caposaldo con quei quattro poveracci dei tuoi compagni d'arme, te ne stai abbacinato e sdraiato a traguardare sul mirino del tuo fucile le veloci camionette inglesi che al largo fanno le loro evoluzioni esplorative; e soffocando nella gran calura sogni di sparare e d'immobilizzarne una, mentre le altre si ritirano in fuga; e tu e voi correte, nel sogno (la grande ricchezza di chi giace in povertà), fino a raggiungere quell'automezzo, dove finalmente trovate i biscotti e la marmellata, le stecche di sigarette e di cioccolata e il tè freddo nei thermos. Ma in effetto il più drammatico consisteva nel fatto che tutto ciò non restava soltanto sogno: lo si legge a ripetizione in queste pagine, praticamente ogni sera uscivano dalle linee le affamate e sitibonde pattuglie che raggiungevano con ore di marce e di rischi le camionette colpite dalle artiglierie o dalle mitragliere durante la giornata, correvano a raccogliere quel ben di Dio che avevano a bordo, da spartire con i componenti del proprio reparto a integrazione di quel misero rancio che magari si attendeva invano da due giorni. Guerra di sporcizia, guerra di malattie: disidratazione; malaria, calcoli renali per mancanza d'acqua, enteriti violentissime per l'inquinamento di quel sospirato sorso d'acqua; guerra di gente infissa giorno e notte nella sabbia. Ma anche, d'un subito, guerra di movimento, di avanzate e ritirate strepitose, di mille e più chilometri per volta, che il nemico eseguiva a intere Divisioni motorizzate e corazzate, con fino all'ultimo uomo seduto sul suo bravo automezzo da tempo assegnato, e con tutti i ricchi servizi al seguito; mentre al grosso dei soldati italiani rimanevano soltanto le gambe e non sempre le scarpe, e tanta fame e tanta sete lungo le piste infuocate di Libia e d'Egitto, poiché i pochi automezzi d'ogni tipo in dotazione si arenavano ben presto, spesso già al primo giorno, per avaria o per la cronica mancanza di carburante. Queste pagine parlano: viene riconfermato con non sospetta evidenza lo stridente contrasto fra la disponibilità, lo spirito di sacrificio e il valore del soldato italiano, e la miserevole pochezza dei mezzi disponibili per combattere e per sopravvivere, messi a disposizione dal duce. Armamento, motorizzazione, organizzazione, mezzi di rifornimento sul terreno posti a disposizione degli italiani sul Fronte d'Africa erano ridicola cosa rispetto alle dotazioni degli inglesi e anche dei tedeschi; i molti libri pubblicati nelle varie lingue nel dopoguerra, d'altronde, non fanno che testimoniarlo concordemente. Eppure, anche in queste condizioni, in Africa Settentrionale molti reparti italiani seppero tenere a lungo in scacco l'avversario, e a più riprese batterlo, fino a stupirne i comandanti. El Alamein fu e restò a lungo una fulgida vittoria, fino a che, in un secondo tempo ben distaccato, la mastodontica controffensiva degli Alleati non ne annientò i risultati con una semplice accumulazione di strapotenza numerica e di materiali, affluiti da tutto il mondo. Ma fino all'ultimo giorno di quella Campagna d'Africa gli italiani si batterono, tanto che in Tunisia un reparto italiano combattendo rioccupò una posizione che i tedeschi avevano già abbandonata, arrendendosi l'11 maggio 1943; e si era ormai alla vigilia dell'ordine ufficiale di resa delle truppe dell'Asse. Detto ciò perché vero, non si vuole qui promuovere una esaltazione a tutti i costi, non essendo tale l'intento di questi volumi; e non volendo soprattutto incorrere, azzardando giudizi, nel grave errore del generalizzare, come troppo spesso avviene trattando questi argomenti, che spesso vengono distorti per contribuire alla dimostrazione di tesi artificiosamente precostituite. Noi non spingiamo ad oltranza verso l'esaltazione o la denigrazione del soldato fascista italiano: