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Dizionario dei telefilm PDF

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SAGGI LEOPOLDO DAMERINI FABRIZIO MARGARIA Dizionario dei telefilm GARZANTI Prima edizione: maggio 2001 Prima ristampa: settembre 2001 Nuova edizione ampliata e aggiornata: aprile 2004 ISBN 978-88-11-60024-4 © 2001, 2004, Garzanti Libri s.p.a., Milano Printed in Italy www.garzantilibri.it Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. LA FORTUNA DI UN NOME, LA FORTUNA DI UN GENERE di Aldo Grasso Il telefilm, recitano i dizionari della televisione, è un prodotto di fic­ tion concepito per il piccolo schermo e, perciò, destinato alla trasmis­ sione televisiva. Articolato in puntate o episodi raggruppati in serie, il telefilm propone brevi racconti, in sé conclusi, ma spesso collegati tra loro come episodi di cicli che presentano personaggi fissi invariabili, caratteri strutturali costanti e un’ambientazione che resta per lo più invariata. Telefilm è parola squisitamente italiana (poco usata in area anglofona dove si preferisce parlare di «tv series», specificando il genere di appartenenza: western, hospital, soap, sit, drama, sci-fi, docu...). I lin­ guisti che per primi si sono occupati delle parole derivate dal nuovo mezzo (Migliorini, Fochi, De Mauro) si mostravano preoccupati dal prefissoide «tele»: significava, a loro dire, non solo «a distanza» (come nel caso classico di «televisione») ma anche «relativo alla televisio­ ne»; come tale era destinato a diventare il primo elemento di una folla di nuove parole. E non nascondevano le loro perplessità: invitavano, infatti, a evitare l’impiego esagerato di «tele» per le possibili confu­ sioni; meglio far ricorso a un altro prefisso dai lombi opimi: «video-». «Videofilm», però, nonostante le raccomandazioni, non è entrato nel­ l’uso. Così ci teniamo ben stretto il più familiare «telefilm». Ai primi teorici della televisione italiana, puristi anche loro, il telefilm pareva una mostruosità perché rinunciava «a priori al coefficiente spet­ tacolare dato dall’immediatezza». Allora si credeva che lo specifico televisivo si identificasse con la diretta e ogni deviazione veniva ese­ crata. Tuttavia non si risparmiavano consigli: «Per quanto riguarda il soggetto ispiratore, è quindi chiaro che esso deve concernere la breve vicenda d’uno o di pochi personaggi, narrare una storia interiore, basa- ta sui pensieri e sui sentimenti, piuttosto che sui fatti e sul movimento; le sue dimensioni esterne, la sua durata, la sua destinazione, fanno sì che il telefilm si configuri come una novella cinematografica, una forma che la misura obbligata del film spettacolare aveva progressiva­ mente bandito dagli schermi» (Federico Doglio e Tullio Kezich). Ma questa è una storia italiana e finora la politica neoliberistica del piccolo film in piccolo schermo non ha avuto grandi esiti. Dopo il La fortuna di un nome, la fortuna di un genere VI primo telefilm, La svolta pericolosa, 1959, di Gianni Bongioanni, c’è stato qualche esperimento, qualche commistione di genere come Sheridan, Maigret, I Nicòtera. Qualche tentativo apprezzabile come I racconti del maresciallo tratti da Mario Soldati, ma nulla di più. Meglio importare che produrre, benché il primo telefilm trasmesso dalla Rai, Mio padre il signor preside, sia stato un fallimento. E poi la formazione «letteraria» dei dirigenti Rai ha sempre privilegiato l’«ori­ ginale» nei confronti della serialità. Ma i tempi sono cambiati, la spie­ tata concorrenza delle televisioni commerciali porta oggi a riconside­ rare il concetto di «telefilmità». Molti telefilm classici traggono spunto da qualche film di successo, o meglio da quei film che, se anche non hanno «sfondato» nelle sale cinematografiche, hanno tuttavia avuto un buon indice di ascolto nel passaggio televisivo (Mash, Alice, Paper Chase, La conquista del West e molti altri). Ma prima che le «majors» hollywoodiane