LDB eBook Laterza Johann Gottlieb Fichte Discorsi alla nazione tedesca © 2003, Gius. Laterza & Figli Edizione digitale: dicembre 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858118283 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata Sommario Introduzione di Gaetano Rametta Note Prefazione Note Primo discorso. Considerazioni preliminari e sguardo d’insieme Note Secondo discorso. Sull’essenza della nuova educazione in generale Terzo discorso. Continua la descrizione della nuova educazione Note Quarto discorso. La diversità capitale tra i tedeschi e gli altri popoli di provenienza germanica Note Quinto discorso. Conseguenze della diversità indicata Note Sesto discorso. Presentazione nella storia dei tratti fondamentali dei tedeschi Note Settimo discorso. Comprensione ancora più profonda del carattere originario e tedesco di un popolo Ottavo discorso. Che cos’è un popolo nel più alto significato della parola, e che cos’è amor di patria? Nono discorso. A quale punto dato nella realtà sia da collegare la nuova educazione nazionale dei tedeschi Decimo discorso. Per la determinazione più precisa dell’educazione nazionale tedesca Undicesimo discorso. A chi spetterà l’attuazione di questo programma educativo? Dodicesimo discorso. Sui mezzi per conservare noi stessi fino al raggiungimento del nostro scopo principale Sommario del tredicesimo discorso. Continuazione delle considerazioni precedenti Quattordicesimo discorso. Conclusioni generali Introduzione di Gaetano Rametta a Lia, che sa il perché Fichte tenne i Discorsi alla nazione tedesca nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino, ogni domenica a partire dal 13 dicembre 1807, e così sino al 20 marzo 18081. Il pubblico era costituito da “una numerosa assemblea di signori e signore” della società colta berlinese, mentre per via epistolare il filosofo manteneva i rapporti con personalità del governo prussiano, allora in “esilio” a Memel, nell’estremo nord della Prussia orientale. Le condizioni in cui si svolgevano gli incontri ci vengono riferite dalle memorie di alcuni partecipanti, che sottolineano lo straordinario coraggio di cui Fichte aveva dato prova nel sostenere in conferenze pubbliche la necessità di una rigenerazione spirituale della Germania, come condizione per la liberazione e il riscatto dalla dominazione straniera2. Le truppe di occupazione francesi sfilavano sotto le finestre della sala in cui le conferenze si svolgevano, e i suoni delle fanfare militari si sovrapponevano alle parole dell’oratore; non soltanto in sala erano presenti informatori francesi, ma persino il censore prussiano assisteva personalmente alle riunioni. Era ancora vivo il ricordo della fucilazione cui era stato sottoposto il libraio Palm, per aver pubblicato un opuscolo di propaganda anti-francese. Il rischio era dunque effettivo, anche se del contingente francese facevano parte, con posizioni di responsabilità, alcuni ex allievi del filosofo3. Ma che cosa aveva portato la situazione a questo punto? È lo stesso Fichte, nel Primo discorso, a presentarci la sua diagnosi. Riallacciandosi esplicitamente alle lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente che aveva tenuto a Berlino alcuni anni prima (1804/05), egli sottolinea che i Discorsi vanno intesi come la continuazione di quelle. Come noto, nei Tratti fondamentali Fichte aveva contrassegnato l’epoca presente come quella della “compiuta peccaminosità”, intendendo con ciò indicare la prevalenza di un atteggiamento intellettualistico, volto al perseguimento dell’utilità e del vantaggio immediati nella vita terrena4. Tale atteggiamento era il frutto della critica illuministica alle religioni positive e della conseguente assolutizzazione della conoscenza scientifica, nel senso matematico-quantitativo delle moderne scienze della natura. Si era diffuso dalla Francia alla Germania, ma l’“egoismo” immanentistico di cui esso era promotore si era innestato qui su una situazione politica già di per sé frammentata e ricca di