ci è sufficiente che gli innumeri eventi qui narrati parlino da soli il loro chiaro linguaggio, attraverso le voci dei superstiti: e il lettore non stenterà a rendersi onestamente conto che l'esercito italiano d'Africa - come tutte le collettività di questo mondo - era si costituito da un miscuglio eterogeneo di uomini volta a volta eccellenti, mediocri o inetti, e da reparti in molti casi del tutto straordinari per coraggio e valore, e in altri casi purtroppo inadeguati, inesperti e inefficienti; ma potrà in definitiva maturare la convinzione che nel loro insieme quel milione di soldati italiani, vissuti in tre anni di guerra africana, in difetto di adeguata guida politica e militare, fra alti e bassi di vittorie e sconfitte, fra avanzate e ritirate sconvolgenti, con la cronica e miserevole penuria di mezzi e di rifornimenti che li logorò e li ridusse spesso allo stremo, sui campi di battaglia si prodigarono ben spesso oltre misura, tanto da non essere, in termini di dedizione e sofferenza, secondi a nessuno. Certamente ha un suo significato ben preciso, nelle pagine di questo libro, il fatto narrato dal bersagliere inviato nelle retrovie a prelevare le tanto attese ghirbe nuove di fabbrica, e a riempirle della preziosissima acqua e a caricarle sull'autocarro, che sulla strada del ritorno al reparto si inonderà perché le ghirbe giunte dall'amata Italia trasudano e non trattengono l'acqua, che dall'automezzo in corsa scende a inzuppare la sabbia, lasciando l'assetato battaglione a gola asciutta. Il piccolo episodio (uno su innumerevoli) accresce significato se viene allineato nel contesto dell'altro evento di ben più grande portata, per il quale dal 26 maggio al 6 luglio 1942 le truppe italotedesche avanzarono da El Gazala a El Alamein, inseguendo l'8° Armata inglese in ritirata ed espugnando la fortezza di Tobruk: coesistevano realtà del genere. Entrambi i fatti contribuiscono sostanzialmente a formare il grande quadro storico, anche nei dettagli che gli storici professionisti trascurano; e a comprova di ciò si allinea l'allora tenente Enrico Serra, che c'era, ed oggi è docente universitario di grande autorevolezza, e nelle sue pagine in questo volume così compendia: «Wavell aveva, contro di sé un esercito, come quello italiano, che mai in tutta la sua storia fu così male armato e peggio comandato. L'eroismo con cui la maggior parte dei reparti sì oppose alla strapotenza avversaria, non toglie nulla alla severità dei fatti». Ma questa sua asserzione prende maggiore vigore e rilievo proprio perché egli aveva già spasimato da uomo nell'interno del dramma umano prima ancora che bellico, che così tratteggia e sintetizza in poche righe precedenti, lasciando il lettore a meditare sul filo delle parole finali: «Il primo carro armato nemico che ho visto incendiato lo avevo sulla destra. Ricevette un colpo al motore e subito prese fuoco avvolgendosi di fumo azzurro; si aprì uno sportello laterale, ma nessuno ne uscì». Ecco definiti, dinnanzi a questo sportello spalancato, da cui non riesce a affacciarsi il Milite Ignoto del Fronte d'Africa, gli intenti, i vuoti, le impennate, i limiti del libro che ora viene affidato ai lettori; ai lettori, affinché nelle vicende dell'ieri, comparate a quelle dell'oggi, sappiano qui identificare un documento umano, sufficiente a trarre forza morale per credere, nonostante tutto, nell'uomo e nel suo domani. Giulio Bedeschi N. B. - Un vivissimo ringraziamento a quanti, dal soldato al generale, contribuirono con i loro scritti e fotografie alla formazione di questo libro. Un grazie particolare al nobile amico Paolo Caccia Dominioni, italiano soldato e architetto, ideatore e costruttore del Sacrario di El Alamein, il quale, oltre che col suo scritto ha voluto impreziosire questo volume disegnando le cartine che lo