Il libro U n tema sterminato è il soggetto di queste pagine: un tema di angosciante attualità che chi scrive non avrebbe mai pensato di affrontare, non solo per la sua illimitata vastità, ma per la convinzione che mai più esso sarebbe divenuto di agghiacciante rilievo dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale … Le pagine di questo volume non contengono alcun catalogo, pur incompletissimo, delle distruzioni occorse nelle tempeste della storia, ma solo dati, parziali e imperfetti, e riflessioni, personali e forse arbitrarie, su alcune tra le tante di quelle distruzioni e su alcuni, tra i tanti, modi con cui gli uomini, da un lato, hanno provato, già in un passato lontano ma soprattutto in un passato vicino e nel presente attraverso i recuperi prodotti dall’archeologia, a far fronte ai degradi e alle perdite del patrimonio culturale e, dall’altro, si sono posti di fronte ai ritrovamenti, occasionali o ricercati, di beni del patrimonio culturale materiale andati perduti … Queste pagine sono dedicate, in segno di deferente e commosso omaggio, alla memoria di chi ha eroicamente sacrificato la propria vita per proteggere i resti splendidi e immortali di una delle più affascinanti città del mondo antico, Palmira, città martire del patrimonio mondiale: Khalid al-Asaad, conservatore per oltre quaranta anni della città di Zenobia, conoscitore impareggiabile dei suoi tesori d’arte, ambasciatore nel mondo delle sue sfolgoranti bellezze, un giusto. L’autore Paolo Matthiae, Professore Emerito della Sapienza Università di Roma, Accademico dei Lincei, di Francia, d’Austria e di Svezia, è lo scopritore di Ebla, in Siria, dove ha condotto 47 campagne di scavo dal 1964 al 2010. Ha ricevuto la Laurea ad honorem dell’Università di Copenaghen e dell’Università Autonoma di Madrid e l’onorificenza al Merito Siriano. Ha fondato nel 1998 e presiede tuttora il Comitato scientifico dell’International Congress on the Archaeology of the Ancient Near East che si è tenuto a Roma, Copenaghen, Parigi, Berlino, Madrid, Roma, Londra, Varsavia. È stato nominato nel 1995 Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana. È autore di numerose opere, tra le quali Il sovrano e l’opera. Arte e potere nella Mesopotamia antica, Laterza, Roma-Bari 1994; L’arte degli Assiri, Cultura e forma del rilievo storico, Laterza, Roma-Bari 1996; Ebla, la città rivelata, Electa-Gallimard, Milano 1995; Storia dell’arte dell’Oriente antico, 3 volumi, Electa, Milano 1996-2001; Ninive, Electa, Milano 1998; Prima lezione di archeologia orientale, Laterza, Roma-Bari 2005; Ebla, la città del trono. Archeologia e storia, Einaudi, Torino 2010; Studies on the Archaeology of Ebla, 1980-2010, Harrassowitz, Wiesbaden 2013. Paolo Matthiae DISTRUZIONI SACCHEGGI E RINASCITE Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’Isis A mo’ di prefazione Un tema sterminato è il soggetto di queste pagine: un tema di angosciante attualità che chi scrive non avrebbe mai pensato di affrontare, non solo per la sua illimitata vastità, ma per la convinzione che mai più esso sarebbe divenuto di agghiacciante rilievo dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. L’autore, per il suo mestiere di archeologo militante, ha avuto una consuetudine costante nell’archeologia sul campo cui ha dedicato larga parte della sua vita, con frammenti minimi, ma sempre significativi, di distruzioni e, per amarissima ironia della sorte, deve confessare di essersi spesso augurato di confrontarsi sul terreno con resti materiali di distruzioni, perché le distruzioni antiche, per dir così, usualmente “congelano” nei depositi archeologici realtà ricche e multiformi della vita del passato e consegnano al ricercatore un insieme di evidenze complesse da cui la moderna archeologia, globale e integrata, riesce quasi sempre a trarre una massa amplissima di dati, inimmaginabile anche solo pochi decenni fa, per ricostruzioni storiche documentariamente soddisfacenti. Ma le distruzioni nella storia, talora solo serie, spesso gravissime, assai spesso catastrofiche, hanno colpito in modo inesorabile il patrimonio culturale dell’umanità in ogni parte del pianeta e di molte di esse si è anche completamente perso il ricordo. Quanto è giunto fino a noi di quel patrimonio, in condizioni raramente integre, è fatalmente solo una percentuale irrisoria di quanto il talento umano ha creato dalle più remote età della preistoria e dagli inizi della civiltà: le perdite che esso ha subito, per la cecità della natura ma molto di più per la violenza, non meno cieca, degli uomini, superano ogni più pessimistica valutazione. Le vicende della storia sono state, in ogni