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Filosofia e patologia in D. F. Wallace. Solipsismo, noia, alienazione... e altre cose (poco) divertenti PDF

153 Pages·2022·5.806 MB·Italian
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Guido Baggio Filosofia e patologia in D.F. Wallace Solipsismo, noia, alienazione ... e altre cose (poco) divertenti Indice 11 La via di ritorno a se stessi. Una introduzione 17 1. I.: orrore solipsistico del Tractatus 17 Katè Mistress 27 Seria è la vita 33 Postilla: l'ironia (in)consapevo/e del Tractacus 36 2. Oltre il solipsismo. Anzi no: soglia, limite e trauma del linguaggio 36 La filosofia come cura 44 La gabbia del linguaggio 56 3. Dipendenza, depressione e paradossi comunicativi 56 Dipendenza e autoinganno 63 Nodi 74 Solitudine, depressione e paradossi 78 Doppi legami e patologie relaziona/i 89 4. A costo della vita. I.:eroismo della sincerità e la ricerca di senso 89 Forme dell'ironia tra modernità e postmodernità 97 Il dramma dell'ironia I 04 (Post-)Postmodernismo, solitudine ed eroismo della sincerità 113 5. Della noia, dello scrivere e del filosofare 113 Della noia, dell'intrattenimento e della morte 121 Il venir-annoiati da qualcosa 5 129 L'annoiarsi e il superfluo 131 La noia profonda e la beatitudine 134 Dello scrivere e del filosofare 137 Bibliografia 15 7 Ringraziamenti 159 Indice dei nomi A Michela per favore aprite le tende Sarah Kane, Psicosi delle 4 e 48 Nessuno può dire di se stesso in modo veritiero di essere una merda. Perché, se io lo dicessi, potrebbe anche essere vero in un certo senso, ma io non potrei essere intriso di questa verità: poiché in tal caso dovrei impazzire, oppure cambiare me stesso. Wittgenstein 1977, tr. it. p. 69 La via di ritorno a se stessi. Una introduzione È impossibile scrivere su noi stessi cose più vere di come noi siamo veri. Questa è la differenza fra scrivere su noi stessi e su cose esterne. Su noi stessi scriviamo esattamente dalla nostra altezza; qui non stiamo sui trampoli o su una scala, ma sui nostri piedi. Wittgenstein 1977, tr. it. p. 71 Vi è a volte un confine labile tra l'esigenza che la mente ha di indagare se stessa e il rischio di una sua circonvoluzione patolo gica, tra la solitudine come condizione necessaria per uno scavo proficuo nell'interiorità e l'isolamento come dramma esistenziale, tra lo scetticismo come espressione di un dubbio radicale e la sua declinazione sociopatica verso l'alienazione e l'incomunicabilità. La mente si ritrova in questi casi a essere l'unico ed esclusivo referente non solo della relazione del soggetto con il mondo ma della sua stessa esistenza. Filosofia e patologia appaiono qui pericolosamente intrecciate e cercare di sondare questo legame, portarlo alla luce, palesarlo risulta particolarmente arduo. Eppure, questo intreccio è la pietra angolare su cui poggia l'intera opera di David Foster Wallace. Nella sua seri ttura l'outsider Wallace ha trasfigurato il senso profondo di alienazione, irrealtà e incertezza nei confronti del mondo e di se stessi.1 eoscurità interiore è stata un mistero che lo ha tormentato fino alla fine, esercitando su di lui il fascino di ciò che continuamente si cela agli occhi di chi vuole indagarlo. Attingendo al potere speciale della narrativa di (tras)figurare il soggetto autoriale, (s)mascherarlo, nasconderlo, spersonalizzarlo, sradicarlo attraverso la sua espressione o articolazione, Wallace ha al contempo svelato e dissimulato i propri fantasmi. Nello scandagliare il dramma dell'interiorità umana, nel districare le intime perversioni del profondo, nelrincagliarsi ricorsivamente nel pensiero suicidario, ultima via d'uscita dall'orrore solipsistico 1 Per una descrizione della figura dell'outsider vedi Colin Wilson ( 1956). 11 vissuto in carne e ossa, la finzione narrativa ha celato la con fessione del suo autore, la sua sofferta fascinazione per le zone d'ombra che si insinuano nella trama di contingenze umane. Come se scavare in quelle zone d, ombra rivelasse l'unica via percorribile per sondare le reali possibilità di un ritorno a se stessi e ogni tentativo di porsi al di sopra della sofferenza umana cadesse tragicamente vittima di quei paradossi psico(pato)logici che tengono sotto scacco la presunta trasparenza tra linguaggio e mondo, tra logica e verità, tra l'io e la sua essenza di vetro. Wallace si è mosso agilmente in un orizzonte di indagine ontologico-esistenziale, sul crinale del paradosso postmoderno e post-strutturalista del linguaggio come limite e redenzione del soggetto. Senza scadere nella mera rappresentazione mimetica della vita ha narrato con l'autorità della sofferenztr' le patologie egotico-consumistiche del «cosiddetto "mondo reale' degli uomini, del denaro e del potere [c he ci] accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura e dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell'io».3 E ci ha mostrato come l'ossessione per l'autonomia e la libertà assolu te, che alimenta la percezione idiosincratica di essere sempre e comunque il centro del mondo, «sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio»,4 sia in grado di renderci del tutto ciechi al dolore e all'umiliazione che possiamo provocare agli altri.5 Non si 2 Espressione del poeta John Barryman (Haffenden 1982, p. 149). 