corredano. Grazie inoltre all'avvocato Aurelio Manzoni, che con una passione e un impegno senza pari, e ricorrendo a ogni fonte di possibile consultazione, ha ricostruito il quadro pressoché completo dei Reparti italiani e tedeschi, fino a livello di reggimento e talvolta di battaglione, operanti in Africa Settentrionale dall'inizio al termine della Campagna, puntualizzando le operazioni militari cui parteciparono e quelle in seguito alle quali vennero annientati o dissolti. Quando di un autore si sono riportati più brani, ognuno di questi è stato siglato con le sole iniziali; soltanto dopo l'ultimo brano compaiono le generalità e i dati per esteso. In certi testi, rispetto ad altri, si possono talvolta trovare differenti nomi di comandanti o di ubicazioni, ingenerando il sospetto di errore. Si fa presente che, invece, ben spesso si susseguirono sostituzioni di persona, variazioni di grado, variazioni di luogo, o soltanto di semplice toponomastica, in tempi brevi o anche brevissimi. Le fotografie pubblicate sono state fornite e descritte dagli autori o detentori delle stesse. Nelle didascalie sono riportati i loro nomi, in quanto identificabili. LA GUERRA IN AFRICA SETTENTRIONALE Mi sono trovato in Africa Settentrionale dall'ottobre 1939 fino alla cessazione delle operazioni delle forze italotedesche combattenti in Tunisia, nel maggio 1943, e per una serie di circostanze, sono stato un po'"dappertutto, sempre in reparti combattenti. Ripenso, a distanza di vari decenni, a tutti i soldati ed a tutti i reparti, italiani e tedeschi, che vi hanno operato per tre anni, dall'Egitto fino alla Tunisia, e credo sia il caso di offrire ai combattenti d'Africa e agli interessati alla storia militare un lavoro sistematico: uno specchio che, per quanto so, non è mai stato tentato da nessuno finora, e non figura in nessuna pubblicazione, neppure ufficiale. Sono riportati tutti i reparti, a livello divisionale, che hanno operato in Africa Settentrionale, italiani e tedeschi, con i fatti d'arme cui hanno partecipato, a partire dal 10 giugno 1940 fino al 12-13 maggio 1943. Così tutti coloro che hanno preso parte alla campagna potranno ritrovarsi. Di moltissime divisioni ho potuto ricostruire gli organici, col numero d'ordine dei reggimenti. Per i pochi che mancano, le testimonianze dei combattentilettori permetteranno, forse, di completare i numeri mancanti, da inserire nella eventuale seconda edizione del libro. Così ci si fa anche l'idea del grosso sforzo militare che compì l'Italia (oltre 30 divisioni furono impegnate in Africa Settentrionale e, tenuto conto dei servizi e degli avvicendamenti per morti, ecc., in Africa vi furono circa 1 milione di italiani combattenti). Indico, qui di seguito, i criteri seguiti per identificare le varie operazioni: A) Periodo «solo italiano» (che va dal 10 giugno 1940 al 15 febbraio 1941, data di arrivo della prima divisione tedesca in Libia - la famosa «5a divisione leggera», poi diventata la 21a divisione corazzata). a) L'inquadramento delle divisioni nei corpi d'armata e nelle armate è dato come risultava il 10 giugno 1940 nei documenti ufficiali. Vi fu, poi, una diversa assegnazione delle 15 divisioni ai 5 corpi d'armata (X, XX, XXI, XXII, XXIII), ma si trattò di mutamenti determinati dalla situazione del momento. b) Le operazioni catalogate sono quelle che hanno dato luogo a rilevanti spostamenti del fronte, cioè: 1) Avanzata italiana su Sidi el Barrani (metà settembre 1940); 2) 1a offensiva inglese del gen. Wavell, iniziata il 9 dicembre 1940 a Sidi el Barrani, e conclusa con la battaglia di Beda Fomm (6, 7 febbraio 1941), che portò alla distruzione dei resti della 10a armata italiana. 3) 1° assedio di Bardia, che portò all'accerchiamento ed alla distruzione di varie divisioni italiane. Le operazioni iniziarono nell'ultima decade di dicembre 1940 e si conclusero il 5 gennaio 1941. È uno dei momenti importanti della 1a offensiva inglese. 