spinte centrifughe. All’interno di questo quadro, si colloca l’atteggiamento dei diversi Stati tedeschi, e più in generale dei ceti territoriali e dei singoli cittadini, di fronte alle guerre rivoluzionarie prima, e a quelle di Napoleone poi. Fichte cerca di adottare un linguaggio che, sulla scorta di Leo Strauss, potremmo definire “reticente”. In parte per prevenire gli interventi della censura, in parte perché costretto esplicitamente da quest’ultima a modificare termini ed espressioni, egli impiega in molti casi parole quanto più possibile generiche, che non sempre rendono agevole – per un lettore del nostro tempo – identificare i bersagli concreti della sua polemica con la stessa facilità con cui venivano identificati dagli uditori e dai censori dell’epoca. Così avviene per l’uso dell’avverbio irgendwo, “da qualche parte”, nel Primo discorso, quando si tratta di collocare nello spazio il luogo in cui l’“egoismo” è andato completamente distrutto5; così avviene per l’impiego del termine “estero”, con cui di solito (ma non sempre) si intende, in concreto, la Francia. La distruzione dell’egoismo indica dunque la distruzione dell’impero tedesco e, ancora più concretamente, la disfatta subita dalle truppe prussiane nella battaglia di Jena e di Auerstädt. Essa è vista da Fichte come l’esito conseguente del comportamento incerto e oscillante della Prussia, che aveva abbandonato al loro destino i diversi Stati tedeschi con cui formava un’unica compagine, per salvaguardare la propria sicurezza e ottenere magari qualche vantaggio territoriale (come l’acquisizione dell’Hannover a seguito del Trattato di Schönbrunn del 15 dicembre 1805, successivo alla disfatta austriaca nella battaglia di Austerlitz del 2 dicembre dello stesso anno). L’inadeguatezza della politica prussiana si sarebbe manifestata di lì a qualche mese, quando Napoleone avrebbe fatto pagare a caro prezzo l’alleanza coi vincitori, imponendo alla Prussia di chiudere al commercio inglese i propri porti (Trattato di Parigi, 15 febbraio 1806), e al tempo stesso costringendo l’imperatore asburgico Francesco II a dichiarare decaduto il Sacro romano impero germanico (26 agosto 1806). Tale decisione era stata preceduta dalla fondazione della Confederazione del Reno (12 giugno 1806), che raccoglieva in un’unica compagine politica i territori tedeschi alleati dei francesi. Così, la Prussia venne a trovarsi isolata di fronte all’“alleato” francese, e quando sembrò che perfino l’Hannover sarebbe stato restituito all’Inghilterra, la decisione di mobilitare l’esercito e muovere guerra alla Francia giunse come un atto ormai tardivo e senza efficacia: la battaglia di Jena e di Auerstädt (14 ottobre 1806) fornì la testimonianza che la dissoluzione dell’impero – cui la Prussia stessa aveva contribuito col suo atteggiamento, basato solo sul calcolo meschino di qualche vantaggio temporaneo e sul mantenimento della propria sicurezza – si era trasferita all’interno della Prussia6. Per Fichte, l’idea di restare in una Berlino che era in procinto di essere occupata dal vincitore (Napoleone vi entrerà il 27 ottobre) diventa insopportabile. Alla notizia della sconfitta prussiana, egli perciò fugge dalla città, e raggiunge la corte a Königsberg. Nella città di Kant, oltre a pubblicare il saggio su Machiavelli che attirerà l’attenzione del giovane Clausewitz, Fichte tiene un corso di dottrina della scienza nella locale università. Come vedremo, le riflessioni condotte in queste lezioni costituiscono lo sfondo indispensabile per intendere adeguatamente le considerazioni di carattere teoretico contenute in particolare nel Settimo discorso. A ogni modo, anche la capitale dell’antica Prussia orientale costituisce un riparo solo temporaneo: l’apertura delle ostilità contro la Russia dello zar Alessandro, culminate nella vittoria napoleonica della battaglia di Friedland (13 giugno 1807), spinge Fichte nuovamente alla fuga e al rientro a Berlino (agosto 1807), dopo che l’umiliazione della Prussia si era estesa, dal