Didimo di Alessandria, il cieco1 IN UNA CAVA DI CALCARE A TURA UNA SCOPERTA FORTUNATA La sopravvivenza di un autore antico, lontano da noi secoli, è legata alla conservazione della sua opera: tutte le lodi delle fonti indirette non ce lo possono resti- tuire. Perché dunque Didimo tornasse a vivere bisognava attendere la fortunata scoperta di Tura. Prima ci restava di lui molto poco: l'opera antieretica Contro i manichei, la tradu- zione latina del trattato Sullo Spirito santo, molti frammenti conservati nelle catene esegetiche.2 Era precisamente la dimensione di interprete instancabile della Scrittura, sulla quale le testimonianze antiche insistevano, a risultare mortificata dallo stato delle opere di Didimo. Tutto cambiò nel 1941, quando a Tura, a dodici km da Il Cairo, gli operai al lavoro per sgombrare le gallerie di vecchie cave di calcare, destinate alle truppe bri- tanniche come deposito di munizioni, scopersero nella cava n. 35 un lotto di papiri greci per un totale di circa 2000 fogli: immaginabili le confusioni, le sottrazioni, insomma il pasticcio avvenuto nei primi momenti dopo la scoperta, tanto più che si trattava di fascicoli e non di codici interi. Alla fine furono identificati otto codici, i primi due contenenti scritti di Origene, i successivi alcuni commenti esegetici, anepigrafi, su Ecclesiaste, Genesi, Salmi 20-44,4, Zaccaria e Giobbe, assegnati tutti, in fasi successive, a Didimo. Nei casi dei Commenti a Genesi e a Giobbe l'attribuzione è stata facilitata dal confronto con Procopio di Gaza e le catene didimiane, nel caso del Commento a Zaccaria da quello con l'omonimo commento di Gerolamo, dichiaratamente tributario di Didimo. Invece, riguardo ai Commenti a Ecclesiaste e ai Salmi, proprio l'analisi comparativa con i frammenti catenari di Didimo ha fatto sorgere dubbi, in quanto l'interpretazione ivi conservata, pur essendo largamente coincidente con i primi nei contenuti, non è ad essi linguisticamente sovrapponibile: il greco delle catene mostra una lingua curata e una buona costruzione del periodo, mentre i commenti di Tura rivelano uno stile trasandato, nessuna cura nell'esposizione, ripetizioni a bizzeffe. La soluzione del problema consiste nel considerare i Commenti a Ecclesiaste e ai Salmi come la trascrizione fedele in esteso degli appunti tachigrafici delle lezioni di Didimo, svolte davanti a un uditorio attento che interviene con domande, anch'esse sommariamente riportate; e le differenze di stile e di contenuto con gli omonimi com- 1 Didimo ha commentato quasi tutta la Scrittura (Pall. Hist. Laus. IV 2: παλαιὰν γὰρ καì καινὴν διαθήκην ἡρμήνευσε κατὰ λέξιν; anche Socr. HE IV 25, 6). Hier. De vir. ill. 109 menziona un commento al Salterio, a Giobbe (= HiT), 18 libri su Isaia, 3 su Osea, 3 su Zaccaria (= ZaT), un commento a Matteo e uno a Giovanni “et infinita alia, quae digerere proprii indicis est”. Possediamo, inoltre, il commento a Genesi (GenT), sappiamo di commenti, o per lo meno di interpretazioni, riguardanti Esodo, Levitico, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico, Geremia, Daniele, Luca, Atti, Romani, 1-2 Corinti, Galati, Efesini, Ebrei, Epistole cattoliche, Apocalisse. Parte di questi scritti esegetici sopravvive in frammenti più o meno numerosi nelle catene esegetiche (Sal, Prov, Gv, At, 2Cor). 2Con il termine «catena» si intende una raccolta di brani di antichi esegeti su un libro della Scrittura fatta da compilatori tardi. li pregio di queste raccolte è che molto spesso conservano passi di opere andate perdute. 1 menti catenari dipendono dal fatto che questi ultimi sono testi pubblicati, al pari dei Commenti a Genesi, Zaccaria e Giobbe di Tura, destinati a un pubblico più ampio. Donde veniva questo lotto di fascicoli, la cui scrittura risale alla fine del VI / inizio VII secolo, e perché fu sommariamente interrato? L'ipotesi più verosimile è che provenisse dal vicino monastero di S. Arsenio, dove i codici erano stati dapprima accuratamente composti, mediante riuso di materiale scrittorio (si tratta di palinsesti) e poi condannati alla distruzione, forse a causa del loro contenuto origenista, come induce a pensare il trattamento ricevuto e il tipo di interramento. Anche in questo caso si costata l'eterogenesi dei fini cui le azioni degli uomini soggiacciono, considerato che il monastero con la sua biblioteca fu distrutto dal califfo al-Hakim nel 1010, mentre i codici volutamente disgregati e seppelliti videro di nuovo la luce, seppure a distanza