4) Battaglia di Tobruk, iniziata verso il 15 gennaio, ed il cui culmine durò dal 19 al 22 gennaio 1941. È un altro momento importante della 1a offensiva inglese. 5) Battaglia di SceleidimaAgedabia, nome delle due località (una più a nord, l'altra più a sud) che costituiscono gli estremi dell'ampia zona ove si svolsero i vari combattimenti di annientamento dei resti della 10a armata italiana. È il momento conclusivo della 1a offensiva inglese. Gli inglesi la chiamano battaglia di Beda Fomm, località intermedia tra quelle di Sceleidima ed Agedabia, ove si svolse uno degli episodi culminanti. B) Periodo italotedesco in LibiaEgitto (che va dal 15 febbraio 1941, sbarco della 1a unità tedesca, al 31 gennaio 1943, giorno in cui, abbandonata Tripoli il 23 gennaio, gli ultimi reparti italotedeschi in ritirata varcano la frontiera libicotunisina, abbandonando definitivamente la Libia). a) I reparti italiani sono quelli che, dislocati in Tripolitania nel primo periodo, si salvarono (salvo la divisione Sirte) dalla 1a offensiva inglese. Ad essi si aggiungono, tra il 1941 e il 1942, le divisioni che, nello specchio, risultano elencate dal numero 21 (Ariete) al numero 29 (Centauro). b) Le operazioni sono catalogate come segue: 1) la riconquista della Cirenaica (marzoaprile 1941), che segnò il fulmineo nostro ritorno in Cirenaica. 2) Assedio di Tobruk, durato otto mesi, dall'aprile al novembre 1941, senza che le nostre truppe riuscissero a riconquistarla. Fu la spina nel fianco del nostro schieramento, che era tornato, per il resto, alla frontiera libicoegiziana. 3) 2a offensiva inglese, iniziata nel giugno 1941, che gli inglesi battezzarono operazione Battleaxe. Fu rapidamente stroncata da noi. 4) 3a offensiva inglese (operazione Crusader), che fu il capolavoro difensivo di Rommel e che, iniziata il 18 novembre 1941 con l'attacco inglese, dopo una serie di battaglie mobilissime (tra cui ricordo quella di Bir el Gobi, vinta dalla divisione Ariete e dalla Giovani Fascisti), si concluse a El Agheila il 12 gennaio 1942. 5) 2a riconquista della Cirenaica, che fu il «capolavoro nel capolavoro» di Rommel: iniziata il 21 gennaio 1942, cioè solo nove giorni dopo un ripiegamento di 600 chilometri, riportò le nostre truppe in Cirenaica, sulla linea di Aim Gazala, davanti a Tobruk, ai primi di febbraio 1942, con una riavanzata di 400 chilometri. 6) Riconquista di Tobruk, avvenuta il 21 giugno 1942 (il «giorno magico» dell'Asse, in avanzata anche sul fronte russo) e che concluse la lunga offensiva, iniziata da Rommel il 25 maggio 1942, prendendo in contropiede gli inglesi, che si apprestavano ad attaccare. Essa portò alla pratica distruzione dell'8° armata inglese, e portò le truppe italotedesche ad El Alamein, a soli 110 chilometri da Alessandria d'Egitto. 7) Avanzata di El Alamein. Fu, appunto, la conclusione della vittoria di Tobruk e portò in una decina di giorni (21 giugno-1 luglio 1942) gli italotedeschi ad El Alamein, con un'avanzata di 700 chilometri. 8) la battaglia di El Alamein. Chiamo così la lunga serie di scontri, protrattisi nel mese di luglio e parte d'agosto 1942, in cui gli inglesi, superato lo sconforto della sconfitta e stabilizzato il fronte con i molti rifornimenti americani, si prepararono all'ultima offensiva. 9) Battaglia di Alam el Halfa. Fu l'ultimo tentativo offensivo di Rommel, nella speranza di rompere il fronte e giungere ad Alessandria. Si svolse tra il 30 agosto ed il 3 settembre, e si concluse in uno scacco serio per noi, limitato nei danni immediati, ma di portata strategica grandissima. 