epoca, fino alla metà del Novecento, un terribile uragano che talora ha sommerso sotto la terra, talora ha annientato irreparabilmente opere, monumenti, centri urbani, cancellando dalla superficie terrestre anche solo i resti di testimonianze di quanto l’umanità, sotto ogni latitudine, era stata capace di creare lungo il corso di secoli e millenni. Dopo gli sconvolgimenti abissali della Seconda guerra mondiale, le cui vittime umane non sono state superiori alle perdite di opere dell’ingegno dell’uomo, le nazioni hanno lentamente e progressivamente preso coscienza, sempre più viva, di quanto grave sia la scomparsa dei beni del patrimonio culturale per l’intera umanità, perché, certo altrettanto lentamente e progressivamente e ancora in maniera non assoluta, ci si è resi conto che la perdita di ogni bene del patrimonio culturale, frutto di qualunque civiltà fiorita sul pianeta in ogni tempo e in ogni luogo, è una perdita irreparabile per il genere umano, in quanto ricchezza irrinunciabile per tutta la comunità mondiale. Le pagine che seguono non contengono alcun catalogo, pur incompletissimo, delle distruzioni occorse nelle tempeste della storia, ma solo dati, parziali e imperfetti, e riflessioni, personali e forse arbitrarie, su alcune tra le tante di quelle distruzioni e su alcuni, tra i tanti, modi con cui gli uomini, da un lato, hanno provato, già in un passato lontano ma soprattutto in un passato vicino e nel presente attraverso i recuperi prodotti dall’archeologia, a far fronte ai degradi e alle perdite del patrimonio culturale e, dall’altro, si sono posti di fronte ai ritrovamenti, occasionali o frutto di ricerche, di beni del patrimonio culturale materiale andati perduti. Il motivo per cui queste pagine, pur prive di ogni sistematicità, sono state scritte è nella consapevolezza che l’insorgere oggi, nelle contrade del Vicino Oriente carissime all’autore, di una nuovissima barbarie distruttiva, che non è che l’inaspettato e imprevedibile rinnovarsi di una barbarie antica quanto l’uomo, esige valutazioni, considerazioni, giudizi non certo solo di studiosi, ma dell’opinione pubblica internazionale perché l’indignazione e la condanna di questa ingiustificata e ingiustificabile infamia siano di tutta la comunità mondiale. È l’opinione pubblica mondiale tutta – al di là di ogni differenza di formazione culturale, di convinzione ideologica, di posizione politica, di fede religiosa – che deve essere profondamente convinta della verità indiscutibile del giudizio sulle distruzioni del patrimonio culturale perpetrate da questa nuovissima barbarie, ripetutamente e solennemente formulato dai massimi responsabili delle organizzazioni internazionali cui aderiscono tutti gli Stati del pianeta: crimini contro l’umanità. Queste pagine sono dedicate, in segno di deferente e commosso omaggio, alla memoria di chi ha eroicamente sacrificato la propria vita per proteggere i resti splendidi e immortali di una delle più affascinanti città del mondo antico, Palmira, città martire del patrimonio mondiale: Khalid al-Asaad, conservatore per oltre quarant’anni della città di Zenobia, conoscitore impareggiabile dei suoi tesori d’arte, ambasciatore nel mondo delle sue sfolgoranti bellezze, un giusto. 1. Il degrado del tempo: dal monumento alla rovina Il fascino della rovina consiste nel fatto che essa presenta un’opera umana, pur producendo l’impressione di essere un’opera della natura. Ciò che ha eretto l’edificio in uno slancio verso l’alto è la volontà umana; ciò che le conferisce il suo aspetto attuale è la forza meccanica della natura, le cui forze di degradazione tendono verso il basso. Tuttavia, si può parlare di rovine e non di mucchi di pietre fintantoché la natura non permette che l’opera decada allo stato amorfo di materia bruta; una forma nuova è nata che, dal punto di vista della natura, è assolutamente significativa, comprensibile, diversificata. La natura ha fatto dell’opera d’arte la materia della sua creazione, come precedentemente l’arte si è servita della natura come di un suo materiale. È così che la natura produce un’impressione di pace, perché in essa l’opposizione di queste due potenze cosmiche agisce come l’immagine riposante di una realtà puramente naturale. Georg Simmel Una celebre profezia di Isaia preannunciava, nella prima metà del VI secolo a.C., il destino di morte e la fatale rovina di Babilonia (fig. 1), determinati, nella volontà divina, dalla decisione inappellabile del dio di Israele di punire il tracotante orgoglio, il potere smisurato e l’ineguagliabile ricchezza della fascinosa capitale dell’Impero neobabilonese, che dalla Tarda Antichità sarebbe