arrigo petacco. FaccettaNera.txt Nei primi decenni del secolo scorso la parola "Abissinia" occupava un posto di rilievo nell'immaginario collettivo degli italiani. Bastava nominarla per evocare non solo luoghi esotici divenuti mitici grazie alle imprese militari in terra d'Africa compiute dal nostro paese in epoca postrisorgimentale, ma anche un confuso groviglio di sentimenti e di desideri inespressi: la voglia d'avventura, il fascino dell'ignoto, la ricerca dell'isola felice, a cui si accompagnavano il senso di frustrazione e la volontà di rivalsa per le sconfitte subite in Etiopia negli ultimi anni dell'Ottocento, con le quali si era posto un freno al sogno di un impero coloniale. In questo clima si gettarono le basi del progetto imperiale mussoliniano che culminò nella guerra d'Abissinia del 1935. Gli stati d'animo e le aspettative di quegli anni rispetto alla questione africana offrono ad Arrigo Petacco lo spunto per ripercorrere l'intero arco dell'avventura coloniale italiana, segnata da un alternarsi di trionfi e disfatte: dalla creazione della colonia Eritrea nel 1890 alla "vergogna di Adua" del 1896; dalle complesse vicende diplomatiche che precedettero l'invasione dell'Etiopia nel 1935 alle "inique sanzioni" inflitte all'Italia per volere soprattutto della Gran Bretagna; dall'avanzata di Badoglio verso Addis Abeba alla proclamazione, nel 1936, dell'impero riapparso "sui colli fatali di Roma" e alla sua repentina fine, nel 1941, con la resa agli inglesi dei nostri ultimi presidi sull'Amba Alagi e a Cheren. Intessendo il racconto di gustose notazioni sui costumi e le mode degli italiani del periodo, l'autore si sofferma in particolar modo sulla campagna d'Abissinia, la più popolare delle guerre fasciste: allora il consenso al regime raggiunse l'apice, e persino molti esponenti dell'antifascismo militante espressero la loro approvazione per quell'impresa d'oltremare con cui l'Italia riscattava il proprio orgoglio nazionale. La sua ricostruzione mette soprattutto in luce la stretta relazione esistente tra le ambizioni espansionistiche del nostro paese in Africa e il modificarsi, con la minacciosa entrata in scena della Germania di Hitler, dei delicati equilibri europei che si erano creati all'indomani della prima guerra mondiale. Differenziandosi da tanta parte della nostra storiografia che ha riservato a questa pagina di storia soltanto giudizi di condanna o di scherno, Arrigo Petacco propone la vicenda della fondazione dell'effimero impero coloniale di Mussolini in tutta la sua complessità e in un'ottica scevra di pregiudizi. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de "La Nazione" e di "Storia illustrata", ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, II comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, II Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista! e Il Cristo dell'Amiata. In sovraccoperta: Soldati italiani impegnati nella battaglia dell'Endertà, febbraio 1936 Foto Centro Documentazione Mondadori GRAPHIC DESIGNER: ANDREA FALSETTI € 17,00 Arrigo Petacco FACCETTA NERA Storia della conquista dell'impero Pagina 1 arrigo petacco. FaccettaNera.txt Ebook realizzato da filuc (2004) [email protected] MONDADOBI Dello stesso autore in edizione Mondadori Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale Dear Benito, caro Winston I ragazzi del '44 La regina del Sud Il Prefetto di ferro La principessa del Nord La Signora della Vandea La nostra guerra. 1940-1945 II comunista in camicia nera L'archivio segreto di Mussolini Regina II Superfascista L'armata scomparsa L'esodo L'anarchico che venne dall'America L'amante dell'imperatore Joe Petrosino L'armata nel deserto Ammazzate quel fascista! Il Cristo dell'Amiata http://www.librimondadori.it ISBN 88-04-51803-0 (c) 2003 Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione ottobre 2003 III edizione novembre 2003 INDICE I L'Abissinia era solo un quiz Pagina 2 arrigo petacco. FaccettaNera.txt II La sconfitta del "Napoleone d'Africa" III "Ho venduto il negro" IV La stagione degli inganni V Una guerra all'americana VI Il ruggito del topo VII L'incubo di una "nuova Adua" VIII "Armiamoci e partiamo" IX La conquista della Montagna d'oro X Da Mai Ceu a Addis Abeba XI L'impero riappare sui colli fatali XII Una canzonetta contestata XIII L'impero più breve XIV Si ammaina a Gondar l'ultimo tricolore Bibliografia Referenze fotografiche Indice dei nomi FACCETTA NERA A Livia I L'ABISSINIA ERA SOLO UN QUIZ Nell'estate del 1935, quando gli italiani si accingevano a conquistare l'Abissinia al canto di Faccetta nera, l'opinione pubblica mondiale, benché in gran parte schierata in favore del paese minacciato, di questo conosceva poco o nulla. Le uniche informazioni diffuse a livello popolare erano quelle che gli appassionati dei giochi enigmistici avevano avuto modo di ricavare dalla soluzione dei cruciverba. Infatti, proprio per le sue curiose particolarità, l'Abissinia rappresentava una fonte inesauribile di quiz per i compilatori di parole incrociate. Innanzitutto, poteva essere chiamata indifferentemente Etiopia o Abissinia; era poi l'unico regno africano indipendente, l'unico scampato alla colonizzazione europea, l'unico che aveva sconfitto sul campo un esercito "bianco" (quello italiano) e l'unico rappresentato con pieno diritto nella Lega delle Nazioni (ossia l'ONU di allora), a dispetto delle discriminazioni