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Fattore di Rischio PDF

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ROBIN COOK FATTORE DI RISCHIO Traduzione di Tullio Dobner Critical Copyright © 2007 by Robin Cook All rights reserved including the rights of reproduction in whole or in part in any form. © 2010 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. ISBN 978-88-200-4836-5 86-1-10 Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore o usati in modo fittizio, e ogni rassomiglianza con persone realmente esistenti o esistite, aziende, eventi o località reali è puramente casuale. A Cameron e alla gioia che arreca Ringraziamenti Dominique Borse Venture capitalist del mondo dello spettacolo Jean E.R. Cook Psicologa Joe Cox Stupendo avvocato esperto in diritto fiscale RoseDoherty Accademica Marc Flomenbaum Capo dell’Istituto di Medicina legale, Stato del Massachusetts Angelo MacDonald Avvocato penalista Indice Ringraziamenti______________________________ 2 Prologo ____________________________________ 4 1_____________________________________________ 16 2_____________________________________________ 31 3_____________________________________________ 59 4_____________________________________________ 70 5_____________________________________________ 76 6_____________________________________________ 87 7_____________________________________________ 98 8____________________________________________ 124 9____________________________________________ 126 10___________________________________________ 130 11___________________________________________ 139 12___________________________________________ 156 13___________________________________________ 164 14___________________________________________ 168 15___________________________________________ 173 16___________________________________________ 177 17___________________________________________ 181 18___________________________________________ 185 19___________________________________________ 196 20___________________________________________ 211 21___________________________________________ 219 22___________________________________________ 234 23___________________________________________ 247 24___________________________________________ 249 Epilogo __________________________________ 254 Prologo NEL breve volgere di alcuni giorni tra il marzo e l’aprile 2007, un grave e infausto incidente occorso a tre individui, due dei quali persero la vita, avrebbe avuto una ricaduta sull’esistenza di centinaia, per non dire migliaia di persone, precipitandole in una complicata rete di interrelazioni. Le vittime non ebbero premonizione delle loro tragedie individuali. Maschi tutti e tre, più o meno della stessa età, sposati e in buona salute, si dedicavano a professioni completamente diverse e non si conoscevano nella maniera più assoluta, né a livello sociale, né per motivi di lavoro. Uno era un medico di razza bianca incorso in un serio e doloroso infortunio sportivo; il secondo era un informatico afroamericano che contrasse un’infezione ospedaliera postoperatoria fulminante e con esito fatale; e il terzo era un commercialista americano di origine asiatica, ucciso in un modo così spietato da far pensare a un’esecuzione. Come molta gente, il dottor Jack Stapleton non si era mai veramente soffermato a riflettere sulla straordinaria meraviglia anatomica e fisiologica delle proprie ginocchia fino a quando, la sera del 26 marzo 2007, gli cedette una gamba. Dalle prime ore del mattino era rimasto al lavoro all’istituto di medicina legale. Ci era andato ed era tornato a casa sulla sua amata mountain bike senza minimamente pensare all’assistenza che gli stavano dando le ginocchia. Per il resto della mattinata aveva eseguito tre autopsie, una delle quali aveva richiesto una complicata dissezione dei tessuti interessati da numerose ferite d’arma da fuoco. Nell’insieme era rimasto in piedi in laboratorio, quello che tra gli addetti ai lavori era conosciuto come «la fossa», per più di quattro ore, muovendosi di riflesso in base alle esigenze del suo lavoro. Non una sola volta aveva pensato alle ginocchia e allo sforzo esercitato dai loro vari legamenti, che fedelmente conservavano l’integrità delle articolazioni nonostante il notevole stress a cui erano sottoposti, e dai menischi, che ammortizzavano il grosso della