Presentazione Problematico, instabile, plastico, pericoloso: la sua storia naturale attesta al di là di ogni dubbio che l’animale umano è, costitutivamente, tutto questo. Ma niente come il requisito biologico che lo distingue dalle altre specie, ossia la capacità di articolare suoni provvisti di significato, è oggetto di visioni che ne semplificano l’irriducibile e perturbante ambivalenza. Se negli auspici dei teorici cuorcontenti il linguaggio infatti si presta di buon grado a comporre i conflitti, agli occhi dei disincantati – di cui Hobbes è il capostipite – si riduce a strumento aggressivo, «tromba di guerra e di sedizione». Da filosofo del linguaggio che riflette da tempo nel solco di un’antropologia materialistica, Paolo Virno fa leva invece proprio sulle strutture del pensiero verbale che più sfuggono alla rigidità degli opposti. Gli interessano in particolare i dispositivi logici capaci di esibire la giuntura tra regioni astratte e ambito percettivo-pulsionale, e quindi di gettar luce sulla trama delle passioni umane. Un dispositivo fondamentale è il regresso all’infinito, in base al quale ci chiediamo il perché di qualcosa, e poi il perché del perché, e così via in un risalimento senza fine. Inclini a tale vortice per attitudine mentale e prassi, noi viventi dotati di parola sappiamo però interrompere in diverse maniere la marcia a ritroso, ed è uno dei gesti che ci caratterizza in quanto uomini. Ancora una volta, il linguaggio assume la duplice valenza etica di rischioso squilibrio e forza che trattiene dal baratro. Paolo Virno insegna Filosofia del linguaggio all’Università di Roma Tre. Tra i suoi saggi: Parole con parole. Poteri e limiti del linguaggio (1995), Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica (2002) e Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (2002). Con Bollati Boringhieri ha pubblicato: Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico (1999), Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana (2003) e Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento (2005). Temi 197 © 2010 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-339-7027-1 Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Introduzione 1. La chiave di volta di una antropologia materialistica, che resti in sintonia con la teoria dell’evoluzione e però sia in grado di rendere ragione del funzionamento delle istituzioni politiche o del significato dei riti religiosi, consiste in tre fondamentali categorie logiche: la negazione, la modalità del possibile, il regresso all’infinito. Propriamente umano è l’animale capace di introdurre la paroletta ‘non’ in qualsiasi proposizione: quello, cioè, che sa sempre dire come non stanno le cose. Propriamente umano è l’animale che, utilizzando l’espressione ‘è possibile che’, dà prova di una carenza di orientamento nell’ambiente e, insieme, della destrezza nel porvi rimedio mediante l’elaborazione di comportamenti non prefissati. Propriamente umano è l’animale il cui pensiero e le cui passioni precipitano talvolta in una interminabile marcia a ritroso, sancita dalla formula ‘e così via, all’infinito’. Le tre categorie appena menzionate, oltre a esibire i caratteri salienti della nostra forma di vita, costituiscono al tempo stesso, nel loro insieme, la base logica della metafisica. Senza negazione, modalità del possibile, regresso all’infinito, non sarebbero neanche concepibili questioni come l’«essere in quanto essere», la ricerca di un fondamento o «principio primo», il rapporto dell’Uno con i Molti, la coppia vero/falso, la nozione di limite, l’articolazione del tempo storico ecc. La tradizione metafisica non ha fatto che ricavare conseguenze d’ogni sorta, tra loro divergenti e perfino opposte, dal funzionamento del ‘non’, dalle risorse dell’‘è possibile che’, dall’incombenza dell’‘e così via’ privo di esito. Non vi è ontologia o teoria della soggettività che non scaturisca da una peculiare interpretazione di questi elementari dispositivi del pensiero verbale. Attendibile ed esauriente sarebbe una storia della filosofia che badasse soltanto a ricostruire i modi variabili in cui è stato orchestrato un unico e medesimo spartito logico- linguistico. Tutto lascia credere che la metafisica, con il suo caratteristico repertorio di problemi non empirici, sia una