di secoli. L'attribuzione a Didimo del corpus letterario di Tura ha portato alcuni contraccolpi alla ricostruzione prima vulgata delle opere di Didimo: per esempio, si dubita attualmente, sulla base del confronto con gli scritti di Tura, della paternità didimiana dell'anonimo Sulla Trinità, a lui attribuito dopo il ritrovamento nel 1759. Dobbiamo inoltre ricordare che l'attività di ricostituzione e di edizione del corpus di Tura è stata lunghissima e ancora si attende la pubblicazione di una parte del Commento ai Salmi. Comunque, ciò che ora abbiamo fra le mani consente di ricostruire pienamente l'identità letteraria di Didimo, che si presenta come un interprete di fedele impronta ori- geniana, interessato all'insegnamento spirituale del testo biblico, stante il fondamentale scopo dell'ôpheleia, cioè dell'utilità per il lettore di ciò che viene letto, e perciò aduso a tutti i procedimenti esegetici allegorici, ben collaudati dalla tradizione alessandrina a partire dal giudeo Filone, che rendano manifesto il senso profondo nascosto dalla lettera. Ne elenco alcuni: i significati simbolici sono ricavati delle etimologie dei nomi ebraici come dalla numerologia, un'autentica passione per Didimo; vengono cumulate svariate interpretazioni allegoriche di uno stesso passo — in ottemperanza alla convinzione degli esegeti alessandrini che il testo biblico presenta la ricchezza inesauribile della parola di Dio e quindi ha una pluralità di significati —, vengono segnalati errori o incongruenze nel testo letteralmente inteso, tali da suggerire, anzi da imporre, il passaggio all'allegoria (procedimento, quest'ultimo, che chiamiamo defectus litterae). Sviluppando un'esigenza già avvertita da Origene, Didimo è attento a calibrare il metodo interpretativo a seconda del libro commentato, sì che a volte raggiunge il senso spirituale mediante l'allegoresi (il procedimento ermeneutico in base al quale si legge una cosa e se ne intende un'altra), a volte invece si mostra sorprendentemente attento alla lettera, quando questa contiene un insegnamento etico. Così nel Commento a Giobbe l'edificazione morale e spirituale si trae facilmente dalla lettera del testo e quindi Didimo si mostra meno allegorizzante che nel Commento a Genesi, dove però in genere sta bene attento ad affermare la compresenza di livello letterale e spirituale, o in quello a Zaccaria, dove l'allegoria prevale. Forse, in questa capacità di sfruttare spiritualmente le risorse della lettera, gioca un ruolo la volontà di non esporsi troppo alle critiche degli esegeti antiocheni (Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia), che avevano avviato una radicale revisione dell'ermeneutica biblica, incentrando la polemica con gli alessandrini sull'arbitrarietà del ricorso alle allegorie: così Didimo, pur difendendo, in contesti teorici, la sua impostazione allegorica, a volte nella pratica si contiene, al punto da suscitare, nel 2 Commento all'Ecclesiaste, l'impazienza degli allievi che si mettono a reclamare simboli e allegorie. Il giudizio delle fonti antiche sulla vasta cultura di Didimo esce confermato dal corpus di Tura. La sua forzata sedentarietà spinge a considerarlo un prodotto dell'i- struzione di cui si poteva beneficiare ad Alessandria. Il problema che si presenta per ogni autore cristiano tardo antico è sempre quello dello scolasticismo, cioè di quanto la sua informazione sui filosofi antichi dipenda da conoscenza diretta oppure da antologie scolastiche. Neppure per Didimo abbiamo una soluzione; ad ogni modo, specie per la situazione scolastica attestata nei Commenti ai Salmi e a Ecclesiaste,3 vediamo un maestro ben documentato che volentieri cita, anche letteralmente, filosofi come Aristotele, e persino Epicuro, menziona una vasta gamma di autori, dai sofisti a Isocrate, e non disdegna di trarre una citazione anche dal Corpus Hermeticum, concorrenziale all'insegnamento cristiano nell'Alessandria del tempo. Sullo sfondo di una mentalità platonica, acquisita, sembra, piuttosto attraverso Origene che tramite l'ascolto diretto delle opere di Platone, l'influsso filosofico più significativo è quello di Aristotele e ciò corrisponde a una tendenza degli autori cristiani del IV secolo. L'eclettismo delle soluzioni di Didimo farebbe però pensare a un completamento della sua cultura avvenuto da autodidatta o con l'ausilio di scuole inferiori alle grandi accademie filosofiche presenti ad Alessandria, o, meglio, attraverso maestri cristiani — lo