terreno militare, a quello politico-diplomatico (pace di Tilsit, luglio 1807). Nella capitale prussiana, ancora priva del governo che a seguito dell’occupazione di Königsberg da parte dei francesi si era ritirato a Memel, Fichte trova il clima politico e spirituale per reagire al quale decide di pronunciare le sue Reden an die deutsche Nation. Ma allora, se tale è la situazione concreta all’interno della quale intendono intervenire i Discorsi, è evidente che la continuità con le lezioni sui Tratti fondamentali dell’epoca presente andrà intesa in modo tutt’altro che lineare. Ciò che con la disfatta della Prussia è andato distrutto, infatti, non è un semplice assetto politico, bensì è il principio stesso del periodo che costituiva l’età “presente” all’epoca dei Grundzüge. La battaglia di Jena e le sue conseguenze producono una rottura epocale, e i Discorsi intendono porsi all’altezza di questa rottura7. A partire dalla sottomissione nei confronti di una “violenza esteriore” quale quella esercitata dai francesi, l’unica possibilità per una via d’uscita è costituita dalla “formazione di un nuovo mondo”. La transizione tra la vecchia e la nuova epoca, tra l’età dell’egoismo dominante – contraddistinta da un Illuminismo che ha emancipato la ragione dall’obbedienza ad autorità estranee, ma che d’altra parte l’ha ridotta a “intelletto sensibile” e calcolante – e l’età nuova, in cui la ragione dovrà estendere la chiarezza guadagnata attraverso il lavoro dell’intelletto alla dimensione propriamente spirituale del soprasensibile, può essere “agita” dal pensiero, e non meramente subita, solo a partire dalla presa di coscienza che la crisi che investe la Germania è una crisi irreversibile sotto il profilo temporale, e il cui significato va ben al di là dei confini tedeschi, investendo l’Europa nel suo complesso8. I Discorsi sono l’espressione di questa presa di coscienza, e proprio perciò rappresentano un unicum nella produzione filosofica di Fichte. In questi anni, l’attività del filosofo si era andata svolgendo secondo due linee coerenti dal punto di vista della concezione di fondo, ma distinte sotto il profilo dell’articolazione sistematica. Da una parte, abbiamo una sequenza impressionante di esposizioni di dottrina della scienza (la prima della fase berlinese, nel 1801/02; un breve corso nel 1803; addirittura tre cicli nel 1804; le lezioni di Erlangen nel 1805; il corso di Königsberg nel 1807); dall’altra, una serie di conferenze a carattere “popolare”, che comprendono le lezioni sull’“essenza del dotto”, sui caratteri fondamentali dell’epoca presente, e sull’avviamento alla vita beata (tutti e tre questi “corsi” verranno pubblicati a Berlino nel 1806). Dove si collocano le Reden? Esse non costituiscono, palesemente, una esposizione di dottrina della scienza; la loro finalità non è di tipo speculativo, ma immediatamente pratico, operativo. D’altra parte, esse non sono neppure “filosofia popolare”, anche se di quest’ultima possiedono la caratteristica di rivolgersi a un pubblico di non specialisti, e quindi di adottare un linguaggio per quanto possibile non tecnico e d’immediata comprensibilità9. La filosofia popolare espone le concezioni che contraddistinguono la dottrina della scienza, ma non le dimostra in senso rigoroso; mostra come vanno intesi i rapporti tra l’Assoluto e il mondo dei fenomeni, qual è la funzione della coscienza all’interno di questi nessi; spiega quali siano le destinazioni dell’uomo, del dotto; quali siano le articolazioni di fondo della storia, la direzione di marcia delle diverse epoche: ma non dimostra tutto ciò in senso propriamente “genetico”, non riconduce il tutto alle proprie condizioni di possibilità trascendentali, non mostra le stratificazioni ontologiche, il carattere “universale e necessario” dei diversi livelli di essere e di presa di coscienza che lo costituiscono. Nonostante i suoi limiti epistemologici, la filosofia popolare resta comunque “filosofia”. Anche se immediatamente volta a intervenire