pressione esercitata dalle terminazioni distali dei femori, gli ossi della coscia, o i vertici delle tibie, ovvero gli stinchi. Fu più tardi, sul finire di una delle quasi notturne corse di Jack sotto le luci del campo di pallacanestro del quartiere, che avvenne il disastro. Con suo grande disappunto lui e alcuni dei migliori giocatori con cui aveva composto la squadra per quella sera, compresi gli amici Warren e Flash, non avevano vinto una sola partita, ragion per cui erano stati costretti a rimanere desolatamente seduti per lunghi periodi prima di poter tornare in campo. Non fosse bastata la noia di una serata storta, c’era Warren che lo tormentava ricordandogli la sua responsabilità in molte delle loro sconfitte o per aver mancato dei canestri facili, o per aver perso palla. Jack non poteva dire di non meritarselo: negli ultimi secondi di una delle partite, sul punteggio di parità, Jack si era coperto di ridicolo lasciandosi sfuggire la palla dalle mani quand’era inciampato nei propri piedi. Ma la calamità vera e propria colpì alla fine dell’ultima partita quando Jack era stato servito da Warren in un’azione d’attacco. Nuovamente in una situazione di parità e con a portata di mano il canestro della vittoria, Jack era più che mai deciso a recuperare. Per la sua gioia, in quella che sperabilmente sarebbe stata l’ultima giocata della partita, aveva davanti a sé un solo avversario. Lo chiamavano Spit, soprannome guadagnato a causa di una delle sue meno apprezzate abitudini, ma soprattutto, dal punto di vista di Jack, era alto e allampanato, fisicamente inadatto a contrastare la sua velocità. «Segna!» gridò dall’altra estremità del campo Warren, più che certo che Jack avrebbe lasciato sul posto Spit per infilare due punti facili. Dopo una convincente finta con la testa sulla sinistra, e un rapido cambio di mano, Jack partì verso destra. Cominciò staccando da terra il piede destro, con una veloce flessione e immediata distensione del ginocchio. Appena riportato il piede sull’asfalto, Jack torse il busto verso sinistra per aggirare Spit, che ancora non si era ripreso dalla finta e dal passaggio della palla da una mano all’altra. Ora che Jack ebbe sollevato da terra il piede sinistro, tutto il suo peso fu trasferito sul ginocchio destro parzialmente piegato, che dovette anche incassare la torsione in senso antiorario. Se si fosse dato il tempo di calcolare le forze in azione sul suo ginocchio da cinquantaduenne, forse Jack avrebbe avuto maggior riguardo verso quell’elemento della sua anatomia che tanto fedelmente lo aveva servito fino a quel momento. Purtroppo, la gamba destra di Jack cedette, scaricandolo sulla superficie granulosa del campo da gioco, dove slittò per qualche decina di centimetri. Un attimo prima era una massa ben coordinata di muscoli e ossa lanciata verso il canestro e un istante dopo era un ammasso ammaccato e scorticato, prostrato sul terreno, a digrignare i denti per il dolore serrandosi il ginocchio infortunato. Jack non era sicuro al cento percento di che cosa gli fosse successo, ma ne aveva un’idea. Poteva solo sperare di sbagliarsi. «Dico, stai andando di male in peggio», lo apostrofò Warren dopo essere accorso ad assicurarsi che Jack non si fosse fatto troppo male. Nel tono della sua voce c’erano insieme compassione e critica. Si rialzò e si piantò le mani sui fianchi, guardando dall’alto l’amico malconcio. «Forse stai diventando un po’ troppo vecchio per i campi da basket, dottore, eh?» «Mi spiace», riuscì a bofonchiare Jack. Si sentiva imbarazzato, sotto gli occhi di tutti. «Hai chiuso per stasera?» lo interrogò Warren. «Non sembra troppo grave», annunciò mentre valutava l’entità delle abrasioni sul gomito e sul ginocchio sinistro. Dopo la prima forte fitta, il dolore era decisamente diminuito infondendogli un falso senso di speranza. Si rialzò da terra con tutta la cautela del caso e lentamente spostò il peso sull’articolazione infortunata. Provò a camminare e gli sembrò che stesse andando bene finché non si girò verso sinistra. Allora l’articolazione si aprì di nuovo per un istante spedendolo a far di nuovo visita all’asfalto. Per la seconda volta si rialzò. «Ho chiuso», dichiarò con tanta rassegnazione quanto rammarico. «Ho chiuso davvero. Evidentemente non è un semplice stiramento.» Come molta gente, David Jeffries non si era mai