Percorsi 165 Remotti.indd 1 22/03/13 13:55 ANTROPOLOGIA Serie diretta da Francesco Remotti ultimi volumi pubblicati Maria Arioti Introduzione all’antropologia della parentela Alice Bellagamba L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica Enrico Comba Antropologia delle religioni. Un’introduzione Gianluca Ligi Antropologia dei disastri Marina Sozzi Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia Stefano Allovio Pigmei, europei e altri selvaggi Luca Jourdan Generazione Kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo Adriano Favole Oceania. Isole di creatività culturale Francesco Remotti Cultura. Dalla complessità all’impoverimento Francesco Remotti Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi Remotti.indd 2 22/03/13 13:55 Francesco Remotti Fare umanità I drammi dell’antropo-poiesi Editori Laterza Remotti.indd 3 22/03/13 13:55 © 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione maggio 2013 Edizione 1 2 3 4 5 6 Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0749-2 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Remotti.indd 4 22/03/13 13:55 Premessa Quale significato attribuire all’espressione Fare umanità? Da un titolo di questo genere vorremmo fosse eliminata qualsiasi conce- zione grandiosa, sia per quanto riguarda il processo (“fare”), sia per quanto concerne il prodotto (“umanità”). Ora che il libro è finito ed è stato consegnato all’editore, vengono i brividi nell’im- maginare quali significati magniloquenti l’espressione potrebbe assumere in senso morale, in senso politico o in un qualunque senso storico. Tutto il libro vorrebbe trasmettere, al contrario, un senso profondo di difficoltà, di pochezza, di sprovvedutezza e, nel contempo, una buona dose di diffidenza verso propositi, progetti, programmi che anche soltanto sfiorino la grandiosità. La tesi che qui vogliamo dimostrare si articola infatti in due semplici affermazioni: da un lato tutti “noi”, esseri umani, siamo tenuti, quasi “condannati”, a costruire, in un modo o nell’altro, umanità, ma dall’altro lato c’è una forte carenza di mezzi, di idee, di condizioni, di strumenti. Siamo chiamati a fare umanità; ma – come è assai facile dimostrare, se ci atteniamo ai risultati – non ne siamo granché capaci, soprattutto quando, per atroce paradosso, pretendiamo di avere in mano le chiavi di questa impresa. An- che per questo, si è voluto accennare nel sottotitolo ai “drammi” dell’antropo-poiesi. “Antropo-poiesi” è un’espressione non del tutto ovvia. Ma poiché comincia ad avere una certa risonanza, insieme ad altre espressioni similari (“antropo-genesi”, per esempio), si è ritenuto opportuno esporre qui presupposti, implicazioni e applicazioni di una prospettiva teorica a cui l’autore si è dedicato a partire dai primi anni Novanta e che poi ha ufficializzato soprattutto dal 1996. In greco poiesis, dal verbo poiein (fare), esprime l’idea del modellamento. La teoria dell’antropo-poiesi distingue perciò tipi, v Remotti.indd 5 22/03/13 13:55 livelli, modalità della fabbricazione dell’essere umano: soprattut- to, insiste nel sottolineare che – essendo l’essere umano molto plastico – c’è da un lato un “fare” antropo-poietico incessante e spesso anche inconsapevole, a cui si contrappongono, dall’altro lato, i momenti di un “fare” più consapevole e programmato. Per il “fare” incessante dell’antropo-poiesi anonima non è af- fatto fuori luogo evocare la presenza di una “mano invisibile”. Utilizzata nel Settecento da Adam Smith (1977: 442-444) per spie- gare esiti insperati del comportamento economico degli individui, la mano invisibile è senza dubbio una metafora che, in campo antropo-poietico, si rivela ancora più pertinente: infatti, da meta- fora potrebbe tradursi addirittura in descrizione della realtà, non appena si pensi a forze, poteri, interessi più o meno occulti che spingono verso determinate forme di umanità. Ma nel caso del “fare” programmato, dove la mano per così dire è apertamente visibile, a quale figura si potrebbe fare ricorso? Nel descrivere a Tikopia, una minuscola isola della Polinesia, il rituale di ini- ziazione maschile – uno «dei più drammatici tipi di istituzione che regolano» questa società –, a Raymond