stesso didaskaleion? — interessati primariamente alla Scrittura: se diamo credito a quest'ultima ipotesi, allora, più che di eclettismo da parte di Didimo, bisognerebbe parlare di uso strumentale del linguaggio filosofico all'esclusivo fine dell'approfondimento del dato di fede. Quanto agli autori della tradizione alessandrina giudeo-cristiana di cui è debitore, il primo in assoluto è Origene. Eppure Origene non è mai nominato espressamente; questo silenzio è stato messo in relazione alla montante controversia origeniana, il che è in parte vero. Si tenga però presente che Didimo ha scritto un breve commento ai Principi di Origene, la sua opera più contestata fin dall'inizio del IV secolo, e quindi non ha avuto remore a prenderne le difese. Inoltre bisogna rilevare che Didimo, mentre cita autori non cristiani quali il pagano Aristotele e il giudeo Filone, o i cristiani con cui polemizza, è riservato sui cristiani ortodossi nella cui scia si pone: è vero che menziona Clemente, ma una volta sola, e più volte allude ad Atanasio, ma non lo nomina mai. Alla luce di queste considerazioni, ridimensionata alquanto la portata del silenzio su Origene, risaltano invece, dalla lettura complessiva dell'opera di Didimo, fedeltà e attento aggiornamento dell'insegnamento del grande maestro alessandrino: la teologia di Origene viene corretta da Didimo in relazione ai progressi compiuti nel corso della controversia ariana; la dottrina sulla risurrezione, così contestata a partire da Metodio di Olimpo, viene ripensata con l'aiuto di Aristotele; il discorso sul libero arbitrio potenziato in opposizione ai manichei. Le opere di Tura ci restituiscono un autore impegnato in tutte le polemiche del suo tempo, tempestivamente informato su di esse e dunque al centro di un fitto scambio di notizie, con ogni probabilità acquisite anche dagli allievi che giungevano da lontano, ma che soprattutto fanno dedurre un pieno inserimento nel variegato contesto cittadino di Alessandria, nel quale il cristianesimo era costellato da dibattiti dottrinali. 3 M.D. Sanchez, El Comentario al Eclesiastés de Dídimo Alejandrino. Exégesis y espiritualidad, Teresianum, Roma 1991. 3 Il punto di vista di Didimo è, da un lato, di accordo teologico con l'episcopato ortodosso, dall'altro di particolare sensibilità verso i cardini della propria, peculiare, tradizione teologica. Sapevamo da fonti indirette che Didimo aveva scritto un Contro Ario e un Contro Eunomio: gli scritti di Tura ora confermano la preoccupazione antiariana, che fu sempre l'obiettivo primario del vescovo Atanasio, aggiornata in Didimo appunto con l'attenzione nei riguardi di Eunomio. Ma Tura ci ha restituito anche un breve scritto contro gli apollinaristi, il Protocollo di un dialogo fra Didimo e un eretico, cui de- vono aggiungersi le continue puntate contro Apollinare contenute negli scritti esegetici, segno di una percezione tutta particolare, derivante dall'eredità origeniana, della pericolosità della posizione del Laodiceno, percezione che non è riscontrabile nell'impostazione teologica di Atanasio, come dimostrano le affermazioni ambigue del Tomus ad Antiochenos (362), sottoscritte dagli apollinaristi. Altro obiettivo polemico di Didimo sono i manichei, presenti ad Alessandria da un secolo e che rinverdiscono e accentuano le polemiche suscitate dagli gnostici, peraltro ancora saldamente presenti, in piccoli gruppi, in territorio egiziano, intorno al libero arbitrio e alla natura dell'uomo: già prima di Tura conoscevamo l'opera monografica Contro i manichei; la scoperta di Tura ci consente ora di apprezzare quanto sia capillare la polemica anti-manichea di Didimo, tanto da influenzare la proposta dei contenuti esegetici. Per quanto concerne i rapporti con gli autori ortodossi del suo tempo, ho accennato sopra alla reazione di Didimo nei confronti dell'impostazione esegetica antiochena. Si può ipotizzare una sua conoscenza di alcune idee forti di Gregorio di Nissa, anche attraverso informazioni orali, e si possono rintracciare consonanze in generale coi Cappadoci, ma il lavoro di confronto è ancora tutto da svolgere. Insomma, l'epiteto di videns per il cieco Didimo corrisponde alla sua capacità di essere dentro al suo tempo, dentro al confronto delle idee, anche dentro ai conflitti, ma senza l'acredine abituale nei polemisti ortodossi. DIDIMO DI ALESSANDRIA, IL CIECO4 Didimo di Alessandria (ca.313-398) ha lasciato un corpus di scritti sufficientemente ampio perché si possano cogliere