'Wallace (2009, tr. it. p. 154). 4 Ibidem. 5 Su questo punto difficile è non rintracciare uno stretto legame con Richard Rorty (1989, tr. it. p. 166). Il richiamo a Rorty è rutealrro che casuale, non fosse che per i riferimenti espliciti alle sue opere che ritroviamo nei vari lavori di Wallace. Paradigmatico a tal riguardo è il titolo di un racconto che si trova in Oblio che ricalca il titolo della nota opera di Rorty ( 1979) Philosophy and the Mirror ofN ature, una opera di rottura che è anche un elogio funebre della filosofia analitica neopositivista nella quale lo stesso Wallace si è formato e dalla quale poi si è allontanato (Cfr. Max 2012). Nel suo racconto Wallace problematizza proprio la fiducia nella mente come fondamento e garante di una conoscen1.a certa e oggettiva della realtà, immaginando quali effetti una mente distorta possa avere sulla conoscen1.a della realtà riguardo a una prospettiva neutra, "oggettiva" che pretenda di rispecchiare il mondo così come il mondo si mostra. Cutilizzo di un linguaggio pseudo-scientifico che si serve di una terminologia specifica per descrivere i comportamenti tanto degli esseri umani che degli acropidi rende il racconto una parodia del comportamentismo criticato da Rorty nel suo libro, secondo il quale gli eventi mentali sono riducibili ad asserzioni formulate in 12 tratta, però, di una esortazione alla rettitudine, quanto piuttosto di una apertura a questioni che riguardano le nostre modalità di relazione con gli altri e che ci interrogano direttamente su ciò che siamo, su cosa possiamo diventare ma soprattutto a che cosa e a chi dobbiamo prestare attenzione. 6 La scrittura di Wallace si rivela così lavoro terapeutico ed edificante in cui depressione, dipendenza, solitudine, relazioni patologiche come forme di autoflagellazione segnano i passi di un cammino soggettivo del vero, un incedere esiscenzialmente ancorato alla ricerca di una sincera relazione intima con l'altro, nonostante la radicale inaccessibilità a cale intimità riveli, sin dall'origine, il dramma insuperabile della nostra solitudine. 7 La lettura psicologista del solipsismo di Wittgenstein, che affrontata in particolare nei primi due capitoli di questo lavoro come una onda lunga attraversa anche i capitoli successivi, pone in luce proprio le difficoltà di un rapporto di senso tra soggetto e mondo. Connettendo la categoria metafisica del solipsismo alle condizioni umane di solitudine e alienazione, schiudendo così il passaggio dal piano filosofico al piano patologico, Wallace ha reso ancor più incalzante e indifferibile l'idea wittgensteiniana dell'inutilità di una filosofia inabile a migliorare la nostra capacità di interrogare il mondo che ci circonda e affrontare le questioni realmente importanti per la nostra vita. In particolare, una delle preoccupazioni che secondo Wallace avrebbe impegnato maggior- r termini di disposizioni comportamentali (alcuni esempi: espressione della madre «la faceva sembrare sempre follemente spaventata»; «mia madre dava l'impressione di fissarli con terrore idiota»; «Il chirurgo era poggiato al muro, il volto rivolto contro il muro una reazione comportamentale che indicava [. .. ]»}. In breve, attraverso l'utilizzo di descrizioni comportamentali alla base della teoria sugli stati emotivi/mentali, Wallace fu il verso al problema delri dentità mente/corpo declinato nella questione se le sensazioni, nella fattispecie il dolore e la paura, possano essere considerate disposizioni comportamentali (cfr. Rorty 1979, tr. it. p. 75). Vi è in questo racconto una presa di distanza ironica da ogni forma di conoscenza che voglia porsi come rispecchiamento di una interiorità sconosciuta, così come per ogni posizione esternalista che voglia ridurre le sensazioni provate alla loro espressione esterna. Per una analisi approfondita dell'opera di Rorcy cfr. Calcaterra & Kogler (2020). Per una utile introduzione al pensiero di Rorcy cfr. Calcaterra (2016). 6 Cfr. Rorty (1989, tr. it. p. 167) 7 Su una lettura della scrittura terapeutica wallaceana cfr. Baskin (2019). Sulla ripresa della nozione wittgensteiniana di filosofia come "edificante,, vedi anche Rorcy (1979, tr. it. p. 280 ss.). 