Firth (1976: 392) era sembrato quasi inevitabile evocare il lavoro industriale: i giova- ni appaiono trattati «come una materia prima in una fabbrica; usciti dalla fornace [...] sono percossi, tagliati, fatti roteare, torti, riscaldati per farne un attrezzo adatto all’uso sociale». Ma subito dopo l’antropologo s’accorge che l’analogia non tiene, in quanto il modo in cui la società «si prende cura dei suoi membri» non può essere paragonato a «una catena di montaggio». Negli stessi anni Trenta del Novecento, quando Raymond Firth aveva rischiato di interpretare i rituali di iniziazione di «alcune comunità selvagge» alla stregua di una fabbrica fordista, Stalin pensava di affidare a “ingegneri di anime” la costruzione dell’uomo sovietico: una vera e propria pianificazione antropo-poietica (capitolo V). Di che c’è bisogno per l’antropo-poiesi programmata? Di in- gegneri o di artigiani? Quale di queste figure è più appropriata? In questo libro si è voluto sostenere che per i compiti antropo-po- ietici non è il caso di affidarsi a ingegneri e tanto meno concepire l’attività antropo-poietica come un lavoro di fabbrica. L’antropo- poiesi programmata va intesa infatti come un “prendersi cura”: si tratta della cura della nostra umanità, «la cura che dobbiamo vi Remotti.indd 6 22/03/13 13:55 prenderci di noi» – come Socrate diceva al giovane Alcibiade –, e che inevitabilmente comporta la domanda più decisiva e im- portante: «cos’è dunque l’uomo?» (Platone 1966: 834-835). Po- chi anni or sono, Richard Sennett (2008) ha nobilitato la figura dell’artigiano. In armonia con la visione di Sennett, si vorrebbe rendere esplicita un’idea rimasta un po’ sotto traccia in questo libro, ossia che l’antropo-poiesi programmata potrebbe essere intesa appunto come un lavoro squisitamente artigianale: un fa- re in cui la dimensione del pensiero, della cura e quindi anche del dubbio è fondamentale; tanto più che si tratta di un fare che riguarda non già la materia inerte, bensì corpi vivi, anime, intelli- genze, emozioni, sentimenti, progetti di vita. Forse, però, come ci sembrano suggerire i baNande (capitolo VI), nemmeno di artigiani si tratta, bensì di semplici bricoleurs, cioè di persone che utilizzano «mezzi diversi rispetto a quelli usa- ti dall’uomo del mestiere». Così Claude Lévi-Strauss (1964: 29) definisce la figura del bricoleur, considerato come rappresentativo di una «scienza primaria» o «scienza del concreto», di un sapere che si deve accontentare di ciò che si trova ad avere «tra le ma- ni», a differenza dell’ingegnere che invece dispone di strumenti efficaci e potenti per «aprirsi un varco» nella realtà, per realizzare ciò che molti chiamerebbero progresso, per lo meno sul piano scientifico e tecnologico (1964: 29-30, 32). Bricoleur e ingegnere: la differenza per Lévi-Strauss, pur non assoluta, «è però reale», in quanto le creazioni del primo «si riducono ogni volta a un nuovo assetto di elementi che non mutano di natura», rimanendo quindi imprigionato in un universo «chiuso», mentre nel caso del secon- do si ottiene un’«apertura» verso il futuro (1964: 30, 33). Lévi- Strauss non parla di progresso, ma quando la figura dell’ingegnere viene adottata per descrivere un certo tipo di umanità è proprio a questo che si pensa. Può essere significativo ricordare – come poi faremo anche nel capitolo V – il modello dell’ingegnere che René Descartes pone come emblema della modernità, di colui cioè che ha finalmente a disposizione uno spazio sgombro dalle vecchie case (i vecchi pregiudizi, le tradizioni del passato) e che costruisce senza più retaggi e condizionamenti culturali la nuova città, l’uomo nuovo. Allora la domanda è: in campo antropo-poietico si può parlare di progresso, di un progresso garantito da “uomini del mestiere”? vii Remotti.indd 7 22/03/13 13:55 Esistono ingegneri, che dispongano di mezzi adatti e che davvero riescano a portare a termine i loro progetti radicalmente inno- vativi, oppure in fondo tutti noi non siamo altro che bricoleurs dell’antropo-poiesi? Riteniamo che nei confronti dell’antropo- poiesi, anche dell’antropo-poiesi programmata, sia estremamente rischioso pensare di poter fare di più che procedere per tentati- vi, provando