in esso molte indicazioni interessanti sul modo in cui egli concepiva il proprio compito di maestro e la propria relazione sia con i discepoli, sia rispetto ad altri soggetti nella chiesa (il clero, i monaci, la comunità dei fedeli) o con ambienti esterni (pagani, giudei, eretici). Didimo di Alessandria, meglio conosciuto come Didimo il Cieco, fu un maestro cristiano, esegeta e teologo, inserito nella tradizione origeniana al punto che la sua memoria sarà coinvolta nelle condanne comminate nei confronti dell'origenismo nel VI secolo, al tempo dell'imperatore Giustiniano. Le testimonianze sulla sua vita provengono, per lo strato più antico, da allievi diretti, i quali fanno a gara per circonfonderne la figura di rispetto e venerazione, sì che la sua personalità appare modulata nelle strettoie del racconto agiografico, e proprio a opera di chi lo aveva visto e ascoltato direttamente. Del resto, come non provare un sentimento di meraviglia ed edificazione davanti al coraggio e alla caparbietà di un cieco dall'età di 4 R.A. Layton, Didymus the Blind and His Circle in Late- Antique Alexandria. Virtue and Narrative in Biblical Scholarship, Chicago 2004. 4 quattro anni, dipendente nel fisico – le fonti non si soffermano sulle difficoltà del suo quotidiano, ma possiamo bene immaginarle —, il quale riesce a dominare il suo uditorio con una prodigiosa memoria e il tratto dell'uomo pio? Che non si tratti della costruzione a tavolino di un modello agiografico ma del riflesso di un sentimento autentico di ammirazione, lo deduciamo dalla seguente considerazione. Gerolamo e Rufino hanno litigato praticamente su tutto, coinvolgendo nella lite l'eredità intellettuale di Origene; anche su Didimo, che era stato maestro di entrambi, si sono scambiati scaramucce, giacché Rufino accusa Gerolamo di aver operato un voltafaccia pure verso di lui, però quello che più gli brucia è che Gerolamo osi dichiararsi discepolo di Didimo non avendo trascorso con lui che un mese scarso, mentre egli ha passato anni interi alla sua scuola. Gerolamo, imperturbabile sul punto, continuerà non solo a chiamare Didimo suo maestro — cosa che peraltro fa anche per Apollinare — ma a fregiarlo in segno di onore e di affetto dell'epiteto di videns. Entrambi, poi, chiesero a Didimo di scrivere qualcosa per loro: Gerolamo i commenti su Osea e su Zaccaria;5 Rufino invece un'opera sul problema della morte dei bambini. In concreto queste fonti contemporanee a Didimo si soffermano sulla sua prodigiosa conoscenza della Scrittura, sulla sua straordinaria cultura profana, nella quale vengono rilevate la conoscenza della dialettica e delle materie scientifiche,6 sul fatto che visse in città tenendo un modo di vita ascetico, con caratteri monastici, e insistono sui rapporti di Didimo con due personaggi centrali del cristianesimo alessandrino ed egiziano dell'epoca: il vescovo Atanasio e il monaco Antonio. A quest'ultimo, mentre era di passaggio ad Alessandria, secondo un aneddoto edificante raccontato indipendentemente l'uno dall'altro da Gerolamo7 e Rufino,8 spetta il compito di consolare Didimo della sua cecità, dicendogli, nella versione rufiniana,9 che possiede «gli occhi che hanno gli angeli e con i quali si vede Dio», facoltà certo superiore alla vista di cui sono dotati «sorci, mosche e lucertole». Altri dettagli sul rapporto fra i due aggiunge Palladio.10 Quindi, dalla convergenza di Gerolamo, Rufino e Palladio emerge l'intenzione comune di sottolineare il rispetto che il più anziano e già venerabile Antonio nutre per il giovane Didimo. Altrettanto significativa è la volontà in Rufino e Palladio di sottolineare il rapporto privilegiato di Didimo con il vescovo Atanasio. A questo riguardo è sono un problema storiografico per la qualifica assegnata da Rufino a Didimo di doctor scholae ecclesiasticae ad Alessandria, giacché con tale dizione Rufino traduce il termine greco didaskaleíon, cioè la celebre scuola cristiana d'Alessandria su cui siamo informati da Eusebio di Cesarea che ne parla fino ad Achilla, 5 Gerolamo, Gli uomini illustri 109. 6 Rufino, Storia della chiesa II,7; Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica IV,29. 7 Lettera 68,2 (del 397ca.). 8 Rufino, Storia della chiesa II,7; l'aneddoto viene poi ripreso da Socrate, Storia ecclesiastica IV,25 e Sozomeno, Storia ecclesiastica III,15. 