diventata per lunghi secoli per l’Occidente, da luminoso centro del mondo come era considerata nell’Oriente preclassico, il simbolo della colpa individuale e della perdizione collettiva dei mortali immersi nel peccato (13: 19-23): “Babilonia, perla dei regni, splendore orgoglioso dei Caldei, sarà come Sodoma e Gomorra, sconvolte da Dio. Non sarà abitata mai più, né popolata di generazione in generazione. L’Arabo non vi pianterà la sua tenda, né i pastori vi faranno sostare le greggi. Ma vi si stabiliranno gli animali del deserto, i gufi riempiranno le loro case, vi faranno dimora gli struzzi, vi danzeranno i satiri. Ululeranno le iene nei loro palazzi, gli sciacalli nei loro edifici lussuosi. La sua ora si avvicina, i suoi giorni non saranno prolungati”. Nella visionaria immagine del grande profeta la rovina della maestosa città imperiale, che avrebbe esercitato una potente suggestione anche su Alessandro, che la elesse a sua capitale e morì quasi certamente nel palazzo che vi aveva eretto Nabucodonosor II nei primi decenni del VI secolo a.C., sono delineati poeticamente i tre stadi di progressivo degrado attraverso cui si immagina che anche la più magnifica delle città incorra dagli anni del suo fastoso splendore ai tempi della sua ineluttabile rovina. Gli inizi del destino di morte sono segnati dall’abbandono delle strutture, palatine e residenziali, avvezze a vedere il succedersi delle generazioni nel rinnovarsi della vita degli abitanti. La decadenza fisica irreversibile di quelle architetture, mutilate nella loro integrità e private ormai di ogni funzionalità, è testimoniata dalla frequentazione di nomadi e pastori che si aggirano tra le rovine cadenti. Il compimento del degrado delle rovine in cui appare evidente l’attuarsi dell’irrevocabile fato di morte è sigillato dall’inselvatichimento con protagonisti gufi, iene e sciacalli in uno scenario in cui le rovine hanno perduto ogni forma. La descrizione del decadimento di un centro urbano come dramma senza ritorno per un intero popolo, che nella vibrante e sdegnata profezia di Isaia appare come la prima fase del degrado di una città fino ad allora fiorentissima, è un motivo che si ritrova nella più antica letteratura dell’umanità tramandata alla scrittura. La distruzione della metropoli sumerica di Ur, che ebbe luogo nella Mesopotamia meridionale nel 2004 a.C. a seguito di una rovinosa incursione degli Elamiti dalle piane dell’Iran sud-occidentale, fu l’oggetto pochi decenni più tardi di diversi suggestivi canti sumerici. La celebre Lamentazione per Ur, che elenca in forme ripetitive nelle due sezioni iniziali i santuari e le città distrutte, trova accenti lirici di grande intensità in un’elegia intonata sull’arpa nella quarta e quinta sezione per esprimere il lamento della dea Ningal, signora di Ur, sulle rovine della sua città: l’evento storico è trasfigurato, per volere del sommo dio Enlil che intendeva punire la città per i suoi peccati, nella forma di una catastrofe provocata da una sovrannaturale tempesta di fuoco, accompagnata dall’oscurarsi del sole, dal dileguarsi delle brezze, dall’irruzione di venti torridi e dal turbinare dei lapilli (vv. 78-204): “Enlil invocò l’uragano che annienta i paesi – il popolo piange. Invocò tutti i turbini funesti – il popolo piange. Alla base del cielo li raccolse – il popolo piange. Sul fronte degli uragani accese fuochi – il popolo piange. Fece ardere il bruciante calore del deserto mentre la tempesta infuriava. Come il fiammeggiante calore di mezzogiorno fece crepitare il fuoco. L’aurora e l’alba del sole splendente imprigionò insiemeai venti favorevoli. Impedì di levarsi sul paese al sole splendente che apparve come una stella al crepuscolo. Nella deliziosa notte, quando scende la frescura, fece divampare il vento meridionale. La sabbia si mescolò a roventi pezzi di argilla bruciata – il popolo piange. I venti scagliò contro il popolo dalle teste brune – il popolo piange. Il paese di Sumer si contorceva nella trappola – il popolo piange. Essi facevano strisciare la gente giù lungo i muri e la divoravano come una muta di cani. Non c’erano lacrime che potessero mutare la luttuosa natura dell’uragano. L’uragano come una falce mieteva il suo raccolto nel paese. L’uragano devastava la città come un’inondazione. L’uragano che abbatte i paesi devastava la città. L’uragano che ogni cosa dissolve la travolgeva crudelmente. L’uragano bruciante come il fuoco straziava la pelle agli uomini. L’uragano creato da Enlil al colmo dell’odio, l’uragano tormento del paese, Ricoprì Ur come un manto, la nascose come un velo di lino”.
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