a utilizzare mezzi, idee, strumenti, segnati dall’in- completezza e persino dall’inadeguatezza rispetto al compito tremendo di “fare umanità”. Pensare di essere qualcosa di più che semplici bricoleurs può dare luogo alle tragedie a cui ci si è riferiti nel capitolo V. Del resto, la stessa evoluzione biologica, di cui siamo l’esito provvisorio e fortuito, può essere concepita non come l’opera di un ingegnere, ma come quella di un bricoleur, il quale – come afferma François Jacob (1978: 17) – «utilizza tutto ciò che ha sotto mano» e «si arrangia con gli scarti» che trova. Sarebbe però molto riduttivo terminare con l’idea di un bricolage antropo-poietico senza senso e puramente casuale. L’antropo- poiesi – svolta da bricoleurs che hanno incorporato nel loro fare l’arte dell’arrangiarsi – contiene idee, progetti, obiettivi, valori. Se l’evoluzione è priva in quanto tale di una progettualità, non così è per l’antropo-poiesi. È bene che i bricoleurs antropo-poietici non pretendano di andare oltre questa loro condizione; essi però non potranno fare a meno di riflettere, da filosofi o da antropologi, sul “che cos’è l’uomo” e su come lo si debba costruire, perseguendo nel contempo, da artigiani o da artisti, quella grazia e quella bel- lezza (Parte seconda) che, a seguito delle loro scelte, ritengono più consone all’umanità che intendono modellare. Questa è però soltanto una premessa, che è doveroso conclu- dere elencando le persone che maggiormente hanno partecipato a questa impresa e a cui vanno i ringraziamenti dell’autore: – gli studenti, che in tutti questi anni (a partire almeno dalla metà degli anni Novanta) hanno per primi dimostrato interesse per l’antropo-poiesi, soprattutto utilizzando questo concetto nei loro lavori di tesi; – i collaboratori, che hanno preso parte attiva all’elaborazione di questa problematica. In particolare, Stefano Allovio e Adriano Favole, a cui si deve l’allestimento di due testi collettivi all’inizio delle nostre esplorazioni antropo-poietiche: Le fucine rituali (Al- viii Remotti.indd 8 22/03/13 13:55 lovio e Favole 1996) e Forme di umanità (Remotti 2002); Cecilia Pennacini, Silvia Forni e Chiara Pussetti, le quali hanno esteso il concetto di antropo-poiesi alla problematica della riproduzione e della costruzione culturale della femminilità (Forni, Pennacini, Pussetti 2006); – i colleghi Francis Affergan, Silvana Borutti, Claude Calame, Ugo Fabietti, Mondher Kilani, che nei ripetuti incontri annuali del nostro gruppo di ricerca hanno accolto, dibattuto e adottato la prospettiva antropo-poietica, fornendo così l’occasione di ap- profondimenti preziosi; – i colleghi e collaboratori con cui è stato organizzato il corso di Antropologia culturale, dal titolo “Fare umanità. La costru- zione della persona in contesti interculturali”, presso il Centro Interculturale del Comune di Torino (settembre-dicembre 2004); – i colleghi e collaboratori delle Università di Torino, Bologna e Venezia, che negli anni 2008-2010 hanno fatto parte del gruppo di ricerca nazionale “Persone e società: confini, soglie, transizioni”; – i curatori e gli editori delle pubblicazioni che sono alle origini di questo libro. F.R. Avvertenza Quasi tutti i capitoli che seguono sono stati costruiti a partire da pubblicazioni precedenti, di cui si fornisce ora l’elenco con l’indicazione completa delle fonti. Cap. I: con alcune modifiche e integrazioni, riproduce “Incomple- tezza, plasticità, antropo-poiesi. Il ‘legno storto’ dell’umanità”, in En- rico Donaggio (a cura di), Filosofia, storia e società. Omaggio a Pietro Rossi, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 183-218. Cap. II: con alcune modifiche e integrazioni, riproduce nella pri- ma parte “Tesi per una prospettiva antropo-poietica”, Introduzione a Stefano Allovio e Adriano Favole (a cura di), Le fucine rituali. Temi di antropo-poiesi, Torino, Il Segnalibro, 1996, pp. 9-25. La seconda parte è sostanzialmente inedita, con parziale utilizzazione dell’Introduzione a Francesco Remotti (a cura di), Forme di umanità, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 1-31. Cap. III: con modifiche, integrazioni e aggiornamenti, riproduce ix Remotti.indd 9 22/03/13 13:55