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Figli della notte. Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi PDF

287 Pages·2012·1.3 MB·Italian
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© 2012 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano © 2014 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano ISBN 978-88-6865-692-8 Art director Mara Scanavino Graphic designer Alberto Lameri www.baldinicastoldi.it BaldiniCastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi GIOVANNI BIANCONI Figli della notte Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi INDICE Introduzione 1. Il quaderno giallo 2. «Al di fuori di ogni ragionevole motivazione» 3. «Ingiustizia è fatta» 4. Un padre all’antica 5. L’orologio che spuntava dalla manica 6. «E se uccidessero tuo padre in nome della rivoluzione?» 7. L’amico dei momenti semplici 8. «Un danno che noi pagheremo» 9. Il nome del padre 10. «Dobbiamo andare avanti» Bibliografia essenziale Ai miei nipoti e nipotini «Si può sospettare, dunque, che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini». «Di tutti i cittadini, in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri... E questa è la stupidità di cui dicevo». LEONARDO SCIASCIA Il cavaliere e la morte, 1988 INTRODUZIONE C’erano una volta i telefoni a gettone. E c’erano le cabine telefoniche, complete di elenchi con i numeri degli abbonati, rilegati in apposite strutture in ferro che permettevano di consultarli senza poterli portare via. C’è stato un periodo, in Italia, in cui i giornalisti o chi per loro – avvisati da una chiamata effettuata da una cabina pubblica, per l’appunto – andavano a frugare tra le pagine di quegli elenchi, in cerca di fogli battuti a macchina e stampati col ciclostile. E puntualmente li trovavano. Erano i volantini di rivendicazione di omicidi e ferimenti commessi dalle Brigate rosse e altri gruppi armati, che in quegli anni detti «di piombo» (dal fortunato titolo di un film tedesco sul terrorismo nella Germania Ovest, ché all’epoca di Germanie ce n’erano due) facevano parte della quotidianità. Come il traffico nelle grandi città, o la crisi economica. Come i telefoni a gettone, le macchine da scrivere e i ciclostili a inchiostro; oggetti comuni di una stagione durata quasi vent’anni, con una curva prima ascendente e poi discendente che ha raggiunto il picco più alto a metà del suo percorso, tra il 1978 e il 1980. Era un’altra Italia, quella in cui il terrorismo rosso e nero ha mietuto centinaia di vittime, tra stragi indiscriminate e delitti mirati. Nomi noti e meno noti, persone importanti e sconosciute. Ma tutte persone: uomini e donne che coltivavano la propria vita e il proprio lavoro, sentimenti e affetti, circondati da genitori, mogli, mariti, figli, fratelli e sorelle, fidanzati e fidanzate che un giorno non li hanno più visti tornare a casa. Perché qualcuno li aveva uccisi in nome della lotta per l’abbattimento o il rafforzamento del potere. Anche quando non c’entravano niente con il potere. Le vittime del terrorismo furono ridotte a simboli da abbattere non per quello che erano e che facevano ma, nella gran parte dei casi, per ciò che rappresentavano. A volte occupando i gradini più alti delle istituzioni, ma spesso e volentieri a livelli molto più bassi, divenute bersagli per la carica che ricoprivano o la divisa che indossavano. Oppure (come nelle stragi, ma non solo) vennero colpiti semplici passanti capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cittadini comuni di un Paese dove era comune morire ammazzati per ragioni politiche. Per scelte operate da chi ha inteso fare politica, o influenzare la politica, con le armi e con le bombe. La degradazione degli esseri umani a simboli è una delle caratteristiche più tragiche e devastanti del terrorismo, che ha riguardato non solo le vittime ma anche i carnefici. I quali, nel momento in cui uccidevano, non si consideravano più essi stessi persone bensì il braccio armato di entità o interessi ritenuti superiori, per conto dei quali sparavano o facevano esplodere ordigni. In un terribile processo di disumanizzazione collettiva. Tutto è accaduto tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli Ottanta del Novecento, il secolo della Rivoluzione d’Ottobre e della vittoria degli Alleati contro i nazifascisti nella seconda guerra mondiale, quando ancora il mondo era diviso in due blocchi contrapposti, ideologicamente ed economicamente. Dal dopoguerra in Italia governava la Democrazia cristiana, il partito di ispirazione cattolica scelto dagli Stati Uniti d’America come principale referente, che doveva vedersela con il più forte partito comunista d’Occidente, dai legami ancora solidi con l’Unione sovietica. Il 1968 seguito al boom economico aveva portato alla ribalta le proteste e