13 mente Wittgenstein negli anni tra il Tractatus logico-philosophims e le Ricerche filosofiche avrebbe riguardato rimpossibilità da parte del linguaggio atomistico di far fronte alla questione fondamentale sul senso della vita. [inattuabile connessione logica tra volontà e mondo, con la conseguente negazione di qualsiasi discorso su etica, valori, spiritualità e responsabilità, avrebbe portato Wittgen stein - la cui biografia secondo Wallace offre l'immagine di una persona che si preoccupava profondamente di ciò che rendeva le cose buone, giuste, meritevoli - a superare il Tractatus nel tentativo di disinnescare il rischio di una deriva patologica della posizione metafisica solipsistica. Purtroppo, con la "scoperta,, del linguaggio come qualcosa di pubblico, anziché salvarci dall'alienazione Witt genstein ci avrebbe tolto l'unica possibilità di un contatto con il mondo esterno, lasciandoci intrappolati anziché nei nostri pensieri privati nel linguaggio. Fortemente condizionata dal modo problematico attraverso cui Wallace percepiva la propria connessione con la realtà esterna, la sua interpretazione di Wittgenstein rivela qualcosa che lo riguarda da vicino. Sebbene abbia dichiarato che l'idea di un linguaggio privato sia, insieme agli altri «lambiccamenti solipsistici», 8 tanto illusoria quanto falsa, è difficile non rintracciare nella sua opera i segni di questi vari "lambiccamenti,,. Tanto nella narrativa quanto nella saggistica, così come nelle interviste, si intravede scorrere sottotraccia come un fiume carsico la tensione fra il canto delle sirene dell'illusione solipsistica e il terrore della sua deriva alienante, una tensione che palesa la consapevolezza di Wallace della poro sità e permeabilità dei confini tra filosofia e patologia. Attraverso l'indagine di questa porosità egli ha accolto l'idea di un soggetto che, immerso nel linguaggio, è consapevole della propria originaria dimensione relazionale e comunicativa; ma ha evidenziato anche come tale dimensione, nella sua paradossale ambivalenza, se da un lato sconvolge i mondi dell'esperienza solipsistica in cui il soggetto rischia di ritrovarsi ingabbiato, si rivela al contempo la fonte stessa della deriva patologica della sua alienazione. 9 Il tentativo di superamento della membrana che divide l'io dall'altro, come vedremo in particolare nel teno capitolo, non è mai compiuto e trova nella dipendenza, nella depressione e nei paradossi 8 Wallacc ( 1996, tr. it. p. 94) 9 Su questo punto vedi anche Timmer (2017). 14 comunicativi degli ostacoli che il soggetto stesso si costruisce e rende insormontabili. Le dinamiche di dipendenza e di autoinganno legate alle difficoltà di un rapporto di senso con il mondo, così come le relazioni patologiche radicate su paradossi affettivi destabilizzanti, testimoniano della difficoltà di riconoscimento dell'alterità e di costruzione di rapporti non adulterati. Lo stesso tentativo di Wal lace di mostrarsi disarmato attraverso una scrittura della sincerità risulterà, come si vedrà nel quarto capitolo, un sentiero interrotto drammaticamente dall'ineludibile dispositivo ironico. Vi è però forse un'ultima possibilità da sondare attraverso la scrittura, una via d'uscita da se stessi non più rivolta al perfora mento della membrana di solitudine ma diretta alla ricerca di una apertura verso l'Altro. Questo sentiero, intrapreso con Il re pallido e drammaticamente interrotto dalla morte del suo autore, appare come un ultimo tentativo di fuga dalla sofferenza attraverso una ricerca di senso che richiede un paradossale abbandono alla noia tanto rassegnato quanto speranzoso. La noia rappresenta infatti un elemento trasversale alla nostra esistenza. Essa è sia uno stato affettivo doloroso che esprime una inconsapevole presa di distanza ironica e perversa dalle norme della società del benessere, sia quello che Heidegger ha indicato come una Grundsti.mmung, uno stato d'animo fondamentale la cui comprensione è condizione di pos sibilità per un interrogare autentico rispetto al senso ultimo della nostra esistenza. Come proposto nell'ultimo capitolo, è possibile rintracciare una affinità tra lo scrivere di Wallace e il filosofare di Heidegger. Entrambi basano il proprio scavo esistenziale su una condizione di possibilità del filosofare e dello scrivere come modalità dell'interrogare autentico che impegna nella comprensione di cosa significa essere umani. Solo un filosofare e uno scrivere autentici sembrano infatti in grado di interpretare il dolore psichico e le derive sociopatiche associate alla noia per cercare di riscoprirne il carico e la ricchezza esistenziale, aiutandoci a superare la scrittura e la filosofia stesse per giungere alla «roba che conta davvero». 10 In questo senso, il limite labile tra filosofia e scrittura si trova in quel terreno indistinto in cui si mescolano filosofia e patologia e che chiama in causa una «confessione intima», o meglio ancora, una «autoflagellazione».11 10 Wallacc (1996, tr. it. p. 296). 11 Badiou (2009, tr. it. p. 1O ). 15

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