razziali esistenti all'epoca. E non è tutto. L'Abissinia possedeva altre singolari peculiarità: seppure collocata in un'area totalmente islamizzata, si era mantenuta cristiana e devota alla propria chiesa, la Chiesa copta, sviluppatasi autonomamente dai tempi del concilio di Calcedonia nel V secolo d.C. Inoltre era un "impero" governato da un piccolo sovrano nero di nome Hailè Selassiè, che esercitava il potere assoluto dal suo trono, detto del Leone di Giuda. Più che imperatore questo sovrano preferiva essere chiamato negus neghesti, ossia "re dei re", e vantava un'ascendenza da fare invidia a ogni altra dinastia regnante: il suo regno esisteva fin dai tempi biblici ed egli era il 220° discendente di Menelik I, figlio di re Salomone e della regina di Saba. Ma a parte tale scarna nozionistica di stampo enigmistico, su tutto ciò che riguardava l'Abissinia del 1935 dominava il buio più completo. Se ne ignorava l'ordinamento interno, il tenore di vita, i commerci, gli usi, i costumi e persino il numero degli abitanti. Tanto è vero che con l'aumentare della tensione fra Italia ed Etiopia divenne ben presto palese come l'ignoranza a proposito di questo misterioso paese da favola affliggesse anche la stampa meglio informata. "Pochi direttori di giornali" confesserà in seguito Evelyn Waugh, inviato di guerra del "Daily Mail" "erano in grado di trovare l'Abissinia sulla carta geografica o avevano una sia pur pallida idea della natura del paese. I pochi che si erano affrettati a consultare qualche vecchio e inaffidabile resoconto di antichi esploratori credevano che l'Abissinia si trovasse sotto il livello del mare e fosse un vasto bassopiano di rocce e di sale, privo d'acqua, immerso nella calura e scarsamente abitato da pazzoidi nudi con tendenze omicide. Altri invece immaginavano una specie di Tibet africano dove antichi palazzi inviolati svettavano sulle rupi. Il direttore di un grande Pagina 3 arrigo petacco. FaccettaNera.txt giornale inglese credeva addirittura che gli abissini parlassero il greco antico." I giornalisti cominciarono ad arrivare a Addis Abeba nel maggio del 1935, quando Mussolini aveva fatto chiaramente capire che non intendeva rinunciare alla conquista di quello che lui chiamava "un posto al sole". La capitale etiopica che li accolse - il cui nome in amarico significa "nuovo fiore" - era una cittadina inospitale, caotica, sporca, polverosa, piena di lebbrosi, di eunuchi, di schiavi e di sciarmutte. Vantava un piccolo palazzo reale, il ghebì, con un viale d'accesso fiancheggiato da due file di leoni, alcune chiese, una stazione ferroviaria, un ufficio postale, due cinema all'aperto, molti tabarin, una stazione radio, alcune villette che ospitavano le varie rappresentanze diplomatiche e una serie di baracche intonacate che costituivano il quartiere commerciale. Il resto era una distesa di capanne di fango, graticci di canne e lamiera ondulata. Addis Abeba contava forse 150.000 abitanti, anche se nessuno si era mai preoccupato di contarli. Una popolazione indolente e curiosa che viveva alla giornata ed era sempre pronta ad accorrere in massa al richiamo di una qualsiasi novità: un'impiccagione, l'amputazione di una mano o di un piede a un malfattore, o l'arrivo di qualche ras caracollante sul suo muletto e circondato da una scorta di armati che andava a rendere omaggio al negus. Non esistevano leggi certe, ma solo balzelli arbitrari ed era consentita una straordinaria libertà di impresa: chiunque poteva aprire a piacimento un negozio senza permesso o licenza, né l'obbligo di una tassa. La colonia straniera nella capitale era costituita da un incredibile miscuglio di nazionalità. Turchi, greci, ebrei, armeni, egiziani, arabi e neri americani convivevano tranquilli senza problemi razziali o religiosi. I pochi europei presenti erano i classici ammalati di "mal d'Africa", la gran parte dei quali, scoperto il fascino delle scioane e delle harariane, come era capitato a Rimbaud quando faceva il trafficante d'armi, avevano finito per sposarsi con qualche bella uizerò, le ragazze bene di Addis Abeba, imparentate con la famiglia imperiale. Costoro, chiamati ligg, godevano di particolari privilegi e spesso venivano insigniti delle più strane decorazioni: cavaliere della Stella d'Etiopia, cavaliere della Santa Trinità, cavaliere dell'Ordine della Spada, ottenendo anche importanti incarichi. Fu il caso dell'esule russo Mischa Babitcheff che diventò comandante dell'aeronautica etiopica durante la guerra contro l'Italia. Ligg o non ligg, gli europei si divertivano quanto potevano intrecciando e sciogliendo legami sentimentali, e a sera riempivano i tabarin sempre aperti e pullulanti di disponibili bellezze locali, le famose sciarmutte. Per i privilegiati c'erano i ricevimenti a corte dove si trincava in libertà davanti a immense tavolate gementi sotto il peso di appetitosi maialini di latte, facoceri, tacchini e quant'altro, il tutto condito con il piccante berbere che incendiava le viscere. Allora poteva capitare di veder finire sotto il tavolo il compassato console britannico o qualcuno dei tanti ufficiali belgi o scandinavi che il negus aveva reclutato per istruire le sue truppe. Andava peggio quando gli ospiti sbronzi tornavano a casa sulle gambe malferrne: a Addis Abeba i pozzi neri erano en plain air ai lati delle strade e cascarci dentro non doveva essere una cosa piacevole. Per