tendenza naturale della nostra specie. Tendenza che può essere spiegata a partire da certi decisivi requisiti antropologici. Ma la metafisica, di per sé, nulla dice a proposito di tali requisiti. Le cose stanno altrimenti per la sua base logica. Questa base coincide, infatti, con i tratti distintivi dell’Homo sapiens. La negazione, la modalità del possibile, il regresso all’infinito, se per un verso imbastiscono l’ordito della philosophia prima (consentendo domande del tipo: «perché c’è qualcosa, anziché il nulla?»), per l’altro rappresentano il corrispettivo sintattico di rilevanti dati di fatto filogenetici (per esempio, della persistenza di caratteri infantili anche in età adulta e della connessa penuria di inibizioni congenite). La base logica della metafisica, a differenza di quanto è stato di volta in volta edificato su di essa, equivale a un insieme di funzioni adattative, compendia i modi in cui l’animale dotato di linguaggio esegue i compiti cognitivi e operativi da cui dipende la sua sopravvivenza, mette in risalto l’intelaiatura delle emozioni e degli affetti che ne segnano l’esistenza. 2. In questo libro non dirò nulla, o quasi, sulla negazione e la modalità del possibile. Alle prerogative del segno ‘non’, alla sua centralità nell’esistenza materiale e sentimentale dell’animale umano, vorrei dedicare uno studio a sé stante. Della categoria del possibile ho discusso, restandovi talvolta impigliato, in tutto quel che mi è capitato di scrivere negli ultimi venticinque anni (cfr. in particolare Virno 1994, 1995, 1999): non ho molto da aggiungere, e non mi sembra garbato ripetere. In questo libro, per mostrare quanto stringente e intricata sia la relazione tra logica e antropologia, mi occuperò a fondo di un unico tema: il significato del regresso all’infinito nella storia naturale dell’Homo sapiens. Lungi dall’essere un’eventualità bizzarra e marginale, o una faccenda che possa interessare soltanto i logici di professione, l’interminabile ‘e così via’ riguarda da vicino ogni genere di cognizioni, comportamenti pratici, affetti. Con esso ha dimestichezza già il bambino che chiede la ragione di un certo avvenimento, e poi la ragione di questa ragione, e poi ancora la ragione della seconda e più fondamentale ragione ecc., dando luogo così a una vertiginosa gerarchia ascendente di “perché”. Il regresso all’infinito è una sorta di refrain, familiare e inquietante a un tempo, che accompagna, e in certa misura condiziona, qualsivoglia esperienza. Poco si capisce dei modi in cui la nostra specie si adatta (o non si adatta) al proprio contesto vitale, come pure dei conflitti sociali e politici che ne costellano la storia, se non si tiene nel debito conto la pervasività di questo fenomeno logico-linguistico. Nei primi tre capitoli del libro, cerco di chiarire com’è fatto di preciso il regresso all’infinito, quali sono le circostanze che concorrono a scatenarlo, in che cosa consiste la sua rilevanza antropologica (certo non minore di quella che viene comunemente attribuita alle strutture della parentela o al dono). Il capitolo iniziale esamina lo scarto che separa il regresso logico dalla coazione a ripetere studiata da Freud; il peso determinante che in esso hanno la ricorsività sintattica e l’immaginazione; il suo radicamento nell’indole naturalmente artificiale dell’animale umano, ovvero nel connubio paradossale di biologia e cultura. Nel secondo capitolo, distinguo due tipi fondamentali di ‘e così via, all’infinito’: l’uno, basato sulla perpetua alternanza tra termini complementari, ha a che vedere con le coppie ambiente/mondo e individuo/specie; l’altro, suscitato invece da concetti che presuppongono inevitabilmente se stessi, si manifesta nelle vicissitudini dell’autocoscienza, nel rapporto tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio, nei problemi che sorgono quando si tratta di applicare una regola in un’occasione particolare. Il terzo capitolo mostra come il regresso all’infinito colonizzi tutte le passioni tipicamente umane (vergogna, speranza, orgoglio ecc.); spiega perché si debba imputare proprio a questo dispositivo logico la trasformazione della paura in angoscia e della contentezza in felicità; ipotizza che l’interminabile ‘e così via’ sia intriso a sua volta di una specifica tonalità emotiva, la