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Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla PDF

192 Pages·2017·3.501 MB·Italian
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DICIAMOLO IN ITALIANO Antonio Zoppetti DICIAMOLO IN ITALIANO Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla Prefazione di Annamaria Testa EDITORE ULRICO HOEPLI MILANO Copyright © Ulrico Hoepli Editore S.p.A. 2017 via Hoepli 5, 20121 Milano (Italy) tel. +39 02 864871 – fax +39 02 8052886 e-mail [email protected] Seguici su Twitter: @Hoepli_1870 www.hoepli.it Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali ISBN EBOOK 978-88-203-8043-4 Progetto editoriale: Maurizio Vedovati – Servizi editoriali ([email protected]) Copertina e impaginazione: Sara Taglialegne Realizzazione digitale: Promedia, Torino SOMMARIO Prefazione di Annamaria Testa 1L’inglese planetario Globalenglish e itanglese Italia-Spagna 0 a 2 Italia-Francia 0 a 1 Italia-Germania 0 a 0? 2Tutti i tipi di anglicismi Quando l’inglese non ci impoverisce I corpi estranei La film, il weekend e il week-end: storie di sesso e ortografia Una rete di anglicismi interconnessi si espande nel nostro lessico 3Come è iniziata Non ammettere motti impuri La svolta tra Ottocento e Novecento Dalle epurazioni alla lingua dell’okay 4Ma quanti sono? Gli anglicismi nei dizionari Cosa accadrà se le la metà dei neologismi è in inglese? Non si può più negare Lo scollamento tra lingua e dizionari 5La fabbrica degli anglicismi: dai settori alla lingua comune Il ruolo dei media e della pubblicità L’inglese nella politica e nelle istituzioni L’inglese cha trasborda da ogni settore 6Che fare? I perché degli anglicismi Dai lamenti all’azione Bibliografia e fonti Informazioni sul Libro Circa l’autore Prefazione Una questione che ci riguarda Che cos’è l’itanglese? Una moda? Un segno di provincialismo? Un fatto di pigrizia? Di superficialità? Un espediente per pavoneggiarsi davanti agli interlocutori? Per intimidirli? Per ingannarli? È il latinorum contemporaneo? Un effetto collaterale dell’importare pratiche, discipline e tecnologie nate e sviluppate altrove, senza riuscire a farle davvero nostre? O si tratta del segno che l’italiano di molti italiani è, come afferma in questo libro Antonio Zoppetti, fragile? Sta di fatto che continuo a chiedermi che cos’ha in mente il redattore che scrive “gli influencer sono trend setter by definition: per questo il loro outfit è sempre cool.” O la società di telefonia mobile che mi invia il messaggio: “Il report con le tue performance di aprile è online”, per dirmi che in Rete trovo i consumi del cellulare. E così, nel nostro Paese, sempre più spesso le persone si informano, viaggiano, pagano pedaggi, bollette e tasse, lavorano, si tengono in forma, giocano e mangiano in itanglese. In itanglese si legifera, si delibera e si diffondono precetti. Perfino il Miur, redigendo il recente Piano per la formazione dei docenti, sguazza felice in un mare di peer teaching, mentoring e learning by doing, flipped classroom e job shadowing, counseling e workshop, panel, feedback e fall- out, expertise e soft skills. Scegliendo l’itanglese, ci stiamo perdendo per strada molte parole italiane utili a nominare concetti, oggetti e azioni della quotidianità (perché mai, raccontando e promuovendo i prodotti del territorio, scriviamo sempre più spesso food e wine invece di cibo e vino? Perché un pranzo leggero è un light lunch? Perché dobbiamo compilare un form e non un modulo?). Stiamo rinunciando a dotarci di parole utili a nominare concetti, oggetti e azioni della modernità: perché mai il ministero non esplicita che le soft skills, così importanti per il futuro dei nostri ragazzi, non sono altro che competenze trasversali (capacità di capire e risolvere problemi, di entrare in relazione, di guidare le persone, di lavorare in gruppo)? Ci perdiamo parole utili a trasmettere sfumature importanti per la comprensione. Chi, per esempio, parla di location, intende indicare una località, un sito, una posizione, un indirizzo, una sede, un edificio, un ambiente, una sala? La cosa certa è che raramente userà il termine nella sua accezione originale: gli esterni scelti per effettuare una ripresa cinematografica o televisiva. Qualche tempo fa, un collega mi ha scritto: “Ho appena spedito un messaggio a un cliente. Quando l’ho riletto