Che ne è stato della coscienza, dello sguardo, del sapere ecclesiali F FULVIO RAMPI U L sul canto gregoriano? Quanti sono disposti a considerarlo ancora V I O oggi il canto proprio della Chiesa? R La messa in discussione seria ed esplicita di una situazione per A M certi versi ambigua e di tutti i suoi luoghi comuni è solitamente P I classificata in modo sbrigativo come sospetta nostalgia verso DEL CANTO GREGORIANO concezioni liturgiche ormai superate. Questo libro, nato dalla volontà di dar credito schietto alle Dialoghi sul canto proprio della Chiesa dichiarazioni che la Chiesa, nostra madre e maestra, ci ha con serena fermezza consegnato nell’ultimo Concilio, vuole contribuire, senza alcuna vena polemica né antagonistica, a riscoprire la forza e il fascino di un canto che ha preso forma sulla Parola. Una forma D che si fa ritratto sonoro della Rivelazione che la Chiesa è da sempre E a cura di L chiamata a custodire, pensare, trasmettere. 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Dialoghi alla scoperta di un tesoro della Chiesa e per la Chiesa. Che ne è stato della coscienza, dello sguardo, del sapere ecclesiali sul canto gregoriano? Quanti sono disposti a considerarlo ancora oggi il canto proprio della Chiesa? La messa in discussione seria ed esplicita di una situazione per certi versi ambigua e di tutti i suoi luoghi comuni è solitamente classificata in modo sbrigativo come sospetta nostalgia verso concezioni liturgiche ormai superate. Questo libro, nato dalla volontà di dar credito schietto alle dichiarazioni che la Chiesa, nostra madre e maestra, ci ha con serena fermezza consegnato nell’ultimo Concilio, vuole contribuire, senza alcuna vena polemica né antagonistica, a riscoprire la forza e il fascino di un canto che ha preso forma sulla Parola. Una forma che si fa ritratto sonoro della Rivelazione che la Chiesa è da sempre chiamata a custodire, pensare, trasmettere. Proprio per questo motivo la riflessione sulla natura del canto gregoriano non solo non intende svicolare dal realismo dell’odierno problema pastorale rappresentato dal canto liturgico, ma si pone precisamente in tale prospettiva. Viene qui proposto un itinerario che non ha voluto ricalcare una trattazione manualistica di taglio specialistico, ma un dialogo tra credenti, curiosi su questo tema e incuriositi dalla sua emarginazione. Un itinerario originale di scoperta e di conoscenza che intende innanzitutto sollecitare nuove riflessioni in ambito ecclesiale, con la speranza che la Chiesa torni a parlare del “suo” canto gregoriano con nuova consapevolezza per tornare ad amarlo e per “riservargli il posto principale”. Fulvio Rampi DEL CANTO GREGORIANO Dialoghi sul canto proprio della Chiesa a cura di: Maurizio Cariani e Fabrizio Lonardi 272 p., brossura RE 10175 € 20,00 www.rugginenti.it Prologo <<Parola che fu rivolta a Geremia dal Signore nell’anno decimo di Sedecìa re di Giuda, cioè nell’anno decimo ottavo di Nabucodònosor. L’esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e il profeta Geremia era rinchiuso nell’atrio della prigione, nella reggia del re di Giuda, e ve lo aveva rinchiuso Sedecìa re di Giuda, dicendo: “Perché profetizzi con questa minaccia: Dice il Signore: Ecco metterò questa città in potere del re di Babilonia ed egli la occuperà; Sedecìa re di Giuda non scamperà dalle mani dei Caldei, ma sarà dato in mano del re di Babilonia e parlerà con lui faccia a faccia e si guarderanno negli occhi; egli condurrà Sedecìa in Babilonia dove egli resterà finché io non lo visiterò - oracolo del Signore - ; se combatterete contro i Caldei, non riuscirete a nulla”? Geremia disse: Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Ecco Canamèl, figlio di Sallùm tuo zio, viene da te per dirti: Comprati il mio campo, che si trova in Anatòt, perché a te spetta il diritto di riscatto per acquistarlo”. Venne dunque da me