arrivare nella capitale etiopica, dove erano stati richiamati dall'annuncio di una prossima guerra, i giornalisti avevano dovuto raggiungere via mare Gibuti, nella Somalia francese, e da lì viaggiare sul solo treno disponibile, composto di carrozze di legno con persiane ai finestrini per attenuare la calura, attraverso l'unica linea ferroviaria lunga quasi mille chilometri che collegava Addis Abeba alla costa. La città non era attrezzata per accoglierli e i nuovi arrivati furono costretti a sistemarsi alla meglio nel solo albergo esistente, l'Hotel Imperial, che, a detta di un corrispondente americano, sembrava "essere stato trasportato di peso dallo Yukon al tempo della febbre dell'oro". Disponeva infatti di una trentina di camere per cui, nei momenti di punta, ogni stanza era occupata contemporaneamente da tre o quattro clienti. Per essere accreditati presso il governo abissino non esistevano particolari formalità: bastava che i giornalisti depositassero una somma pari al prezzo del viaggio di ritorno, nel caso fossero "espulsi per cattiva condotta". Quando all'alba del 3 ottobre ebbe inizio il conflitto italo-etiopico, i corrispondenti autorizzati erano circa centocinquanta e rappresentavano i più importanti quotidiani del mondo. A questi si aggiungevano alcuni redattori della Tass, l'agenzia di stampa sovietica, i quali però, secondo l'uso comunista, non frequentavano i colleghi e vivevano appartati presso la loro ambasciata. I sopraggiunti non tardarono a rendersi conto di quanto fosse arduo svolgere il proprio lavoro. Era difficile raccogliere le notizie, ma ancor più lo era la trasmissione delle stesse alle rispettive redazioni. Non esistevano uffici Pagina 4 arrigo petacco. FaccettaNera.txt stampa, i rari comunicati ufficiali risultavano quasi sempre deludenti o esageratamente fantasiosi, mentre i costi telegrafici erano addirittura proibitivi (mezza sterlina per parola, la tariffa più alta del mondo). Poi c'era il problema della lingua, poiché nessuno conosceva l'amarico, nonché la proibizione di uscire da Addis Abeba. Il governo aveva imposto tale divieto affermando - certo con ragione - che non poteva rispondere della sicurezza personale dei giornalisti in quanto gli uomini delle tribù consideravano frengi, stranieri e quindi nemici, tutti i bianchi in circolazione. In quei primi giorni di guerra non se la passavano bene neanche i giornalisti stranieri accreditati presso il comando italiano di Asmara in Eritrea. La censura militare imposta dai generale De Bono era rigorosissima e cancellava spietatamente tutto ciò che valeva la pena di essere pubblicato. La situazione peggiorò con l'arrivo di Badoglio. Il nuovo comandante in capo si rivelò infatti ancora più drastico del suo predecessore e bloccò tutti gli inviati nella capitale eritrea per più di dieci settimane, ossia finché non fu in grado di scatenare l'offensiva. Questo embargo sulle informazioni ebbe conseguenze negative sull'immagine del nostro esercito. Il silenzio dei giornalisti di Asmara coincise infatti, curiosamente, con un'improvvisa piena di notizie proveniente da Addis Abeba che dilagò rapidamente sulla stampa internazionale. Così, mentre i corrispondenti da Asmara trascorrevano il tempo impegnati in frustranti partite di bridge, i loro colleghi nella capitale etiopica si consumavano le dita sulle portatili. Ma cos'era accaduto? A togliere i corrispondenti di Addis Abeba dall'impasse in cui sì erano venuti a trovare avevano provveduto gli "interpreti volontari". Avventurieri di ogni risma, venuti al corrente della sete di notizie che attanagliava il giornalismo estero, monetizzarono la loro conoscenza dell'inglese o del francese trasformandosi in venditori di "esclusive" e di scoop eccezionali. Com'è facile immaginare, si trattava di notizie inventate di sana pianta o di esagerazioni dettate più dall'entusiasmo patriottico che dal rispetto della verità. Ma poiché un reportage romanzesco è sempre più affascinante di un resoconto veritiero prosciugato dalla censura, i giornali occidentali attinsero largamente da queste corrispondenze fasulle contribuendo in tal modo a diffondere l'opinione che le forze armate italiane si trovassero in gravi difficoltà. Il business delle false notizie prosperò a Addis Abeba per rutta la durata della guerra e risolse più di una situazione economica. Fra gli informatori inattendibili, il più ricercato e il meglio pagato era senza dubbio Wazie Ali Bey, un furbo abissino che si arricchì prestando, naturalmente in "gran segreto", i suoi servigi personalizzati ai più importanti corrispondenti stranieri della capitale etiopica. Le sue esclusive, tutte inventate, ma ben confezionate e politicamente corrette nei riguardi del governo locale, trovarono ampi e accoglienti spazi soprattutto nei giornali stranieri che antipatizzavano con l'Italia fascista. Ma, a questo punto, sarà opportuno precisare che non tutta la stampa occidentale democratica era schierata contro l'invasione italiana dell'Abissinia. Se, per esempio, il "Times" britannico la criticava senza mezzi termini, la rivista americana "Time" manifestava apertamente le sue simpatie verso Mussolini. D'altro canto, va ricordato, o meglio sottolineato, perché sono ancora in molti a volerlo occultare, che a quell'epoca il Duce e il fascismo non erano affatto demonizzati. Al contrario, in molti ambienti il fascismo era considerato