9 Invece nella versione geronimiana gli occhi spirituali di Didimo sono gli occhi dei santi e degli apostoli. Nell'esortazione rivolta a un altro cieco (Lettera 76,2) Gerolamo lo rassicura circa il fatto che possiede gli occhi della sposa del Cantico dei Cantici: anche in questo caso, pur non nominando Didimo e Antonio, Gerolamo ha in mente un'altra versione dello stesso aneddoto, perché nel prologo della sua traduzione del trattato Sullo Spirito santo di Didimo Gerolamo parla dell'autore come di chi possiede gli occhi della sposa. 10 Storia Lausiaca 4,3. 5 cioè fino al 300 circa, con una precedente interruzione di qualche decennio, e dallo storico Filippo di Side che inserisce Didimo come penultimo maestro della scuola.11 Quanto alle testimonianze sui rapporti fra Didimo e Antonio, Palladio parla di una "cella" di Didimo, inducendo a pensarlo come un monaco lui stesso. Se monaco è stato, è però vissuto in città — lo conferma Palladio — e le sue opere mostrano che la sua attitudine è quella dell'esegeta, alla maniera origeniana, e del teologo. Il suo insegnamento non è quello del maestro che, al centro della sua cerchia monastica, si interroga su questioni spirituali o sulla regola evangelica con intento scoperto di guida spirituale – secondo quanto ci dicono le opere di Basilio o di Giovanni Cassiano circa gli anziani – ma è quello di un docente di scuola che risponde a quesiti di natura esegetica, filosofica, dottrinale, esattamente come avrebbe fatto Origene, con l'intento, preciso, ma indiretto, di giovare al progresso della vita spirituale. La definizione di «grande e gnostico maestro» data a Didimo dal suo discepolo speculativamente più dotato, Evagrio Pontico,12 rispecchia la duplice valenza, intel- lettuale appunto e spirituale, del suo insegnamento. Un impegno intellettuale a tempo pieno, combinato con l'inclinazione monastica, appare molto più credibile storicamente, alla luce delle nuove acquisizioni critiche sulla cultura e l'istruzione dei monaci e sul legame primitivo –non sopraggiunto in un periodo successivo con la tradizione origeniana di una parte almeno del monachesimo. Didimo, rispetto all'ala monastica che avrebbe fatto della separazione dalla città il suo modus vivendi, continua a risiedere nella città, ma la sua non è un'eccezione; al contrario, sembra corrispondere a una fase antica delle aspirazioni monastiche – il primitivo monachesimo è più della città che del deserto – in un momento di transizione dalle usuali forme ascetiche private a un diverso sostanziamento di pratiche e di concentrazione interiore, che nel caso di Didimo, date le particolari condizioni fisiche, non potevano mai essere disgiunte dal sostegno degli altri. La sua vita, dalle caratteristiche combinate di asceta e di didaskalos, laddove il secondo momento mantiene rilevanza e specificità, è quindi una delle modalità possibili di un monachesimo assai ricco, alle sue origini, di proposte e sfaccettature. DIDIMO IL CIECO E LA SCUOLA Nello studio delle nuove forme comunitarie prodotte dal cristianesimo un capitolo merita di essere dedicato alla scuola.13 Non perché sia un’istituzione tipicamente cristiana, ma perché – come il monachesimo – essa nelle chiese cristiane è passata attraverso un creativo processo di adattamento nei contenuti e nelle finalità e, almeno in 11 Filippo di Side (Panfilia) scrisse una Storia del cristianesimo, di cui restano solo scarsissimi frammenti, intorno agli anni 30 del V secolo. Era un'opera di proporzioni monumentali (36 libri), di carattere enciclopedico, e, secondo lo storico Socrate, era piena di sviste. Filippo la scrisse a Costantinopoli, dove fu diacono e poi presbitero sotto Giovanni Crisostomo. Per tre volte fu candidato al soglio episcopale, con esito negativo. 12 Lo gnostico 48. 13 Marco Zambon, Chiesa, comunità filosofica e comunità ascetica nella scuola di Didimo il Cieco, in «Annali di storia dell'esegesi» 29 (2012) 73-109. 6 alcuni luoghi e tempi, ha svolto una funzione importante nell’elaborazione dottrinale e nella proposta di un modo specifico di attuazione della vita cristiana. Didimo di Alessandria ha lasciato un corpus di scritti sufficientemente ampio perché si possano cogliere in esso molte indicazioni interessanti sul modo in cui egli concepiva il proprio compito di maestro e la propria relazione sia con i discepoli, sia rispetto ad altri soggetti nella chiesa (il clero, i monaci, la comunità dei fedeli) o con ambienti esterni (pagani, giudei, eretici). Proseguendo un’esperienza iniziata tra i cristiani di Alessandria già nel II secolo, Didimo ripropose nella chiesa il modello di comunità