veramente soffermato a riflettere sulla meraviglia molecolare rappresentata dai batteri, né sul fatto che, all’esplodere di un’infezione, la sua diffusione o meno dipendeva dall’esito di un’epica battaglia molecolare tra i fattori virulenti dei batteri e i meccanismi difensivi dell’organismo. Non aveva mai nemmeno riflettuto sulla costante minaccia rappresentata dai batteri, a dispetto della vasta gamma di antibiotici a disposizione della medicina moderna. Ben sapeva che in passato i batteri si erano resi responsabili di terribili epidemie, non esclusa la peste nera, ma erano appunto storie del passato. Di certo non temeva i batteri quanto i virus come l’H5N1 (influenza aviaria), l’Ebola, o il virus che causava l’Aids, un’insidia costantemente sottolineata dagli organi d’informazione. E poi David era vagamente consapevole dell’esistenza di batteri cosiddetti buoni, che contribuivano alla creazione di alimenti come il formaggio e lo yogurt. Così, quando nelle prime ore di un lunedì mattina del 2007 entrò all’Angels Orthopedic Hospital per farsi ricostruire il legamento crociato anteriore con l’innesto di tessuto prelevato da un cadavere, non erano certo i batteri a preoccuparlo. Lo teneva assai più sulle spine la possibilità di non risvegliarsi più dall’anestesia dopo l’operazione. E lo preoccupava la possibilità che l’intervento, pronosticatogli come doloroso da un amico, si rivelasse inutile, con la conseguenza che non avrebbe potuto tornare a giocare all’amato tennis. Ingegnere informatico per una nota software house con sede a Manhattan, David aveva consumato fin troppe ore, come soleva dire lui stesso, a culo piatto, inchiodato al suo monitor. Appassionato di sport praticamente fin dalla nascita, aveva invece bisogno di esercizio fisico competitivo e da questo punto di vista il tennis era lo sport che rispondeva perfettamente alle sue esigenze. Fino a quando si era fatto male, un mese prima, aveva giocato almeno quattro volte alla settimana. Aveva persino inutilmente cercato di coinvolgere i due figli preadolescenti. Quanto all’infortunio, non aveva idea di come fosse accaduto. Si era sempre tenuto in buona forma. Ricordava solo di essere sceso a rete dopo quello che gli era sembrato un buon colpo d’attacco. Sfortunatamente l’affondo non era stato così efficace come aveva sperato e il suo avversario aveva risposto con un passante ben piazzato alla sua sinistra. Mentre era ancora in corsa, David aveva piantato al suolo il piede anteriore ed era ruotato su se stesso da quella parte per intercettare la palla. Nemmeno per sogno: si era trovato invece per terra a tenersi tra le mani il ginocchio dolorante che aveva cominciato immediatamente a gonfiarsi. Alla luce del fulmineo decorso postoperatorio, è facile dire che David avrebbe fatto bene a essere più rispettoso nei confronti dei batteri. A distanza di poche ore dall’intervento una quantità relativamente modesta di stafilococchi che dal suo ginocchio erano risaliti fino ai bronchioli periferici dei suoi polmoni, diedero inizio alla loro magia molecolare. Lo stafilococco è un tipo di batterio comune. Sulla faccia della Terra almeno due miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale, li ospitano come commensali nelle narici e/o nelle zone umide della superficie cutanea. Anche David ne era colonizzato alla stessa maniera. Ma la specie che si era intrufolata nel suo corpo non apparteneva alla sua flora personale, bensì a un particolare ceppo di staphylococcus aureus che si era giovato della facilità con cui gli stafilococchi si scambiano informazioni genetiche per incrementare la loro virulenza e quindi il loro tasso di competitività. Non solo questa sottospecie particolare resisteva agli antibiotici simili alla penicillina, ma era anche portatrice dei geni di una branca di perniciose molecole, alcune delle quali aiutarono i batteri invasori ad aderire alle cellule che rivestivano i capillari più fini di David mentre altri distruggevano le cellule difensive che l’organismo aveva inviato contro l’insorgente infezione. Mentre il contrattacco di David falliva, la crescita dei batteri invasori acquistava velocemente un ritmo esponenziale, raggiungendo in poche ore una fase secretoria. A questo punto entrò in azione un altro gruppo di geni di questo particolare genoma di stafilococco, che permise ai