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Dialogo sulla modernità PDF

64 Pages·1994·1.792 MB·Italian
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Karl Lowith e Leo Strauss DIALOGO SULLA MODERNITÀ Introduzione di Roberto Esposito Saggine Nel suggestivo episto!ario intrecciato, nel periodo del nazismo e della guerra, tra due dei massimi interpreti del pensiero fi losofico echeggiano accordi e dissonanze sui gr,mdi problemi della filosofia. Acco munati dall'origine ebraica - che li con danna all'esilio dalla Germania negli anni piG bui di questo secolo - Karl Lowith e Leo Strauss ne vivono in maniera diversa il rapporto antinomico con le categorie storicistiche del nostro tempo. Se per Strauss esse sono il risultato di una tragica rottura con l'intera tradizione classica, sia greca sia ebraico-cristiana, per Lowith scaturiscono proprio dalla secolarizzazio ne della filosofia cristiana della storia. Ma forse il punto di maggiore divarica- 7ione interpretativa si concentra sulla nozio ne che ambedue gli interlocutori oppongo no all'ipertrofia della coscienza storica mo derna, vale a dire quella di natura: da Strauss intesa soprattutto nel suo aspetto, razio nale e normativo, di natura delruomo; da Lowith, al contrario, come ciò che eterna mente ci trascende e ci domina. Di qui anche una differente modalità di accostarsi a1 pro blemi della politica. Alla richiesta straussiana di un nuovo mito capace di accordare i cuori dissonanti della polis, risponde la netta cur vatura «impolitica» del discorso di Lowith: se il nichilismo è il destino infrangibile del nostro tempo, non rest,1 che prendere eroi camente atto del crepuscolo di tutte le fedi. Finemente ricostruiti dall'introduzione di Roberto Esposito, i due itinerari imellet tmli di Strauss e Lowith ritrovano, in que ste lettere, la tram,1 profonda che li lega ,1llc questioni essemiali della nostra epoca. Saggine/ 5 Questo libro fa parte del «Fondaco di Micromega», nel quale vengono pubbficati, di volta in volta presso editori diversi, materiali apparsi in una prima edizione italiana nella rivista. Sono già usciti: Paolo Flores d'Arcais, Il disincanto tradito, Bollati Boringhieri; Fernando Savater, Filosofia contro accademia, Il Melangolo; Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto, Theoria. I testi di K. Lowith e L. Strauss sono stati pubblicati nel n. 5, 1991. Si ringrazia «Micromega» per avere concesso l'autorizzazione a riprodurli nella traduzione italiana di Alessandro Ferrucci. L'introduzione di Roberto Esposito, scritta appositamente per questo volume, riprende, ampliandola, la presentazione comparsa sulla rivista. Karl Lowith e Leo Strauss DIALOGO SULLA MODERNITÀ Introduzione di Roberto Esposito Traduzione di Alessandro Ferrucci DONZELLI EDITORE © 1991 «Micromega» © 1994 Donzelli editore, Roma ISBN 88-7989-082-4 ____ DIALOGO SULLA MODERNITÀ ____ Indice p. VII Introduzione. Sull'orlo del precipizio di Roberto Esposito 3 Parte I. 1935 21 Parte II. 1946 V ____ DIALOGO SULLA MODERNITÀ ____ Introduzione Sull'orlo del precipizio di Roberto Esposito 1. Lettere dall'altrove. Nulla manca a questo epistolario tra Karl Lowith e Leo Strauss per farne uno dei più sintomatici documenti del secolo che è ancora il nostro. Basta uno sguardo alle date che ne circo scrivono in due blocchi distinti (1935 e 1946) l'arco temporale per rendersene conto. Ma direi che tutto, in queste lettere - luo ghi, nomi, circostanze - sembri rinviare al punto in cui l'intera civiltà moderna rischia di precipitare in un collo d'imbuto che solo alla fine della seconda guerra mondiale ha cominciato len tamente (ma non irreversibilmente) a rovesciarsi. I luoghi in nanzitutto: negli anni trenta, Roma per Lowith - vissuta con la pienezza di cui l'autobiografia postuma dà pienamente conto - Cambridge per Strauss. E, nel decennio successivo, ancora l'In ghilterra per Strauss e gli Stati Uniti, raggiunti dopo l'intermez zo giapponese, per Lowith. Luoghi tutti sui quali quegli anni e quegli eventi depongono il segno rovente e indelebile non già della semplice emigrazione, ma della persecuzione e dell'esilio, come Lowith non mancherà di puntualizzare (Lowith 1986, pp. 123-4): non senza osservare, con la sobria amarezza dell'espe rienza diretta, che «anche chi riesce a trovare una nuova patria e acquista la cittadinanza di un altro Paese, trascorrerà gran parte VII Roberto Esposito della sua vita a colmare questa frattura>, (ibid., p. 179). E poi i nomi: quelli di Giovanni Gentile