rappresentato dalle scuole di filosofia, in sostanziale continuità con la tradizione pagana per quanto riguarda il curriculum culturale percorso dal maestro e da una parte almeno dei suoi discepoli, per i metodi di lavoro adottati e le finalità perseguite con l’insegnamento. Nella sua scuola si colgono anche elementi importanti di discontinuità rispetto a quegli ambienti, anzitutto sotto il profilo istituzionale – egli, infatti, svolse la propria attività in modo autonomo, ma con il riconoscimento e l’appoggio del vescovo (per lo meno durante l’episcopato di Atanasio) e di rappresentanti importanti del nascente movimento monastico –, ma anche nel fondamento teologico che viene assegnato da Didimo alla funzione del maestro, da lui concepito come il portatore di un carisma profetico e apostolico. I. LA SCUOLA DI DIDIMO TRA EPISCOPATO E MONACHESIMO 1. La formazione culturale di Didimo Molti particolari della vita e della formazione culturale ricevuta da Didimo ci sono sconosciuti, anche perché egli non dice nulla di sé nelle proprie opere, ma le notizie provenienti dalle fonti più antiche, soprattutto quelle date da tre contemporanei che lo conobbero personalmente (Rufino, Gerolamo, Palladio), permettono di formulare almeno alcune ipotesi. Secondo Rufino, malgrado la cecità che lo aveva colpito in tenera infanzia, Didimo conosceva perfettamente la dialettica, la geometria, l’astronomia e l’aritmetica; possedeva la «scienza delle cose umane e divine», era, cioè, un filosofo.14 Un curriculum simile è descritto anche da Socrate e Sozomeno. Teodoreto di Cirro precisa che gli studi letterari e filosofici erano stati intrapresi da Didimo allo scopo di meglio servire la causa della verità, cioè la comprensione e la difesa del significato profondo delle Scritture. Anche se questi resoconti sono schematici e almeno in parte idealizzati, Didimo sembra aver percorso una strada simile a quella che circa un secolo prima aveva seguito Origene, ricevendo in parallelo una solida educazione tradizionale, secondo il modello delle scuole greche, e una precoce iniziazione allo studio della versione greca delle Scritture. Diversamente da Origene, a Didimo viene attribuito da Socrate e Teodoreto anche lo studio della retorica, ma i suoi scritti non rivelano per questo aspetto della comunicazione maggiore attenzione di quella che gli riservava Origene. Un tratto caratteristico di Didimo rispetto a Origene è la più esplicita e approfondita conoscenza da 14 Rufino e Gerolamo parlano della conoscenza da parte di Didimo della dialettica e della geometria. La «divinarum humanarumque rerum eruditio ac scientia» della quale parla Rufino è la ἐπιστήμη θεíων καì ἀνθρωπíνων καì τῶν τούτων αἰτιῶν, menzionata in alcuni passi anche da Didimo (cf. EcclT 29, 25-26; 34, 24; 226, 7); si tratta di una definizione della filosofia che risale agli stoici (SVF II 35-36. 1017; cf. anche 4Mac 1, 16), ma è largamente attestata in età imperiale: cf. Alc., Didask. 1, 152, 5-6. 7 parte sua della dottrina aristotelica: si può considerare certo che Didimo conoscesse in modo diretto l’Organon di Aristotele e mi sembra ragionevole supporre che ne avesse studiato anche altri scritti, soprattutto l’Etica a Nicomaco. L’aristotelismo era, naturalmente, solo una delle componenti dell’orizzonte filosofico di Didimo che, nelle sue linee fondamentali, era segnato piuttosto dalla tradizione platonica e da importanti prestiti stoici. Anche in questo egli si mostra partecipe del medesimo ambiente culturale nel quale si mossero Origene e Plotino, prima di lui, o Ipazia e Sinesio, dopo di lui. 2. Didimo maestro ecclesiastico Il primo testimone a collegare tra loro Didimo e Atanasio è Rufino: [Didimo], istruito da Dio, pervenne a una così grande scienza delle cose umane e divine, da essere maestro nella scuola della chiesa, con la piena approvazione del vescovo Atanasio e di altri uomini che nella chiesa di Dio erano sapienti. La notizia non è chiara come vorremmo, ma se ne ricava che Didimo svolse l’attività di maestro in una scuola in qualche modo inserita nella chiesa di Alessandria e ch’egli riceveva il sostegno di Atanasio (326-373) e di altri esponenti intellettuali di quella chiesa. Due storici della prima metà del V secolo, Filippo di Side e Sozomeno, precisano questa informazione, scrivendo che Didimo fu a capo del διδασκαλεῖον, una istituzione ch’era emanazione diretta della chiesa di Alessandria (Filippo ne fa il dodicesimo scolarca dopo Atenagora). Malgrado i