regolassero e offrissero i loro prodotti ai network, come funzionavano i “prototele­ film”? In realtà, i film in televisione non sono mai mancati e già nel 1948 le case minori, tipo la gloriosa Republic o la Rko, avevano ven­ duto il loro stock di film alle televisioni, che proprio in quegli anni, dopo un lungo periodo di sperimentazione, si diffondevano su tutto il territorio americano con programmi trasmessi regolarmente. Tra que­ sti programmi, i B movie riempivano comodamente alcune ore di tra­ smissione. William Boyd, meglio conosciuto come Hopalong Cassidy, divenne il primo attore di film trasmessi alla stregua di telefilm e indicò per il futuro quali sarebbero state le basi non solo contrattuali (aveva acquisito i diritti dei suoi film) ma anche tematiche del telefilm più popolare: il western. La nascente invasione dei telefilm negli anni Cinquanta e il loro apogeo negli anni Sessanta (durata di un’ora, spesso di un’ora e mezza, girati a colori, e in esterni) tolse definitivamente i western di «serie B» dalla catena di produzione, mettendo in crisi sia le case di produzione sia il più grande mito creato da un genere cinematografico. Gunsmoke, Rawhide, Maverick, The Virginian sostituirono ben presto nel cuore dei cinefili spinti i film della Republic o della Columbia. Nel 1959 ben diciassette telefilm della durata fra i trenta e i sessanta minuti occupavano impor­ tanti fasce di programmazione nelle tre reti principali ABC, CBS, NBC. Tuttavia la televisione non si alimentava soltanto di western: Your Show of Shows con Sid Caesar e The Goldbergs, prodotti alla fine degli anni Quaranta, aprirono le porte a The Honeymooners, con il grassottello Jackie Gleason e Art Carney, e a una lunga serie di situation comedies che col passare del tempo hanno acquistato sempre più importanza all’interno delle reti televisive. Nel 1978 ben quattordici sit-com occu­ VII La fortuna di un nome, la fortuna di un genere pavano uno spazio di prima serata. Ma facciamo ancora un piccolo salto indietro. Se The Honeymooners diede con le sue quindici stagioni di per­ manenza nella televisione un apporto notevole alla popolarità e allo stile del genere, chi rivoluzionò tutto fu I love Lucy, 1951-57, con Lucille Ball e Desy Arnaz (un vero disastro quando si tentò di trasmetterli in Italia), i quali non volendosi trasferire a New York, dove si «faceva» la televi­ sione, proposero che i loro spettacoli venissero filmati, in modo da poter­ li riciclare anche in altre stazioni private indipendenti o estere. La prima rappresentazione televisiva videoregistrata si avrà soltanto nel 1957 gra­ zie a Bing Crosby, in collaborazione con l’Ampex e la Rca: un modo nuovo per coprire con il suo spettacolo tutto il territorio nazionale. Un genere che col passare degli anni assume un ruolo primario in tele­ visione, tanto da soppiantare il western, è quello poliziesco. Con il telefilm Dragnet, 1952, la violenza quotidiana della criminalità e la repressione della polizia entrano nelle case, il linguaggio aspro e poco ricercato, le pistolettate, gli omicidi e gli spari sono all’ordine del gior­ no e così pure quella patina di duro realismo che mantenne la serie fino ai suoi ultimi giorni e che è stata ripresa dalle successive serie polizie­ sche, da Joe Forrester a The Rookies, da Gli uomini di Harrison a Matt-Helm. Il successo dei telefilm ha abbondantemente alimentato i discorsi sul carattere della serialità, sulla ripetizione e invenzione nei media. È possibile dunque definire una «telefilmità» delle origini? Secchezza narrativa, azioni molto concentrate, sequenze brevi sottolineate da stacchi musicali, montaggio rapido, molte ellissi narrative, dialoghi sintetici, pochi compiacimenti descrittivi (riservati magari ai soli titoli di testa). Piuttosto che i film (a esclusione dei serial diffusi tra il 1913 e il 1920 che sono i veri progenitori), i modelli, più o meno consape­ voli, dei telefilm sono la radio (di cui molto