le rivendicazioni studentesche, il ’69 quelle operaie. Accompagnate da attentati e manifestazioni di violenza che destavano allarme e inquietudine, ma senza preoccupare oltre un certo limite. Fino alla bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura, il 12 dicembre. La prima strage. La violenza politica in Italia c’era già, la Repubblica nata dalla Resistenza – e quindi dalla lotta armata, in un certo senso – l’aveva conosciuta fin dal suo inizio. Ma dopo quella bomba divenne una componente costante del panorama politico, una variabile del gioco che si sommava e interagiva con le altre. Fosse spontanea o indotta, genuina o strumentale. E finì per condizionare non solo le strategie dei partiti e la formazione dei governi, ma la vita di tutti. Anche di chi non era interessato e non partecipava alle mutazioni della politica e del potere. I giovani crebbero con la percezione che morire ammazzati in mezzo alla strada per questioni che avevano a che fare con la politica costituiva la normalità (dalla definizione del vocabolario Treccani: «Carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia a un individuo, sia a situazioni politiche, sociali, ecc.»). Poteva succedere, e se succedeva non c’era da stupirsi. Così come era normale che la mattina, davanti alle scuole, prima di entrare o dopo l’uscita, si facesse a botte per distribuire i volantini del proprio gruppo politico, o impedire che venissero distribuiti quelli della fazione avversa. Di questa «normalità» molti giovani furono testimoni. E più di tutti coloro che videro arrivare la morte in casa; per mano di sicari sbucati dall’ombra nella guerra dichiarata ai simboli di uno Stato da abbattere, o di anonimi dinamitardi dagli oscuri disegni. Sono i figli delle vittime degli attentati, le cui vite di bambini e bambine, ragazzi e ragazze sono state capovolte d’un colpo, deformate, deviate. Sono i figli della «notte della Repubblica», come l’ha definita Sergio Zavoli nella sua straordinaria inchiesta televisiva, che sarebbero cresciuti in maniera diversa se il terrorismo non avesse bussato alle loro porte, e insieme alle proprie storie individuali hanno visto cambiare la storia di un intero Paese. Attraverso le esperienze di alcuni di loro, disseminate nell’arco del quasi- ventennio che va dal ’69 all’88, ho provato a raccontare l’Italia degli anni di piombo per i giovani di oggi che in quell’epoca non c’erano, o erano troppo piccoli per comprendere quel che stava accadendo. Ricostruendo vicende e sensazioni personali di bambini e ragazzi di ieri che da un lato aiutano a restituire la dignità di persone ai simboli abbattuti, e dall’altro s’intrecciano con quelle collettive in un’incredibile catena di delitti e avvenimenti che hanno segnato in maniera pressoché indelebile più di una generazione. Del resto, se i principali esponenti dei movimenti giovanili dei partiti di allora – da Massimo D’Alema a Walter Veltroni, da Marco Follini a Pierferdinando Casini a Gianfranco Fini – sono diventati protagonisti di primo piano dei partiti e delle istituzioni nella cosiddetta seconda Repubblica, c’è da ritenere che quella stagione abbia avuto qualche peso anche nell’Italia dei decenni successivi. Nel Paese dei telefoni a gettone e dei volantini stampati col ciclostile, è accaduto che le stragi in cui morirono 139 persone e altre centinaia vennero ferite siano rimaste tutte pressoché impunite (sebbene di quasi tutte sia stata svelata in maniera abbastanza chiara la matrice), e che tutte le indagini su quegli attentati siano state deviate e depistate da apparati cosiddetti «di sicurezza». È accaduto anche che un’organizzazione rivoluzionaria – nata tempo addietro sulle pulsioni sovversive dell’estrema sinistra, e che aveva già dato prova di mirare al «cuore» delle istituzioni – abbia sequestrato e ucciso il principale leader del principale partito di governo, già primo ministro e destinato a diventare con ogni probabilità presidente della Repubblica, dirottando in maniera irreversibile il corso della politica nazionale. Prima e dopo quel delitto, tra il 1970 e il 1988, le Brigate rosse e altre formazioni armate della stessa parte politica hanno provocato la morte di 128 persone e il ferimento di alcune centinaia. È inoltre accaduto che sedicenti rivoluzionari neofascisti abbiano potuto assassinare senza alcuna difficoltà i magistrati che in solitudine indagavano sulle

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Il ventennio che ha insanguinato l'Italia negli anni di piombo, tra il 1969 e il 1988, ha lasciato profonde ferite nella nostra società. Quell'epoca è ormai passata al rango di storia, divisa tra una verità incompleta sancita dalla giustizia e un'altra riconosciuta dagli studiosi però divisa dal
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