microrganismi di produrre un altro genere di molecole nefaste chiamate tossine. Queste ultime cominciarono a devastare il corpo di David, causando tra l’altro quello che comunemente viene chiamato «effetto mangia-carne», nonché i sintomi e i segni tipici della sindrome da choc tossico. La prima avvisaglia della tempesta imminente fu qualche linea di febbre comparsa sei ore dopo l’intervento chirurgico, molto prima che i batteri invasori raggiungessero la fase secretoria. David non ci fece molto caso, né se ne preoccupò l’infermiere, che diligentemente ne prese nota sulla sua cartella digitale. Successivamente David provò quella che descrisse come una sensazione di occlusione al petto. Poiché era sotto l’influenza di un narcotico antidolorifico, di cui era lui stesso a determinare il dosaggio, non se ne lamentò. Pensò che quei sintomi fossero fenomeni normali della sua convalescenza finché non cominciò ad avere difficoltà a respirare e a tossire muco striato di sangue. All’improvviso ebbe la sensazione di non riuscire più a prendere fiato. A quel punto cominciò a preoccuparsi davvero. La sua trepidazione aumentò quando al peggioramento delle sue condizioni gli infermieri reagirono scatenando un notevole trambusto intorno al suo letto. Dopo un prelievo di sangue, gli furono aggiunti antibiotici alla flebo, poi, sentendo qualcuno attivare freneticamente la procedura per un possibile trasferimento d’emergenza allo University Hospital, con qualche titubanza David domandò se stesse correndo qualche pericolo. «Andrà tutto bene», rispose meccanicamente uno degli infermieri. Ma nonostante la rassicurazione, qualche ora dopo David spirò colpito da sepsi fulminante durante il tragitto in ambulanza. Come molta gente, Paul Yang non si era mai veramente preoccupato del proprio ultimo destino, quando invece avrebbe dovuto, specialmente nelle ore in cui David Jeffries stava perdendo la sua battaglia molecolare contro i batteri. Come molti altri esseri umani consapevoli della propria condanna alla mortalità, Paul non si soffermava sulla cruda realtà della morte nemmeno al cospetto dell’assillante evidenza di un invecchiamento progressivo e a un ritmo sempre più veloce. A cinquantun anni d’età, aveva questioni assai più contingenti di cui occuparsi, come la sua famiglia, che comprendeva una moglie spendacciona e mai soddisfatta sul piano materiale, due figli al college e un altro che si accingeva a seguirli, e una grande casa in un quartiere residenziale con un adeguato mutuo da pagare e la costante necessità di riparazioni strutturali. Come se tutto questo non fosse bastato, da tre mesi a quella parte era torturato da un problemino insorto sul lavoro. Cinque anni prima, Paul aveva rinunciato a una posizione comoda, ma prevedibile e abbastanza noiosa, presso una consolidata azienda di Fortune 500 per diventare revisore dei conti in una promettente nuova società che si proponeva di costruire e dirigere cliniche private specialistiche. A reclutarlo, con un certo impeto, era stato il suo ex principale, a sua volta assunto come direttore amministrativo da una brillante dottoressa di nome Angela Dawson, che stava in quel mentre concludendo i suoi studi per una laurea in economia alla Columbia University. La prospettiva di cambiare lavoro aveva precipitato Paul in un dilemma angosciante, perché per natura non era incline all’azzardo, ma il crescente bisogno di liquidità a portata di mano e l’occasione di sfondare in un’industria miliardaria in rapida crescita come quella della sanità, aveva spazzato via le sue incertezze e la paura dei rischi a cui si sarebbe esposto. Per la Angels Healthcare LCC tutto era andato secondo i piani, grazie all’innato acume della dottoressa Angela Dawson negli affari. Grazie al suo pacchetto azionario e ai suoi diritti d’opzione, nel giro di qualche settimana Paul sarebbe diventato ricco con gli altri fondatori, i grandi investitori e, seppure in misura inferiore, i più di cinquecento medici specialisti in partecipazione. Era ormai imminente la chiusura di un’offerta pubblica d’acquisto e grazie al clamoroso successo di una recente campagna promozionale che aveva fatto venire l’acquolina in bocca agli investitori istituzionali, la quotazione delle azioni si era stabilizzata a un livello che rispecchiava quasi completamente le più rosee ambizioni dei