si è già scritto circa la genesi della fiction seriale) e i fumetti pubblicati dai quotidiani ameri­ cani: stessa distinzione per generi (western, sit-com, polizieschi ecc.), stessa ripetizione di personaggi e di luoghi tipici che diventano fami­ liari al pubblico sia dei lettori che degli spettatori. Stessi fenomeni di fanatismo. Uno degli esempi più celebri nella storia dei fumetti è rima­ sto quello di Flattop, un piccolo gangster deforme, nemico di Dick Tracy – il celebre investigatore di Chester Gould – che era cattivo ma simpatico ai lettori. Quando Gould lo fece morire ricevette moltissimi telegrammi di ammiratori che volevano tributargli solenni onoranze funebri; nel Connecticut gli venne organizzata anche una veglia fune­ bre. Quando in una puntata di Dallas, che ha avuto il maggior numero di spettatori nella storia della televisione americana, J.R. è stato ferito da un attentatore, rimasto sconosciuto, si è ripetuto il fenomeno La fortuna di un nome, la fortuna di un genere VIII «Flattop». Il presidente Reagan approfittò dell’occasione per distribui­ re distintivi con la scritta «Un democratico ha sparato a J.R.». A proposito di una più moderna produzione seriale, Umberto Eco ha proposto due modelli fondativi: la saga e la serie. La serie (ad esem­ pio Starsky & Hutch) mette sempre in scena dei personaggi fissi e, con minime variazioni, ripete gli stessi eventi; proprio come la mag­ gior parte dei fumetti, da Superman a Tex Willer, o come la serie delle avventure gialle di Hercule Poirot o di Miss Marple. La saga, invece, prende dei personaggi e li mette al centro di una lunga storia, poi i personaggi muoiono o scompaiono (come in Dallas, come nelle tele­ novelas brasiliane) e la storia continua coi loro figli e nipoti, cugini e cognati ecc. «Chi però studi con attenzione le strutture narrative della saga si accorge che le vicende, se pure accadono a personaggi diversi e in situazioni diverse, possono essere ridotte ad alcune strutture nar­ rative costanti (che la semiotica contemporanea ha descritto e calco­ lato con molta precisione, a cominciare da Propp quando ha mostrato che le fiabe russe di magia giocavano tutte, con minime variazioni, sullo stesso pacchetto di funzioni narrative). E questo ci dice che di saghe ce ne sono sempre state, e anche il ciclo della Tavola rotonda era una saga, dove poteva accadere a personaggi diversi come Parsifal o sir Galaad di incontrare cavalieri o castelli incantati assai simili tra loro» (Umberto Eco, «L’innovazione nel seriale», in Sugli specchi, Milano, Bompiani, 1985). Ripetizione, standardizzazione, ripresa, serialità: tutti fenomeni, tuttavia, che non sono tipici dell’epoca dei media, ma che attraversano da sempre la produzione letteraria mon­ diale e, se mai, rivelano ora nuove dinamiche della creatività, nuovi ritmi imposti dalla produzione industriale. Nei telefilm-saga i perso­ naggi nascono, si sposano, muoiono; i loro nipoti avranno gli stessi guai dei loro nonni, ma caratteri e situazioni che sembrano diversi; soprattutto c’è una crescita dei personaggi a ritmo televisivo. Nei tele­ film-serie i personaggi non nascono, non muoiono, rimangono immo­ bilizzati in un’età ideale; la loro «staticità» è comunque una staticità televisiva, sono congelati eppur si muovono a venticinque fotogram­ mi al secondo. Oggi si preferisce catalogare i telefilm secondo una diversa partizione: – i serial, che presentano una narrazione articolata in un numero inde­ finito di puntate, ovvero di segmenti narrativi aperti, caratterizzati, sul piano dell’azione, dal predominio del dialogo, su quello linguistico da una dominanza di campi e piani «stretti» (primo piano, campo-contro­ campo, montaggio alternato...) e su quello pragmatico dalla ridondan­ za degli elementi informativi, che garantisce anche allo spettatore meno fidelizzato la comprensione del percorso, malgrado il meccani­

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