prima di inviarlo, mi sono accorto che di italiano c’erano solo le congiunzioni.” Nelle pagine di questo libro, Antonio Zoppetti ha raccolto con ammirevole puntiglio una quantità di casi ed esempi. Ma, dopotutto, le lingue vive cambiano, si evolvono e si contaminano. L’inglese è svelto, comodo e cosmopolita. Allora dov’è il problema? E in che modo la questione dell’itanglese riguarda tutti noi? Casi ed esempi dicono poco, se non vengono accostati ai dati raccolti da Zoppetti. Sono questi a dar conto dell’attuale pervasività dell’itanglese. Vi faccio una singola anticipazione: la società di traduzioni aziendali Agostini Associati rileva un aumento degli anglicismi del 773% tra il 2000 e il 2009, e ulteriori incrementi del 223% nel 2010, del 343% nel 2011, del 440% nel 2014. Ma proviamo ad accostare, a questo, un altro dato: secondo il Rapporto EF EPI (English Proficiency Index) del 2016, l’Italia è solo ventunesima su ventisei Paesi europei per conoscenza dell’inglese. Ed eccoci a un punto rilevante: se ad alcuni, e forse a molti, per pura incompetenza dell’inglese molte parole dell’itanglese risultano sfuocate, o del tutto oscure e indecifrabili, vuol dire che, oltre a dimenticarci (o a non inventare) utili parole italiane, scegliendo l’itanglese ci perdiamo il vantaggio del capirci bene quando comunichiamo. E questo è grave. Lo affermavano Shannon e Weaver, già a metà del secolo scorso: va considerato rumore (cioè: un puro disturbo della comunicazione) tutto ciò che, all’interno di un messaggio, il destinatario non è in grado di decodificare in modo corretto. È ancora il rapporto EF EPI del 2016 a dirci che non solo in Italia ma in tutto il mondo il settore dell’istruzione è ampiamente sotto media per conoscenza dell’inglese. È assai probabile, dunque, che quando scrive soft skills il nostro Miur scelga un termine che risulta opaco a molti, ostacolando, e non promuovendo, la propensione dei docenti a sviluppare le indispensabili competenze trasversali nei ragazzi. I due fenomeni (la pervasività dell’itanglese e la modesta conoscenza della lingua inglese) sembrerebbero contrastanti, ma in realtà non lo sono. “A chi conosce a fondo una lingua straniera non viene nemmeno in mente di esibirla fuori tempo e luogo come faceva l’Americano di Sordi e di Carosone e come fanno troppi ignoranti", scrive Tullio De Mauro. E aggiunge che “correggere il grave, persistente analfabetismo nazionale in materia di lingue straniere, inglese compreso, è una via più lunga, ma forse più produttiva di qualche ukaz contro i mali anglismi.” È una visione saggia e del tutto condivisibile. Ma, appunto, riguarda una via più lunga, e ci vorranno decenni per percorrerla tutta dato che, secondo i dati Eurobarometro 2012, solo il 40% degli italiani conosce l’inglese, e solo il 34% si ritiene in grado di sostenere una conversazione in quella lingua. Dubito che negli ultimissimi anni la situazione sia migliorata in modo sostanziale. Preoccuparsi delle questioni della lingua con cui ci si parla non è un fatto di purismo, di estetica o di nostalgia del passato. È una questione cruciale. E non è un problema marginale, ma un tema che riguarda il presente e il futuro, a livello sia individuale sia collettivo. Il motivo è semplice: tra parole e potere esistono molti legami. Parole e potere hanno un legame per gli individui: essere padroni delle parole è, ce lo diceva già don Milani, una condizione per essere padroni del proprio pensiero e del proprio destino. Ma l’abuso dell’itanglese può espropriare molte persone (ricordiamoci i dati Eurobarometro) del senso compiuto dei discorsi, rendendole un po’ meno consapevoli e capaci di esercitare le proprie scelte anche in ambiti fondamentali come la politica, l’economia e la finanza, la salute. Parole e potere hanno un legame forte anche per la collettività: è il nostro Ministero degli affari esteri a ricordarci che la lingua italiana, che gli stranieri giudicano tanto attraente da farne la quarta (o quinta) più studiata al mondo, è uno straordinario strumento di soft power (a oggi non abbiamo una traduzione accreditata per questo concetto, ma potremmo dire “potere morbido”). Il concetto di potere morbido, formulato alla fine del secolo scorso dal politologo Joseph Nye, dell’università di Harvard, riguarda la capacità di

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