fondatori. In vista dei cinquecento milioni di dollari previsti dalla prima raccolta di fondi, Paul sarebbe dovuto essere al settimo cielo. Invece no. Era sulle spine come mai in vita sua, perché era prigioniero di un angosciante dubbio etico aggravato dalla serie di recenti scandali finanziari, non escluso quello della Enron, che nei precedenti sei o sette anni avevano provocato un terremoto economico di dimensioni planetarie. Il fatto che non avesse manomesso i libri contabili non gli era di consolazione. Era religiosamente ligio ai protocolli stilati dalle autorità di controllo e sapeva che i suoi conti erano precisi al centesimo. Il problema è che non voleva che nessuno oltre ai fondatori vedesse i suoi libri, proprio per via della loro accuratezza, ragione per cui riportavano con precisione un grave passivo di liquidità. Il deflusso aveva avuto inizio tre mesi e mezzo prima, immediatamente all’indomani della chiusura della revisione dei conti resasi necessaria al lancio dell’offerta pubblica d’acquisto. Quello che all’inizio era stato un rivolo, si era rapidamente ingigantito in un torrente. Il suo guaio era di dover riferire l’ammanco non solo al suo direttore, cosa che certamente fece, ma anche alla SEC, l’autorità di controllo. Ma, come gli fece notare subito il direttore amministrativo, un buco come quello avrebbe senza dubbio fatto saltare l’offerta pubblica, il che significava che tutti i loro strenui sforzi di quasi un anno sarebbero andati in fumo, trascinandosi dietro il futuro dell’azienda. E gli fece eco la dottoressa Dawson in persona nel ricordargli che le spese impreviste erano del tutto occasionali, una situazione evidentemente temporanea, la cui causa era già stata affrontata. Per quanto potesse essere propenso a credere che gli stessero dicendo la verità, Paul sapeva che comunque, tenendo segreta la notizia, avrebbe violato la legge. Costretto a scegliere tra il suo innato senso etico da una parte e le sue aspirazioni personali e l’insaziabile voracità della sua famiglia dall’altra, viveva in uno stato d’animo di perenne tormento. Tant’è che aveva ricominciato a bere, un problema che aveva risolto anni prima ma che la situazione attuale aveva risvegliato. Riteneva comunque di riuscire a non farsene travolgere, limitandosi a qualche cocktail prima di salire sul treno che lo riportava a casa nel New Jersey. Non c’erano più state le bevute interminabili e i festini con le belle di notte, come ai tempi in cui era l’alcol a dominare la sua vita. La sera del 2 aprile 2007, in cammino verso la stazione, si fermò al suo solito abbeveratoio e mentre sorseggiava il suo terzo martini vodka guardandosi nello specchio opaco dietro il bancone del bar, decise all’improvviso che l’indomani avrebbe inoltrato il rapporto richiesto. Si era dibattuto per giorni, ma tutt’a un tratto pensò che potesse esserci il modo di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Nello stato di lieve alterazione dovuta all’alcol, rifletté che, ormai così a ridosso della chiusura delle trattative per l’offerta pubblica d’acquisto, era probabile che il suo rapporto restasse impigliato nelle lentezze burocratiche della SEC e non giungesse agli investitori in tempo. In questo modo avrebbe messo a tacere la coscienza senza sperabilmente affossare l’offerta d’acquisto. Preso dall’euforia per aver raggiunto una decisione anche se probabilmente avrebbe cambiato idea nel corso della notte, Paul si premiò con un quarto cocktail. L’ultima vodka gli sembrò la più buona di quella sera ed è forse questa la ragione che lo spinse un’ora dopo a fare qualcosa che normalmente non si sarebbe concesso. Mentre dalla stazione procedeva un po’ ondeggiando verso casa, ormai a poche centinaia di metri dalla sua destinazione, si lasciò avvicinare da due individui elegantemente vestiti ma anche vagamente inquietanti, e scesi da una grossa Cadillac nera d’annata. «Signor Paul Yang?» lo apostrofò uno dei due con la voce roca. Paul si fermò e questo fu il suo primo errore. «Sì», rispose, che fu il suo secondo errore. Avrebbe fatto meglio a tirare dritto. Fermatosi così bruscamente, barcollò per qualche istante prima di trovare l’equilibrio e sbatté ripetutamente le palpebre per schiarirsi la vista un po’ offuscata. I due gli sembrarono più o meno coetanei e di statura simile, con facce angolose, occhi