problemi posti da queste notizie, alcuni elementi significativi sono sicuri: Didimo insegnava l’interpretazione della Scrittura e la sua fama era tale da attirare uditori anche da molto lontano (per esempio Rufino, Gerolamo, Evagrio), il suo insegnamento godeva di un esplicito riconoscimento (forse di una qualche forma di aiuto materiale) da parte del vescovo Atanasio e di altre personalità culturalmente in vista della chiesa di Alessandria. Come nel percorso di formazione, così anche nella propria attività di maestro, Didimo presenta notevoli affinità con Origene: entrambi erano laici, si dedicavano all’insegnamento di una filosofia cristiana, che si sforzavano di praticare prima ancora di insegnarla ad altri; i loro metodi erano simili a quelli delle altre scuole filosofiche, ma il contenuto del loro insegnamento consisteva nell’interpretazione sistematica della Scrittura e parte della loro attività era dedicata alla composizione di opere di polemica o di esposizione dottrinale; essi si rivolgevano a uditori culturalmente formati, difendevano la tradizione di fede della grande chiesa e, pur svolgendo in modo autonomo la propria attività, ricevevano l’appoggio dei rispettivi vescovi. Malgrado il rapporto organico stabilito con il vescovo e la più volte dichiarata intenzione di vivere e insegnare secondo la tradizione di fede della chiesa, i riferimenti espliciti alla realtà istituzionale della chiesa (prassi liturgica e sacramentale, ruolo del clero e dei monaci) sono piuttosto rari in Didimo, in parte forse per il genere letterario degli scritti che ci sono pervenuti, in parte anche per il carattere relativamente autonomo del cristianesimo di Didimo rispetto a queste dimensioni della vita cristiana. Nonostante la vivace polemica antiereticale, Didimo non si riferisce mai, per esempio, ad alcuno dei sinodi che si svolsero nel corso della sua vita, né si riferisce in modo esplicito – benché li conosca certamente – agli scritti di Atanasio. 8 È chiaro, anche se vi sono solo cenni molto rapidi a questo aspetto, che Didimo pensa alla chiesa come a una comunità con un’organizzazione territoriale e strutturata gerarchicamente sotto la guida di vescovi e presbiteri, ma è un aspetto al quale egli non riserva un’attenzione particolare. Nella chiesa membri diversi esercitano funzioni diverse: chi si dedica alla contemplazione e all’ascolto, chi alla pratica delle virtù; Didimo cita in più occasioni passi paolini che si riferiscono ai diversi ruoli di guida nella comunità (pastori, evangelisti, maestri ecc.; cf. 1Cor 12, 28; Ef 4, 11), senza stabilire una distinzione precisa o una gerarchia tra i compiti ministeriali del clero e quelli dottrinali dei maestri. Egli distingue, piuttosto, coloro che, in vari modi, svolgono la funzione di pastori in modo conforme alla volontà di Dio da coloro che esercitano sul gregge un dominio abusivo e dà ragione agli stoici, quando affermano che soltanto il sapiente è re e sacerdote. Tra chi istruisce e chi esercita una funzione di guida nella vita pratica c’è una differenza, visto che gli uni sono chiamati “apostoli, profeti, maestri ed evangelisti” e gli altri sono chiamati propriamente “pastori”: E forse sono apostoli e profeti, maestri ed evangelisti coloro che istruiscono con conoscenza e intelligenza l’assemblea di Cristo, mentre sono pastori coloro che possiedono la vita pratica e danno espressione in modo semplice alla fede e ai pensieri dei cristiani (ZaT IV,51). Questa distinzione, però, non coincide con quella tra maestri e clero, perché corrisponde alla distinzione, molto frequente in Didimo, tra la virtù teoretica e la virtù pratica e le forme di vita corrispondenti. A loro volta, queste due virtù e le condotte relative sono i due livelli fondamentali nei quali Didimo riassume la propria concezione delle tappe del progresso spirituale. Egli, cioè, non definisce qui la sfera d’azione istituzionale di due categorie distinte di persone, bensì insiste semplicemente sul fatto che nella chiesa svolgono una funzione di guida sia coloro che con la propria condotta si rendono degni di essere imitati, sia coloro che, oltre a ciò, sono in grado con le proprie parole di introdurre i credenti all’intelligenza dei misteri della fede. In entrambi i casi, il tratto proprio del pastore/maestro è la conoscenza da parte sua della norma di fede, che lo mette in condizione di “pascere con scienza” (Ger 3, 15) il gregge. L’autorità non viene conferita a questi pastori/maestri dal fatto