10) 2a battaglia di El Alamein. È la battaglia di El Alamein per antonomasia, e fu la lunga lotta, durata dal 23 ottobre 1942 fino al 4 novembre 1942, in cui furono distrutte le migliori forze italotedesche, già esigue, a seguito degli ordini insensati di Hitler e di Mussolini, di «resistere sul posto fino all'ultima cartuccia», nel momento in cui gli inglesi erano assolutamente superiori per quantità e qualità di mezzi. La decisione di Rommel di sganciarsi salvò in piccola parte le nostre forze. 11) Difesa della Cirenaica, Sirtica e Tripolitania. Fu la ritirata abilissima, con cui le poche forze rimaste raggiunsero la Tunisia, ricongiungendosi con le truppe italotedesche sbarcate a Tunisi, ai primi di novembre 1942, dopo che gli angloamericani erano, a loro volta, sbarcati in Algeria e Marocco, prendendoci tra due fuochi (operazione Torch). C) Periodo italotedesco in Tunisia (che va dai primi di novembre 1942 al 12 maggio 1943, giorno della resa di tutte le forze italotedesche superstiti in Tunisia). a) I reparti italiani e tedeschi sbarcati direttamente in Tunisia sono tenuti distinti da quelli sbarcati in Libia. b) Le forze italotedesche furono raccolte in 2 armate: I. La 1a armata italotedesca, comandata dal generale italiano (poi maresciallo) Giovanni Messe, sotto la supervisione del maresciallo Rommel, che comandava il gruppo d'armate. II. La 5a armata italotedesca, comandata dal generale tedesco Von Arnim, che, dopo il rientro di Rommel, divenne comandante del gruppo d'armate. c) In pratica la 1a armata comprendeva le truppe superstiti da El Alamein, con i rinforzi sbarcati in Libia nel 2° semestre 1942 (divisioni Pistoia, La Spezia e Centauro). La 5a armata comprendeva, invece, le truppe italotedesche sbarcate direttamente in Tunisia, dopo il novembre 1942. Per gli italiani ciò si ridusse, in pratica, alla sola divisione Superga. Per i tedeschi, arrivarono 4 divisioni (10a corazzata, corazzata Hermann Goering, 334a divisione fanteria, 999a divisione fanteria), anche se incomplete, più il 501° gruppo carri Tigre (composto dai nuovi carri giganti tedeschi) ed alcuni reggimenti di paracadutisti. d) Molte volte, le truppe corazzate tedesche della 1a armata, che costituivano il D. A.K. (Deutsches Afrika Korps: 15a corazzata, 21a corazzata, 90a leggera) vennero mandate in appoggio alla 5a armata, stante la loro superiore esperienza. e) La 5a armata operò con fronte ad ovest (verso l'Algeria) per fronteggiare le truppe angloamericane sbarcate in Algeria e comandate dal generale Eisenhower. La 1a armata operò con fronte a sud (verso la Libia) per fronteggiare le truppe inglesi dell'8a armata, comandate dal maresciallo Montgomery. f) Le battaglie principali, sul fronte sud, furono quelle del Mareth (con due fasi: una offensiva di Rommel e una offensiva di Montgomery); quella di El Hamma (che fu un momento della precedente, in quanto gli inglesi volevano, venendo dal suddesertico, prendere alle spalle la 1a armata) e quella di Uadi el Akarit, combattuta il 6, 7 aprile 1943, dopo che la 1a armata era riuscita a ritirarsi, evitando l'accerchiamento. Vi fu, infine, la lunga battaglia sul fronte di Enfidaville, dai primi di aprile al 12 maggio, in cui l'8a armata cercò inutilmente di sfondare le linee tenute dall'armata di Messe. g) Le battaglie sul fronte ovest furono molte; vi furono quelle iniziali, con cui gli italotedeschi della 5a armata riuscirono a costituire ed a consolidare la testa di ponte in Tunisia (novembredicembre 1942); seguì la battaglia offensiva verso Tebessa di Rommel (nel febbraio 1943) della 1a e della 5a armata, che fu una dura sconfitta per gli americani, alla loro prima esperienza bellica, e che ci portò alle soglie dell'Algeria. L'avanzata si esaurì per la nostra mancanza di mezzi. Seguirono, infine, le battaglie difensive di Gafsa el Guettar, combattute dalla divisione Centauro contro gli americani, che furono bloccati (febbraioaprile 