infossati e capelli scuri accuratamente pettinati all’indietro. Uno dei due aveva la faccia considerevolmente deturpata dalle cicatrici. Fu l’altro a parlare. «Vuol essere così gentile da concederci un momento del suo tempo?» gli chiese. «Non vedo perché no», rispose Paul, sorpreso dalla contraddizione tra la cortese sintassi della richiesta e il pesante accento newyorkese. «Ci scusi se la facciamo ritardare», continuò l’altro. «Sono sicuro che è ansioso di rincasare.» Paul girò la testa e lanciò un’occhiata in direzione della porta di casa. Che quei due sconosciuti sapessero dove abitava gli trasmise un effetto non del tutto piacevole. «Io mi chiamo Franco Ponti», aggiunse l’uomo, «e questo signore è Angelo Facciolo.» Paul guardò brevemente l’uomo con le brutte cicatrici. Sembrava che non avesse sopracciglia, cosa che gli conferiva un aspetto un po’ da alieno nella scarsa luce del tardo pomeriggio. «Lavoriamo per il signor Vinnie Dominick. Non credo che lei lo conosca.» Paul annuì. Per quel che gli risultava, non aveva mai visto nessun signor Vinnie Dominick. «Sono stato autorizzato dal signor Dominick a riferirle qualcosa di finanziariamente significativo sulla Angels Healthcare di cui nessuno in azienda è a conoscenza», continuò Franco. «In cambio di questa informazione, che il signor Dominick è sicuro sarà per lei di notevole interesse, le chiede semplicemente di rispettarne la confidenzialità e di non riferirlo a nessun altro. Siamo intesi?» Paul si sforzò di riflettere, ma in quelle circostanze era difficile. Tuttavia, nella sua qualità di capo contabile della Angels Healthcare, era naturalmente sensibile a qualunque informazione di presunta importanza finanziaria. «Okay», rispose finalmente. «Ora, devo avvertirla che il signor Dominick prende in parola le persone e sarebbe molto grave se lei non onorasse il suo impegno. Mi capisce?» «Credo di sì», disse Paul. Dovette fare improvvisamente un passo indietro per mantenere l’equilibrio. «Il signor Vinnie Dominick è l’angel investor della Angels Healthcare.» «Cavoli!» si lasciò sfuggire Paul. Nella sua posizione, sapeva bene dell’esistenza di un angel investor nella forma di quindici milioni di dollari nel capitale sociale, ma non ne conosceva il nome. Come se non bastasse, era la stessa persona che poco tempo prima aveva messo a disposizione un prestito da un quarto di milione di dollari a copertura dell’attuale ammanco. Dal punto di vista dell’azienda, nonché da quello di Paul, il signor Dominick era un eroe. «Dunque, il signor Dominick ha un favore da chiederle. Vorrebbe incontrarsi con lei per qualche minuto senza che la dirigenza della Angels Healthcare lo venga a sapere. Mi ha detto di riferirle che lo preoccupa l’eventualità che la direzione dell’azienda non rispetti la lettera della legge. Ora, io non so bene che cosa vuol dire, ma lui mi ha assicurato che lei sì.» Paul annuì di nuovo mentre ancora cercava di schiarirsi il cervello ottenebrato dalla troppa vodka. Riecco il problema sul quale si era angustiato in solitudine per settimane, e all’improvviso gli veniva offerto un aiuto inatteso. Si schiarì la gola. «Dove vorrebbe che ci incontrassimo?» domandò. Si chinò per cercare invano di guardare nell’abitacolo della Cadillac nera. «Ora», rispose Franco. «Il signor Dominick ha uno yacht ormeggiato a Hoboken. Possiamo portarcela in quindici minuti, voi parlate e saremo noi a riportarla davanti alla porta di casa sua. Ci vorrà un’ora al massimo.» «Hoboken?» chiese Paul rammaricandosi degli aperitivi che aveva bevuto. Gli stava diventando sempre più difficile ragionare. Per un secondo non riuscì nemmeno a ricordare dove fosse Hoboken. «Ci saremo in un quarto d’ora», ripetè Franco. L’idea non lo entusiasmava e poi detestava essere colto alla sprovvista. Lui era un tirasomme a cui piaceva avere a che fare con i numeri, a disagio quando si trattava di prendere decisioni frettolose, specialmente se era un po’ brillo. In circostanze normali, Paul non sarebbe mai salito in macchina di sera con dei totali sconosciuti per un incontro su uno yacht con un uomo che non aveva mai visto in vita sua. Ma in quello stato un po’ alterato e con la prospettiva di trovare per complice nella soluzione del suo problemino un attore dell’importanza di Vinnie Dominick, non

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