una teoria politico-filosofica di tutto rispetto e giudicato da molti l'unico antidoto efficace contro il dilagare del bolscevismo, ritenuto allora la principale minaccia per gli equilibri internazionali. Da parte sua, Mussolini godeva di una vasta popolarità e aveva numerosi ammiratori in tutto il mondo, fra i quali spiccava l'autorevole Winston Churchill. Anche a proposito dell'aggressione italiana all'Etiopia, che mise in subbuglio la Lega delle Nazioni, vi erano posizioni discordanti. Gli osservatori più obiettivi o realistici non trovavano infatti scandaloso che l'Italia, come tutte le altre potenze europee, si cercasse un "posto al sole" nel continente africano. A questo proposito non bisogna dimenticare che nel 1935 esistevano ancora, intatti e imponenti, vastissimi imperi coloniali europei formatisi nei secoli precedenti. Esisteva un impero inglese sul quale "non tramontava mai il sole". Esistevano imperi africani, asiatici e oceanici della Francia, del Belgio, dell'Olanda e del Portogallo. L'impero coloniale della Germania, un tempo rigoglioso, era invece scomparso circa quindici anni prima, dopo la fine della Grande guerra, quando i suoi resti erano stati inghiottiti da Francia e Inghilterra, le quali avevano lasciato all'Italia soltanto "poche briciole", come si lamenterà Mussolini. Sopravviveva insomma, moderna e vigorosa, "l'idea Pagina 5 arrigo petacco. FaccettaNera.txt imperiale" nonché il postulato della "civilizzazione bianca", concetti tipici di un'Europa che ancora si riteneva la dominatrice del mondo. Sarà opportuno tener presente tutto ciò prima di giudicare, secondo i criteri etici di oggi, questi avvenimenti accaduti in anni ormai lontani. Frattanto, l'infuriare delle informazioni fasulle provenienti dal versante abissino, così contrastanti con la realtà dei fatti, aveva finito per disorientare l'opinione pubblica internazionale. Chi stava vincendo, gli italiani o gli abissini? Si registrarono anche molti episodi curiosi o divertenti. I corrispondenti al seguito delle forze italiane, per esempio, incontrarono spesso difficoltà a far pubblicare i propri reportage, esatti ma succinti, perché i direttori diffidavano di quei resoconti ritenendoli influenzati dai nostri servizi segreti. Si dava invece grande risalto alle notizie particolareggiate dell'agenzia Wazie Alì Bey che favoleggiava di scontri e di battaglie in cui gli italiani continuavano ad avere la peggio. Il "New York Times" giunse persino a cestinare una corrispondenza da Asmara, nella quale Herbert Matthews pronosticava la prossima vittoria italiana, e preferì dare spazio a quella da Addis Abeba che sosteneva il contrario. Neppure l'esito favorevole agli italiani della battaglia decisiva dell'Endertà modificò la situazione. Il "Times" di Londra e il "New York Times" la definirono un piccolo combattimento senza importanza. E pubblicarono l'autorevole commento del massimo storico militare britannico, Sir Basil Liddell Hart, il quale sosteneva che "nulla autorizza a credere che si tratti di una vittoria decisiva". Pochi giorni dopo, però, gli italiani entravano trionfalmente in Addis Abeba. Il non aver creduto che gli italiani stessero vincendo provocò, come ovvia conseguenza, una frenetica ricerca di giustificazioni allorché divenne chiaro che stavano effettivamente vincendo. La più facile e la più sfruttata fu quella di sostenere che il nostro esercito aveva sconfitto gli etiopi usando i gas e bombardando indiscriminatamente gli ospedali, i centri della Croce Rossa e altri obiettivi civili. Naturalmente non vi è più alcun dubbio che in qualche occasione si ricorse a simili mezzi, ma le segnalazioni da parte abissina furono così confuse e le smentite italiane così veementi che ancora di recente la questione è stata al centro di aspre polemiche fra storici autorevoli. Per la verità, allora molti giornalisti stranieri testimoniarono di avere visto uomini e donne piagati dalle ustioni provocate dall'iprite, ma tali affermazioni non furono mai convalidate dalle indispensabili documentazioni fotografiche. D'altra parte, i fotoreporter inviati a seguire la guerra sul versante abissino erano privi di libertà di movimento e per questa ragione costretti a riprendere scene e pose strumentalmente ricostruite a loro uso e consumo. La mancanza di adeguate prove fotografiche consentì agli italiani di respingere ogni accusa. Un altro elemento a loro favore fu la scoperta che alcune delle rare foto di ustionati esibite quale testimonianza dagli abissini in realtà risultarono eseguite nei lebbrosari. In ogni caso, se è accertato che i gas furono impiegati, ciò accadde solo in situazioni particolari. Altrimenti non si spiegherebbe perche i nostri soldati non avessero in dotazione la maschera antigas, strumento indispensabile per non rimanere vittime del gas "amico". Pochi anni fa, nel corso di una rinnovata polemica fra Indro Montanelli, che per esperienza diretta negava l'uso dell'iprite, e lo storico Angelo Del Boca, che invece lo documentava, intervenne come "paciere" Sergio Romano, il quale sul "Corriere della Sera" citò un interessante rapporto da lui rintracciato negli archivi del Pentagono. Si trattava della relazione del capitano dei marines Pedro A. Del Valle che aveva seguito da osservatore l'esercito italiano in Abissinia. In essa, dopo avere significativamente sottolineato che la maschera antigas non era in dotazione dell'esercito italiano, il capitano riferiva che, secondo quanto confidatogli dal generale Frusci, "l'iprite era stata usata soltanto come rappresaglia per le atrocità commesse contro l'aviatore italiano Minniti". Basandosi su queste e altre testimonianze, il capitano dei marines era infine giunto alla conclusione che i gas erano stati effettivamente impiegati, ma solo occasionalmente, e che non avevano rappresentato un fattore decisivo nel corso della campagna. Lui stesso pare non aver dato troppa importanza alla questione, considerato che nel suo lungo rapporto i riferimenti all'uso dell'iprite occupano appena una dozzina di righe. Per quanto riguarda invece i bombardamenti degli ospedali e dei centri della Croce Rossa, è chiaro che in guerra capita spesso di colpire tali obiettivi; si tratta dunque di stabilire se ciò sia stato fatto di proposito o per errore. In Abissinia tale distinzione era resa ancor più complicata, poiché l'emblema della croce rossa era da secoli usato per indicare i bordelli; inoltre, quando gli abissini scoprirono che quel simbolo garantiva l'immunità dai bombardamenti, presero l'abitudine di inalberarlo sugli alloggi degli ufficiali e su edifici Pagina 6 arrigo petacco. FaccettaNera.txt dedicati a tutt'altro uso. Persino il figlio dell'imperatore Hailè Selassiè aveva sistemato quel vessillo protettivo sul tetto della propria casa. Da parte loro, le fonti ufficiali italiane, nel momento in cui venivano poste di fronte a testimonianze fotografiche indiscutibili, si giustificavano sostenendo che i nostri aviatori si ritenevano autorizzati a bombardare anche gli obiettivi con l'emblema della croce rossa, in quanto erano spesso bersaglio di sparatorie provenienti da tende o edifici contrassegnati con quel simbolo. Mentre, riguardo all'accusa di impiegare il gas, contrattaccavano accusando gli abissini di decapitare o di castrare i prigionieri e di usare le dilanianti pallottole esplosive dum-dum proibite dalle convenzioni internazionali. Per concludere: benché certamente esagerate, sia le versioni degli uni sia quelle degli altri contenevano un fondo di verità. Se per il resto del mondo l'Abissinia (nessuno ancora la chiamava Etiopia) era soltanto una curiosità enigmistica, per gli italiani dei primi decenni del secolo scorso aveva una collocazione di rilievo nell'immaginario collettivo. Tutti sapevano come e dove trovarla sulla carta geografica, e bastava nominarla per evocare nomi familiari di località mai viste di cui, nelle sere d'inverno davanti al focolare, un nonno o un vecchio zio, veterani della campagna d'Africa, avevano descritto le suggestive particolarità: Dogali, Adua, Macallè, Asmara... Nomi di luoghi fiabeschi, che maestri volenterosi sfidavano gli scolari a rintracciare in quella piccola macchia verde con cui si indicava la nostra colonia più vecchia e più amata, l'Eritrea, e che erano diventati persino nomi di battesimo imposti a figli o nipoti di ex combattenti. Anche negli adulti ogni accenno all'Abissinia evocava un confuso groviglio di sentimenti intrisi di malinconia e di desideri inespressi: la voglia d'avventura, il senso di frustrazione, il fascino dell'ignoto, la ricerca dell'isola felice. "Io ti saluto e vado in Abissinia..." era un modo scherzoso di prendere commiato che si riallacciava a un antico ritornello popolare tramandato oralmente dai tempi delle prime spedizioni postrisorgimentali nel continente nero. Fu appunto dopo l'Unità nazionale, quando le grandi potenze europee dietro il velo della missione civilizzatrice si erano già da tempo impadronite di sterminati possedimenti coloniali, che le nostre classi dirigenti scoprirono che pure l'Italia aveva degli "interessi africani". A dire il vero, a scoprirlo per primo non fu il governo, ma la compagnia di navigazione genovese Rabattino, per fini esclusivamente commerciali. Dopo l'apertura del canale di Suez, la compagnia aveva infatti urgente bisogno di uno scalo di ancoraggio e di "carbonamento" nel mar Rosso, diventato nel frattempo la più importante via marittima per i traffici con l'Oriente. L'incarico di acquistare un "qualsivoglia terreno, spiaggia, rada, porto o seno di mare idoneo a impiantarvi una stazione" venne affidato dalla Rubattino a Giuseppe Sapeto, un missionario ed esploratore savonese noto per avere guidato alcune spedizioni nell'Africa orientale. Egli, inizialmente, puntò su Aden ritenendola più adatta alla bisogna. Ma quando vi giunse, nel 1869, scoprì con sua sorpresa che gli "esploratori" inglesi e francesi erano arrivati prima di lui impadronendosi di gran parte della costa arabica per conto dei rispettivi governi. Sapeto comunque non si arrese. Trasferitosi sull'altra sponda del mar Rosso, dopo avere girovagato in lungo e in largo per la costa africana, fra deserti e villaggi dimenticati da Dio, scelse la baia di Assab, sulle assolate coste della Dancalia. Assab era allora un villaggio di poche capanne, abitato da poveri pescatori che facevano i pirati a tempo perso. Era privo di ogni risorsa, persino dell'acqua potabile, ma non c'era altro di meglio a disposizione. Sapeto ne trattò quindi l'acquisto con i capi locali e, dopo le consuete cerimonie levantine che durarono più giorni, si accordò sul prezzo versando in contanti 8100 talleri di Maria Teresa. Il tallero era una pesante moneta d'argento, coniata in Austria ma molto ricercata e diffusa in tutto