1943); di Maknassy, tenuta dalla brigata Imperiali con sussidi del D. A.K. contro gli americani, e infine quelle di Gebel Bou Kourine (dove si coperse di gloria il maggiore Oderisio Piscicelli Taeggi, comandante del raggruppamento semoventi, che fece cose leggendarie) e di Megez el Bab, con cui gli angloamericani sfondarono il fronte ovest, occuparono Tunisi (7 maggio 1943) e presero alle spalle la la armata di Messe che fronteggiava gli inglesi dell'8a. Si spera, così, di aver fornito quanto necessario per inquadrare la lunga campagna d'Africa. Tenga presente il lettore che l'Asse, anche nei momenti migliori e di vittoria, fu sempre inferiore per numero e per mezzi. Tale inferiorità variava da 1,5 (inglesi) contro 1 (italotedeschi), quando eravamo al meglio, fino al rapporto di 4 (inglesi) contro 1 (italotedeschi), come ad El Alamein, nella battaglia di ottobrenovembre 1942. In Tunisia, poi, i rapporti furono ancor più catastrofici per noi. Quanto dico è riconosciuto da tutti gli storici, anche angloamericani. L'unico periodo, in cui fummo numericamente superiori, fu quello iniziale (giugno 1940-febbraio 1941), ma alla nostra superiorità numerica corrispondeva un'assoluta mancanza di mobilità. Si trattava di divisioni che si spostavano a piedi su un terreno, dove le distanze fondamentali si misuravano a centinaia di chilometri, e che è stato giustamente paragonato al mare, perché, come nel mare, non era importante lo spazio che si occupava, ma la distruzione del nemico. Capitano Aurelio Manzoni 2° Compagnia Sahariana Cufra DIVISIONE CIRENE IL CAPOSALDO DEGLI ARTIGLIERI A BARDIA: 16 DICEMBRE 1940-5 GENNAIO 1941 L'offensiva italiana sviluppata oltre il confine libicoegiziano e conclusasi il 16 settembre 1940 con l'occupazione delle posizioni di Sidi el Barrani, portava la divisione Cirene a schierarsi sul costone di Alamel Rabia, a 50 km a sud di BugBug, per la protezione del fianco destro dell'intero schieramento di Sidi el Barrani. La divisione Cirene, comandata dal generale Alessandro De Guidi, era dotata in quell'epoca di circa 250 autocarri Lancia Ro e di cinque gruppi di artiglieria con i pezzi trainati da trattori leggeri Fiat mod. 37 che, insieme con i Lancia Ro, costituivano due gioielli, ben riusciti, dell'industria automobilistica italiana, mai più riprodotti. Il comando della divisione, per assolvere il suo delicato compito, costituì di sua iniziativa gruppi tattici con fanti, artiglieri e genieri; unità pluriarmi snelle e mobili con autosufficienza tattica e logistica che, sempre collegate tra loro, si spingevano nel deserto, nella direzione di Marsa Matruh per oltre 50 km dallo schieramento divisionale, allo scopo di rintuzzare le offese delle unità motocorazzate inglesi, costantemente attive sul fronte del nostro schieramento. Fu un lavoro di geniale cesellatura, realizzato nel desolato deserto marmarico per adattare i pezzi della fanteria da 65 e da 47 (i soli che erano dotati di proiettili perforanti) sugli automezzi Lancia Ro a guisa di cannoni semoventi, nonché le installazioni sugli autocarri delle mitragliere da 20 e delle mitragliatrici Fiat 35; e ciò per opporsi con altrettanta mobilità alla scorribanda delle autoblinde e dei mezzi corazzati britannici. I risultati furono brillanti e lo spirito dei combattenti della Cirene aveva raggiunto vertici altissimi tanto da indurre le altre divisioni di 1a schiera ad organizzare gruppi tattici simili. A metà novembre del 1940, la Cirene con grandi sforzi e con la collaborazione attiva di tutti i suoi gregari era riuscita a costituire tre efficienti e mobili gruppi tattici, capaci di opporsi tempestivamente a qualsiasi incursione del nemico. Uno dei gruppi tattici era comandato da me, allora capitano di artiglieria

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.