di essere collocati in una certa posizione ecclesiastica, essi la possiedono già in forza delle proprie disposizioni personali. Parlando degli anziani che, secondo Zc 8, 4-5, ancora verranno a sedersi nelle piazze di Gerusalemme, cioè nella chiesa, Didimo associa ai settanta anziani scelti da Mosè per comando di Dio (Nm 11, 16) gli anziani del Nuovo Testamento, per esempio quelli istituiti a Creta da Tito su richiesta di Paolo (Tt 1, 5). Gli uni come gli altri, spiega, sono da considerarsi anziani non per l’età, ma per la maturità etica e spirituale loro richiesta: Appare da ciò che l’istituzione e l’ordinazione (ἡ κατάστασις καὶ ἡ χειροτονíα) non rendono anziano colui che non lo è già da prima, ma soltanto lo indicano e lo manifestano come tale [...] (ZaT II, 256 e 258). Ciò che qualifica un individuo a svolgere una funzione di guida nella chiesa è dunque il possesso da parte sua di determinate caratteristiche, non il mandato ufficiale, che ha il 9 solo compito di riconoscerle pubblicamente. Vi è un passo del Commento alla Genesi nel quale Didimo sembra stabilire un rapporto di subordinazione tra la funzione del maestro e quella del sacerdote: egli interpreta, infatti, i nomi di Abele (“l’offerente”) e di Set (“il dissetatore”) come simboli del sacerdote, che offre sacrifici spirituali, e del maestro, che disseta con la dottrina i discepoli, e scrive: Bisognava, infatti, che l’“offerente” – questa è la traduzione di Abele – avesse come fratello la bevanda, perché egli, essendo primo e più perfetto, in veste di sacerdote offrisse a Dio sacrifici spirituali; mentre bisognava che Set, collocato al secondo posto, per mezzo della bevanda e dell’insegnamento conducesse a Dio coloro che ne ricevevano l’educazione (GenT 144, 8-16; per l’etimologia dei due nomi cf. Phil. Alex. De poster. 170). Anche in questo caso, sacerdote e maestro sembrano non figure istituzionali con compiti rituali – il clero – o dottrinali – i maestri –, ma figure simboliche, che indicano due livelli successivi di guida spirituale. Anche quando parla del culto, Didimo distingue un altare esoterico, che è quello celeste di cui parlano Is 6, 6 e Apc 20, 4, e un altare essoterico, che è quello materiale, edificato da Mosè, sul quale si celebra un culto che è immagine di quello vero. Ai sacrifici visibili, compiuti secondo la lettera della Legge su questo altare essoterico, egli oppone un culto superiore, la celebrazione del quale è affidata a sacerdoti e maestri, e che consiste “nel fare ciò che è dovuto e nel pensare la verità” (PsT 306, 26-307, 2). Vi è, insomma, in Didimo una serie piuttosto ricca di annotazioni circa la dignità e la responsabilità di chi nella chiesa svolge la funzione del pastore, ma non una riflessione esplicita sulle funzioni specifiche del vescovo e degli altri membri del clero. Chi merita di essere chiamato pastore nella chiesa è una guida per gli altri, perché offre loro un esempio con la propria condotta e un insegnamento conforme alla verità; ma questo compito ricade negli stessi termini anche sulle spalle del maestro laico. Non si trova alcuna traccia nei suoi scritti di una posizione polemica nei confronti del crescente prestigio e dell’autorità esercitata dai vescovi di Alessandria, ma nelle pagine di Didimo il vero portatore dell’autorità nella chiesa è quasi sempre il sapiente e il virtuoso, non il vescovo. Il senso della dimensione comunitaria del cristianesimo appare negli scritti di Didimo in modo particolare nell’interpretazione di alcune immagini bibliche. La chiesa è un campo che appartiene a Dio, ben coltivato quando in essa i pensieri e la vita pratica sono guidati dalla regula fidei; se, invece, essa cade nelle mani degli eretici, diviene un campo incolto e infecondo. La difesa della tradizione di fede dall’eresia e la concezione inclusiva della chiesa, alla quale appartengono uomini a livelli differenti di maturazione spirituale e dotati di diverse capacità di comprensione del mistero, sono i due tratti più ricorrenti dell’ecclesiologia di Didimo. L’aspetto determinante per la piena appartenenza alla chiesa è, ai suoi occhi, l’adesione alla retta dottrina: senza questa, una condotta buona è inutile o, meglio, impossibile. In forza del legame che stringe, secondo Didimo, la conoscenza della verità e la pratica della virtù, un’autentica adesione alla regola di fede dev’essere congiunta a una condotta di vita coerente e all’esercizio dell’amore. La chiesa, infatti, come l’anima 10
Description: