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E il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari PDF

226 Pages·1998·2.412 MB·Italian
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Christian Marazzi E il denaro va Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari Bollati Boringhieri Edizioni Casagrande Indice Premessa 1. La rivoluzione dei prezzi 2. 1979 3. La rivoluzione derivata 4. L’incertezza keynesiana 5. Il capitalismo dei Fondi pensione 6. Critica della critica: appunti 7. La razionalità della moltitudine Appendice Note Premessa Uno degli ostacoli maggiori che impediscono all’innovazione pratica e politica di porsi all’altezza delle questioni che più inquietano è l’autorità del passato, la sopravvivenza della storia. Come Robin Hood, che vuole contrastare la violenza delle nuove macchine elogiando i boschi abitati dall’«acuto arciere» e così dimentica che l’arco fu la prima tecnologia inventata dall’uomo, oggi ancora è diffusa la tentazione di tornare a quella che fu la «casa della schiavitù» industriale. E come se l’epoca della grande industria fosse talmente dentro di noi da impedirci di esplorare nuovi percorsi nel tempo dell’esodo. Ma se questo è un viaggio senza ritorno, è perché noi abbiamo voluto partire. Il pensiero critico, che sempre si muove lungo la frontiera oltre la quale «diventa intollerabile essere governati», in un periodo di crisi finanziarie, di ristrutturazioni aziendali, di fusioni gigantesche che eliminano posti di lavoro e aggravano il senso di insicurezza, deve sforzarsi di andare al di là di ogni evidenza. Foucault diceva che «non voler essere governati implica il non accettare come vero quel che l’autorità sostiene essere vero». Questo vale anche per l’«autorità» del nostro modo di pensare e denunciare. E inseguendo ciò che si nasconde dietro l’arroganza di chi esercita il Potere che si scopre la forza di cui si ha bisogno. Più che mai questo Potere si chiama capitale finanziario. Dei suoi «effetti di verità» si parla in questo libro. Desidero ringraziare Luciano Ferrari Bravo, che con i suoi suggerimenti e la sua amicizia ha seguito questo lavoro in tutte le sue fasi. Ringrazio inoltre Alberto Di Stefano e Daniele Fontana per i loro preziosi rilievi critici di cui, per quanto possibile, ho cercato di tenere conto. E il denaro va I rapporti economici, le priorità e le fluttuazioni delle cose concrete appaiono come derivati dei propri derivati, vale a dire come rappresentazioni e adombramenti del significato che il loro equivalente monetario possiede GEORG SIMMEL, Filosofia del denaro Ah! race d’Abel, ta charogne Engraissera le sol fumant! Race de Cam, ta besogne N’est pas faite suffisamment; Race d’Abel, voici ta honte: Le fer est vaincu par l’épieu! Race de Caïn, au ciel monte, Et sur la terre jette Dieu! [La tua carogna ingrasserà il fumante suolo, razza d’Abele. Non compiuta è, o razza di Caino, la tua opera. Razza d’Abele, ecco la tua ignominia: la spada è vinta dallo spiedo! O razza di Caino, sù, arrampicati al cielo e rovescia Dio, giù, sopra la terra!] CHARLES BAUDELAIRE, Les Fleurs du mal [trad. it. di Luigi de Nardis] I. La rivoluzione dei prezzi Lo studio dei fatti monetari ha un senso se ad essi si attribuisce il ruolo di informatori, di indicatori di fenomeni più complessi e «segreti», come i mutamenti dei modi di produrre, le trasformazioni demografiche, le dinamiche del consumo, i rapporti tra sviluppo e sottosviluppo. Marc Bloch diceva che «tra tutti gli apparecchi registratori capaci di rivelare allo storico i movimenti profondi dell’economia, i fenomeni monetari sono senza dubbio i più sensibili».1 Sono i cambiamenti della fisiologia sociale e economica che, influenzando il gioco della domanda e dell’offerta di beni e servizi, si riverberano sulla dinamica dei valori di mercato, per poi ripercuotersi sull’organizzazione istituzionale della società e sulle sue strutture. La critica di un’esegesi puramente monetaria dei fenomeni monetari, anche di quelli più appariscenti, è ancora del tutto fondata. Questo modo di studiare i fatti monetari, di interpretarli come sintomi di cambiamenti strutturali, ha inizio con gli studi sulla rivoluzione dei prezzi nel ’500 in rapporto all’afflusso in Europa di quantitativi consistenti di oro dal Nuovo Mondo. Di fronte a spiegazioni puramente monetarie, o «metallistiche», di fenomeni come l’inflazione, gli storici hanno da tempo dimostrato i limiti della teoria secondo cui i prezzi variano in conseguenza degli aumenti della quantità di moneta. Dallo scavo storico è emersa l’importanza decisiva dei mutamenti sociali, economici e istituzionali, di cui i movimenti dei prezzi sono un’espressione, oltretutto non sempre interpretabile in modo univoco. Il contributo degli storici ha insomma permesso di smontare la «tesi» secondo cui la storia del capitalismo sarebbe nata sulle caravelle di Colombo.2 Eppure, i fatti monetari hanno una loro «relativa autonomia», che non va sottovalutata. Se è vero che Colombo parte con alle spalle un’Europa in profonda crisi- trasformazione economica, se è vero che cerca un passaggio verso la Cina del Gran Khan, è altrettanto vero che egli cerca l’oro, come attestato dai numerosi passi concernenti il metallo nobile contenuti nel suo diario. L’oro, che ben presto si rivelerà uno «specchio rovesciato della felicità» (Foucault), ossessiona Colombo.3 E cercando l’oro che egli finisce nel Nuovo Mondo. E perseguendo l’idea universalmente acquisita, secondo cui l’oro rappresenta la forma più universale di ricchezza, che Colombo contribuirà a produrre eventi inimmaginabili sulla base di tutte le esperienze fino allora vissute. In termini più generali, si può sostenere che è proprio l’idea più convenzionale di ricchezza, cioè più radicata nella tradizione, che determina comportamenti e azioni non solo materiali, ma anche profondamente trasformativi e innovativi. E la sopravvivenza della storia nei linguaggi e nelle grammatiche, con le quali forgiamo le nostre rappresentazioni della ricchezza, che ci porta a cambiare la tradizione stessa, il nostro modo di parlare e di agire, di produrre e di consumare. La «storia ricordata», per esprimersi con le parole di Zygmunt Bauman, è la materia di cui sono fatte le speranze, gli obiettivi, i sensi e le categorie teoriche con le quali tentiamo di dare un ordine al caos, di fornire soluzioni a problemi sconosciuti e inediti.4 Questo è particolarmente vero per il «linguaggio monetario», di cui ci si serve per decidere cosa fare, come comportarsi, cosa progettare nella successione quotidiana degli eventi in cui siamo immersi. La storia della «rivoluzione dei prezzi» degli ultimi due decenni dimostra quanto sia efficace il lavoro della memoria collettiva nel mutare irreversibilmente la società. A partire dagli anni Ottanta stiamo assistendo ad una versione rovesciata della «rivoluzione dei prezzi» del ’500, nel senso che la rivoluzione odierna ha la forma della disinflazione, della graduale caduta del livello generale dei prezzi. La sostanza del discorso, comunque, resta la medesima. Da una parte, bisogna dimostrare, come si conviene nella migliore tradizione del pensiero critico, che la disinflazione è l’espressione monetaria di un cambiamento strutturale del modo di produrre e di lavorare, di una modificazione della scheda dei consumi e della composizione del risparmio, dei processi di riorganizzazione planetaria dei flussi di beni e servizi. Dall’altra parte, però, bisogna tentare di capire come mai questa rivoluzione economica e sociale si sia data in questi ultimi decenni, in un contesto caratterizzato da un modo di pensare ancora fortemente radicato nel passato, contrassegnato dalla resistenza del linguaggio tradizionale alle trasformazioni in corso. Alla base della crisi e del superamento di quello che chiamiamo il fordismo, si trova proprio la crescente inadeguatezza dello schema di aspettative e di comportamento rispetto alle circostanze in cui ci siamo trovati a vivere. Abbiamo contribuito a trasformare modi di vivere e di lavorare continuando a ragionare in termini inflazionistici, resistendo ai cambiamenti del modo di lavorare facendo uso di schemi interpretativi conservatori, a volte addirittura reazionari. L’utopia della «fine del lavoro», che molti hanno visto come realistica grazie alle nuove tecnologie a risparmio di lavoro, è un esempio di questa inadeguatezza delle categorie politiche. Il lavoro, la cui riduzione è interpretata dai teorici della «fine del lavoro» come tecnicamente possibile, è infatti identico al lavoro che il capitale ha ridotto a suo modo con la ristrutturazione-riorganizzazione dei processi produttivi. Nella categoria «lavoro» utilizzata dai teorici della «fine del lavoro» sono assenti quelle caratteristiche linguistico-comunicative e relazionali che hanno modificato modi e forme dei processi di valorizzazione. In buona sostanza, si tratta sempre di una rappresentazione del «lavoro» così come esso si è dato storicamente con il fordismo e il taylorismo. La sopravvivenza della storia di questo secolo, l’immanenza, nel linguaggio monetario, del lavoro nella sua accezione classica di «lavoro socialmente necessario», ci hanno portato altrove rispetto alle utopie della fine del lavoro». Questo altrove non è necessariamente peggiore di quello prospettato dai teorici della fine del lavoro. E «semplicemente» diverso. Soprattutto, è un altrove qui e ora, con il quale dobbiamo realisticamente fare i conti. Da un decennio i prezzi dei beni al consumo e di quelli di investimento sono aumentati meno rispetto all’anno precedente.5 Si tratta di un primo risultato dei processi di ristrutturazione, della flessibilizzazione del mercato del lavoro e dei fenomeni dell’out-sourcing (esternalizzazione, subappalto) come attacco alla componente salariale dei costi di produzione. Si può affermare che, se si tiene conto dei prezzi di alcuni beni relativamente nuovi, come ad esempio i computer o i telefoni cellulari, se si considera la qualità migliore dei prodotti che la gente acquistalo l’abbandono da parte dei consumatori di certi beni e servizi a favore di altri meno costosi, dalla disinflazione si è ormai giunti alla deflazione. Secondo stime della Federal Reserve (Fed), i tassi di inflazione sarebbero infatti sovrastimati di circa l’1,5 per cento.6 Questo significa che se i prezzi al consumo sono aumentati ufficialmente dello 0,5 per cento tra il 1996 e il 1997, come ad esempio in Svizzera, in realtà nello stesso periodo si è avuta una variazione negativa del livello generale dei prezzi di -1 per cento. Simili «discrepanze statistiche» sarebbero relativamente

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