il Levante, dove è stata usata per ogni tipo di transazione fino al 1945. Da "tallero" pare derivi il termine "dollaro". Per almeno un decennio, il governo italiano si disinteressò della stazione marittima di Assab. Infatti allora si riteneva che per l'Italia la zona naturale di espansione fosse l'Africa mediterranea e, in particolare, la Tunisia, in cui già vivevano migliaia di coloni italiani. E in tal senso si muoveva la nostra diplomazia. Ma quando, nel 1881, la Francia si impadronì proditoriamente di questo paese, essendo l'Egitto un protettorato britannico e la Libia una provincia dell'ancora temibile impero ottomano, Roma dovette malinconicamente rinunciare alle ambizioni mediterranee e rassegnarsi a prendere in considerazione il territorio acquistato da Sapeto. La baia di Assab fu quindi ricomprata per 416.000 lire: un ottimo affare per la Rubattino che continuò così a servirsene a spese dello Stato. Pagina 7 arrigo petacco. FaccettaNera.txt In quegli anni, a indirizzare le ambizioni italiane verso l'Africa orientale contribuirono fattori politici ed economici. In primo luogo, a spingerci in direzione del Corno d'Africa fu l'Inghilterra, la quale, per contrastare l'espansionismo francese, si proponeva di riequilibrarlo con quello italiano. Ma contribuì anche, e soprattutto, il desiderio del governo italiano e della Corona di aumentare il proprio prestigio collocandosi fra le potenze europee che già possedevano vasti imperi coloniali. D'altra parte, all'epoca godeva di molto credito la teoria dello "spazio vitale" e della "missione civilizzatrice" cui l'Europa si riteneva votata. Si dava insomma per scontato che fosse un sacrosanto diritto del vecchio continente conquistarsi dei territori in quella parte del mondo non ancora bonificata dalla "civiltà bianca". D'altronde, il verbo "colonizzare" non aveva ancora il significato negativo che assumerà in seguito. Colonizzare significava portare la civiltà, l'ordine, il benessere, e naturalmente anche la "buona novella" del cristianesimo, in paesi barbari popolati da selvaggi idolatri. I missionari e gli esploratori, consapevoli o no, fecero infatti da battistrada al colonialismo ottocentesco e la società gliene rese grande merito. Anche le truppe d'occupazione quando partivano per le imprese d'oltremare venivano osannate dalle folle, cantate dai poeti e benedette dai vescovi. Pochi, insomma, in quegli anni, intravedevano le speculazioni, le sopraffazioni e le ingiustizie che si nascondevano sotto il comodo mantello della missione civilizzatrice. Persino Giuseppe Mazzini era stato un convinto fautore della "missione di Roma" nella confusa e incivile Africa. Di conseguenza, mentre nazioni grandi e piccine partecipavano al ricco banchetto coloniale, sui nostri giornali gli opinionisti più acuti si domandavano sconsolati perché, "vedendo che tutte le potenze europee, anche secondarie, si appropriano di qualche grosso boccone africano senza rendere conto a nessuno del loro operato, l'Italia se ne sta sola con le mani in mano". Fu un altro esploratore a fornire all'Italia il pretesto per allargare convenientemente i confini della stazione marittima di Assab senza sborsare altri talleri. Si chiamava Gustavo Bianchi ed era stato incaricato dal governo di spingersi, con la scusa dell'esplorazione, a curiosare nell'interno del mitico impero biblico dell'Abissinia di cui molto si favoleggiava e poco si sapeva. Al ritorno dalla sua missione la carovana di Bianchi fu assalita dai predoni dancali mentre attraversava la regione del Tigrè . I portatori vennero trucidati, l'esploratore si salvò per miracolo e la notizia del massacro destò in Italia dolore, scalpore e desiderio di vendetta. Incitato dalla stampa, il governo decise alfine di reagire all'affronto e il 5 febbraio del 1885 un corpo di spedizione composto di 800 bersaglieri al comando del colonnello Tancredi Saletta sbarcò nel porto eritreo di Massaua senza nascondere le proprie intenzioni. Massaua, che diventerà la culla del colonialismo italiano, sorgeva sopra un'isola corallina del mar Rosso, in seguito collegata con la terraferma da una diga, ed era il posto più caldo del mondo. Popolata da 5000 abitanti, questa cittadina apparteneva all'Egitto, ma poiché quest'ultimo era controllato dall'Inghilterra (la quale si dimostrava favorevole alla nostra impresa), il governatore egiziano di Massaua fece rapidamente le valigie senza protestare. I nostri bersaglieri, seppure temprati dalle guerre risorgimentali, e soprattutto dalla lunga guerriglia contro i briganti del Sud, non erano tuttavia in grado di controllare quella vasta zona infestata di predoni. Ma Saletta era un piemontese fantasioso e non si perse d'animo. Andandosene in gran fretta, il governatore egiziano aveva abbandonato il suo piccolo esercito personale costituito da un migliaio di mercenari, detti bashi-buzuk, "zucche vuote", pronti a vendersi per pochi talleri a qualsiasi padrone. Il colonnello li assunse in blocco e li inquadrò in reggimenti, comandati da ufficiali italiani e chiamati ortù, suddivisi a loro volta in compagnie e buluk, plotoni, affidati al comando di subalterni indigeni, gli scium-basci (sergenti) e i buluk-basci (che corrispondono più o meno ai nostri caporali). Una gerarchia che rimarrà immutata nel tempo. In seguito, Saletta costituì anche un corpo di cavalleria, le "penne di falco", e di carabinieri indigeni, gli zaptiè. Con l'aiuto di queste forze ausiliarie particolarmente combattive debellò rapidamente i predoni dancali e conquistò l'intero entroterra di Massaua meritandosi, a fine carriera, una citazione nelle nostre enciclopedie quale fondatore dell'esercito coloniale italiano. L'Abissinia è una terra vasta sei volte l'Italia, arida e povera nel bassopiano, ma ricca di foreste e di verdi pianure sugli immensi altipiani che, ergendosi dalla bassura desertica e afosa di Massaua, superano spesso i 3000 metri di quota. Anche allora l'agricoltura era limitata alle aree più fertili, mentre nel resto dominava la pastorizia nomade. Non esistevano industrie di alcun genere e Pagina 8 arrigo petacco. FaccettaNera.txt il principale commercio, oltre quello del bestiame, era rappresentato dalla tratta degli schiavi legalizzata dal governo e controllata esclusivamente dai mercanti arabi. Quando gli italiani si stabilirono nella cittadina eritrea, a Addis Abeba regnava ancora il negus Giovanni il quale esercitava, per modo di dire, la sua autorità su uno stato di tipo feudale dominato da un gran numero di ras infidi che avevano il diritto di riscuotere i balzelli e arruolare un proprio esercito personale. Un'altra classe dominante era costituita dagli abuna, i sacerdoti copti (il cui patriarca risiedeva nella città santa di Axum), che esercitavano un forte potere spirituale. I frengi, i bianchi, erano ancora rari in Abissinia e costituivano un oggetto di curiosità. Si trattava di coraggiosi missionari, di sospetti esploratori e di avventurieri dediti alla tratta degli schiavi o al traffico delle armi. Fra questi ultimi figurava, come si è già detto, anche il "poeta maledetto" Arthur Rimbaud. Ammonito dall'Inghilterra, che lo riforniva dei preziosi fucili necessari a tenere a freno i suoi ras più irrequieti, e a difendersi dai dervisci sudanesi, il negus Giovanni non aveva protestato per l'arrivo degli italiani. Anche i ras si erano giocoforza adeguati, tranne uno, ras Alula, signore dell'Hamasen, che darà grandi fastidi ai frengi indesiderati. "Ulula Alula, come bestia immane" declamerà inorridito dalle stragi compiute da questo ras, un nostro infervorato poeta. Alula non rimase a lungo con le mani in mano: il 25 gennaio 1887 i suoi armati attaccarono il presidio italiano di Saati, ma furono duramente respinti. Preoccupato per l'accaduto, Saletta spedì sul luogo una carovana cammellata con circa 500 bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk, comandati dal tenente colonnello Tommaso De Cristoforis. A mezza strada, presso una località che sarà poi chiamata Dogali, comparvero improvvisamente gli uomini di Alula. Erano circa 8000 e attaccarono la colonna dopo averla circondata. Quello che accadde dopo venne raccontato dal tenente Carlo Savoiroux, uno dei pochi sopravvissuti all'eccidio: Gli abissini erano tutti stesi bocconi ad attendere pazientemente che i colpi di moschetto fossero meno frequenti per correre all'assalto. Infatti dopo oltre due ore di fuoco continuato, i colpi diminuirono. Ras Alula diede allora il segnale dell'attacco facendo rullare i tamburi e tutta l'armata abissina volò all'assalto. Si sentì un clamore, un vociare, un urlo, un rumore spaventoso provocato dalle grida degli attaccanti, dallo sparare dei moschetti e dall'urrà dei nostri bravi soldati. Poi, a poco a poco il rumore si fece meno assordante e poi debole e poi cessò affatto. Cademmo tutti: 540 di noi ed alcuni bashi-buzuc. Gli altri credo se la svignassero. Il dispaccio in cifra che comunicava la notizia del massacro giunse a Roma ventiquattro ore più tardi e provocò grande turbamento. Il capo del governo in carica, Agostino Depretis, fu sopraffatto dall'emozione. Appena pochi giorni prima, in risposta all'interroga-zione di un deputato che temeva una possibile reazione abissina, aveva dichiarato che non era il caso di drammatizzare per "i quattro predoni che avessimo potuto [sic] trovarci fra i piedi". Affranto per la tragica notizia, dopo avere rintuzzato alla meglio le proteste della piccola pattuglia socialista guidata da Andrea Costa, che aveva addirittura paragonato l'episodio africano alle sconfitte di Lissa e di Custoza, Depretis, rientrato nel suo studio, ordinò che gli portassero una carta dell'Abissinia: "Vorrei" disse "almeno vedere dove si trova quel posto maledetto". Ferdinando Martini assistette alla scena, e nel suo diario racconta che i collaboratori del primo ministro "si affannarono invano nel tentativo di individuare la località maledetta: in Eritrea, infatti, non esisteva alcun luogo chiamato così prima che l'onorevole Cappelli gli imponesse quel nome.,.". Raffaele Cappelli era il segretario generale del ministero degli Esteri e a lui era spettato il compito di decifrare il dispaccio proveniente da Massaua. Scrive Martini: Tutto v'era chiaro tranne la indicazione del luogo dove lo sterminio avvenne. La gravità dell'evento non tollerava annunzi indugiati; d'altra parte, il nome del luogo non aveva essenziale importanza: se incorresse errore c'era tempo a correggere. Parve però a Cappelli che dalle lettere denotate dalle cifre un nome potesse comunque comporsi: Dogali, e Dogali scrisse; e con quel nome la infausta collina fu consegnata alla storia. Dopo l'episodio di Dogali seguirono due anni di relativa tranquillità. A Massaua si era stabilito con poteri militari e civili il generale Antonio Baldissera, padovano di nascita ed ex ufficiale dell'esercito austriaco con alle spalle una storia romanzesca. Trovatello, raccolto per strada dal vescovo di Udine, il piccolo Antonio fu da questi affidato all'imperatrice Marianna d'Austria, la quale lo avviò alla carriera militare nell'esercito austriaco, dove raggiunse il grado di generale. Integrato con il medesimo grado nel Regio esercito italiano Pagina 9 arrigo petacco. FaccettaNera.txt dopo l'Unità nazionale, Baldissera, fiero del suo passato militare, continuava a portare orgogliosamente appuntate sul petto le decorazioni che si era guadagnato combattendo nel '59 contro di noi e nel '66 contro i prussiani. Ufficiale intelligente, ottimo organizzatore e popolarissimo ("O Baldissera," canteranno in Italia, dopo la sua partenza per l'Africa "non ti fidar di quella gente nera..."), il nuovo arrivato perfezionò il lavoro iniziato da Saletta trasformando gli indisciplinati bashi-buzuk in soldati obbedienti e combattivi, che volle ribattezzare "ascari" (ascari in arabo significa "guerriero"). Le nuove reclute professavano le religioni più diverse: c'erano copti, musulmani, animisti e persino dei Niam Niam dediti all'antropofagia... Ma lui, infischiandosene della loro fede ("credano pure a ciò che vogliono" era solito dire "purché obbediscano e combattano"), scelse i migliori selezionandoli fra le razze più guerriere. L'arruolamento era volontario e i limiti di età variavano dai 16 ai 24 anni. Per essere dichiarati "abili" era sufficiente una sola prova: una marcia senza soste di 60 chilometri seguita da una visita medica. L'unico privilegio consentito agli ascari (che sarà rispettato anche negli anni futuri) era di portarsi appresso le loro donne, che, con figli e masserizie, seguivano le truppe su carri e carretti, persino in battaglia. L'"austriaco", come veniva chiamato Baldissera, trasformò quell'accozzaglia di mercenari in soldati straordinari il cui unico difetto, come osserva Domenico Quirico nel suo libro Squadrone bianco, "era costituito dall'eccessivo ardore nel lanciarsi avanti". Diede loro una bandiera, ne alimentò lo spirito di corpo e il senso dell'onore, scegliendo per loro anche una splendida uniforme di cui andranno molto fieri. Salvo i piedi nudi di prammatica, gli ascari indossavano una elegante divisa bianca stretta attorno alla vita da una fascia di lana il cui colore (rosso, nero, azzurro e cremisi), identico a quello del tarbusc, il fez, indicava l'appartenenza a ciascuno dei quattro reggimenti nel quale erano stati inquadrati. I graduati, contraddistinti da lucenti galloni dorati, avevano diritto al saluto militare da parte dei loro inferiori indigeni, ma non dei soldati nazionali che ne erano esentati. Approfittando della morte del negus Giovanni, caduto in battaglia contro i dervisci sudanesi (la sua testa fu gettata ai piedi del califfo di Ondurman), Baldissera allargò i confini della colonia impiegando esclusivamente truppe indigene e sfruttando la rivalità dei vari ras che si contendevano la successione al trono. Il 3 agosto 1889, sconfitto Alula, occupò Asmara e insediò il proprio governo militare nel palazzo abbandonato dal ras fuggiasco. Nel frattempo, non senza difficoltà e non senza l'aiuto italiano, il ras dello Scioa riuscì a salire sul trono del Leone di Giuda, rimasto vacante dopo la morte del negus Giovanni. Il nuovo sovrano, subito riconosciuto da Roma, assunse il nome di Menelik II e in seguito firmò a Uccialli un trattato d'amicizia con l'Italia, che si impegnava ad appoggiarlo contro gli altri ras e contro i dervisci. Il 1° gennaio 1890 il nuovo capo del governo italiano, Francesco Crispi, annunciò orgogliosamente in Parlamento la nascita della colonia Eritrea con capitale Asmara. Pochi giorni prima, i nostri soldati erano sbarcati anche nella Costa dei Somali, dove già erano presenti inglesi e francesi, e si erano impadroniti del sultanato della Migiurtinia. Ora l'Abissinia era stretta fra le ganasce delle nuove conquiste territoriali italiane: la colonia Eritrea a nord e la Migiurtinia a sud. II LA SCONFITTA DEL "NAPOLEONE D'AFRICA" Soddisfatto della situazione che si era venuta a creare, il generale Baldissera riteneva che fosse necessario un periodo di calma per procedere all'organizzazione della colonia. Ma così non la pensava Francesco Crispi. Il nuovo capo del governo, tramutatosi rapidamente da ex garibaldino repubblicano in un fervente monarchico nazionalista, era infatti desideroso di trasformare al più presto l'Italia in una grande potenza coloniale e premeva sul governatore dell'Eritrea perché ne dilatasse i confini ignorando gli accordi stabiliti a Uccialli. Fra i due uomini il rapporto non tardò a deteriorarsi e, naturalmente, fu Crispi a spuntarla: Baldissera, considerato troppo prudente, fu silurato, richiamato in patria e sostituito per breve tempo dal generale Orero e poi dal generale Oreste Baratieri. Il nuovo governatore della colonia, anche lui ex ufficiale garibaldino, nonché amico personale di Crispi, era un militare ambizioso e spregiudicato che subito si affrettò ad assecondare le ambizioni espansionistiche del presidente del Consiglio. Il primo screzio fra Roma e Addis Abeba si registrò con la controversia sull'interpretazione dell'articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l'articolo stabiliva che il negus "può farsi rappresentare in Pagina 10