e di Benedetto Cro ce, «uno dei pochi spiriti rimasti liberi e in possesso di un sapere e di una cultura che fanno vergognare tutti i più giovani» (ibid., p. 118). Ma anche dei grandi Werner Jaeger e Ernst Kanto rowicz, del teologo già protestante Erik Peterson, convinto al cattolicesimo dal diffondersi in Germania della peste bruna e di quelli - come Barth e Bultmann - capaci di rivolgere contro essa la propria «protesta». Di Gogarten, scivolato con più di un piede nel vortice, e ancora di Emil Brunner e di Paul Tillich. Per non parlare degli uomini «decisivi» che restano sullo sfondo del dia logo, ma che lo orientano come le stelle polari di un'epoca di cui sono stati insieme i testimoni meno avventizi e gli interpreti più lucidi: da un lato Weber e Husserl, ultimi eroi di una stagione adesso esaurita, fissati nella ferma distanza e nel dignitoso riser bo rispetto al montare della tempesta; dall'altro Heidegger e Sch mitt, entrambi, sia pure diversamente, da questa lambiti e per una certa fase travolti, come accade talvolta a chi vive il proprio tempo con una partecipazione che ne rende opachi i contorni e ne oscura la direzione. Sono i nomi - i maestri riconosciuti, ama ti, odiati - che riportano la mente ad altri luoghi, questa volta te deschi, ai quali la memoria degli esuli non può non tornare con rimpianto e con rabbia: due soprattutto, Friburgo e Marburgo, tra loro collegati dal filo, non solo biografico, di una vicenda fi losofica tutt'altro che esaurita, e alla quale sia Lowith sia Strauss torneranno con la consapevolezza mai smarrita che ad essa resta, nel bene e nel male, la responsabilità di interpretare l'enigma di questa tarda modernità che ancora ci insegue. Non a caso a que gli autori rimandano alcuni dei saggi più penetranti che si alter nano in singolare contrappunto da parte dei due interlocutori: penso al grande lavoro lowithiano del 1932 su W eber e Marx (Lowith 1932), cui risponde, a quasi venti anni di distanza, The socia! sci.ence of Max Weber di Strauss (1951). Penso ai tanti, dif ferentemente calibrati, interventi heideggeriani di Lowith (1953) e alla lezione su Heidegger tenuta intorno al 1950 da Strauss a VIII __________ Introduzione __________ Chicago (1950a). Penso, soprattutto, a quella doppia recensione incrociata che nei primi anni trenta strappa il famoso ( e famige rato) saggio di Schmitt sul concetto di «politico» alla riflessione di maniera per consegnarlo, in tutto il suo ambiguo fascino, alla grande tradizione giuspubblicistica e politologica europea (Strauss 1932; Lowith 1935). Lo pseudonimo (Hugo Fiala, erroneamente attribuito a Lukacs) con il quale Lowith dovette pubblicare il suo articolo schmittiano ci richiama, infine, alle circostanze esterne - ma di certo penetrate nella mente e nella scrittura dei due autori - che non soltanto segnano dolorosamente quella stagione infelice, ma rimandano nell'insieme alla parola, maledetta per i più e san ta per i pochi da essa marchiati, che ne costituisce la cifra più in quietante: ebreo. Tutto in queste lettere dall' «altrove» sembra riportare ad essa. Dalle difficoltà editoriali - in particolare per l'Hobbes di Strauss (1936) e il Burckhardt di Lowith (1936) - a quelle professionali, economiche, logistiche. Dai piccoli oppor tunismi alle grandi viltà che punteggiano - e degradano - la vita non della sola Germania e che finiscono per spezzare il filo te nace della nostalgia, se non della memoria, di coloro che ne su biscono il peso schiacciante. La situazione di sospensione senti mentale tra il desiderio di ritorno e il rancore per una terra che rinnega Goethe e Hegel nel suo triste sogno di potenza. Da ulti mo, la convinzione irrimediabile che «la Germania non è il cuo re dell'Europa o della Cristianità, ma il punto focale della sua dissoluzione» (Lowith 1986, p. 177): ecco la catena di eventi materiali e traumi spirituali che finisce per scavare un abisso in valicabile tra ebrei e tedeschi cancellando appunto quell' «e» che ancora per Franz Rosenzweig costituisce il baricentro dell' esi stenza e «addirittura una necessità di fede» (ibid., p. 173). In questa condizione di scissione generalmente condivisa nel- 1' emigrazione ebraica - prima ancora che l'antisemitismo nazista rendesse palese il suo volto «finale» - si dipanano poi le storie personali, ognuna diversa dall'altra a seconda delle differenti mo dalità di rapporto con l'antica stella e della profondità di radica- IX

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