Canamèl, figlio di mio zio, secondo la parola del Signore, nell’atrio della prigione e mi disse: “Compra il mio campo che si trova in Anatòt, perché a te spetta il diritto di acquisto e a te tocca il riscatto. Compratelo! ”. Allora riconobbi che questa era la volontà del Signore e comprai il campo da Canamèl, figlio di mio zio, e gli pagai il prezzo: diciassette sicli d’argento>>. (Ger 32, 1 – 9). Iniziamo a ragionare di canto gregoriano nel segno della Parola. Non immaginiamo altra possibilità dopo aver deciso di lasciarci sedurre, come fu per Geremia, da una prospettiva di irresistibile forza. È insieme la forza e il fascino di un canto che ha preso forma sulla Parola e che di essa rappresenta il suono. È il ritratto sonoro della Rivelazione che la Chiesa è da sempre chiamata a custodire, pensare, trasmettere; e nella propria coscienza profonda la Chiesa da secoli e senza incertezze ‘sa’ che con il gregoriano tutto ciò è stato eseguito ‘in bella copia’. Senza firme di singoli autori, coniugando semplicità e complessità, in un linguaggio allusivo e simbolico di impensabile ricchezza e bellezza, il canto gregoriano, pur incarnato pienamente nella cultura medievale in cui ha preso forma, è stato da subito ‘sentito’ dalla Chiesa quale insigne paradigma dell’atteggiamento che essa universalmente reclama nei confronti del suo tesoro più caro, la Parola, appunto. La Parola e il suo primato: nell’insopprimibile anelito di fede verso di essa si forma la poderosa ragione teologico-musicale gregoriana. E con la Parola, inscindibilmente, la sua materialità – non meno sacra del significato – costituita da termini, sillabe, vocali, accenti; tutta quella sonorità con la quale la Parola si è storicamente e foneticamente incarnata è stata recepita e venerata da questo colossale evento ecclesiale plasmatosi nell’ombra dei secoli che noi oggi chiamiamo canto gregoriano. Precisamente nella prospettiva del testo quale nostro filo conduttore occorre mettersi. Da subito. E che c’entra questa Parola con l’itinerario di scoperta e conoscenza che qui iniziamo? Non perchè sia stato incluso nello sterminato repertorio gregoriano questo testo biblico è stato scelto. Nondimeno ha una profonda pertinenza. La compravendita del terreno in esso descritta appare a prima vista come un inspiegabile abbaglio, una clamorosa ingenuità. Che senso ha, infatti, comprare un terreno alla vigilia della catastrofe ormai inevitabile? Per di più l’introduzione del brano dimostra che Geremia è ben consapevole della situazione e del destino prossimo di Giuda e Gerusalemme. Ma precisamente nell’assurdità dell’atto sta la chiave del suo significato: nonostante tutto ciò che sta per succedere, la terra continua ad essere dei giudei, terra promessa ai patriarchi e posseduta per secoli. Si aggiunga che il profeta compra il terreno perchè esso resti in possesso della famiglia, come previsto dalla legislazione. Se qualcuno, infatti, si trovava costretto a vendere un terreno della proprietà ereditaria, toccava ad un altro membro della famiglia, secondo l’ordine stabilito, comprarlo o riscattarlo. Questo particolare imprime, così, all’atto di Geremia un significativo carattere di solidarietà familiare. Ebbene, l’atteggiamento di Geremia ben raffigura l’intendimento col quale ci siamo spinti su questo ‘terreno’ insidioso costituito oggi nella Chiesa dal canto gregoriano. Terra santa della musica liturgica, oggi pochi nella sua ‘famiglia’, sia tra i fedeli che tra i pastori, lo annoverano tra le proprietà ecclesiali per le quali sentirsi impegnati in operazioni di solidale riscatto. Assediato ormai da tempo da innovative istanze pastorali, con questa lenta agonia postconciliare che esso sta attraversando, segno incontrovertibile della propria appartenenza ad un orizzonte ormai chiusosi, questo vecchiume giungerà inevitabilmente alla caduta finale: questo è il tenore dei giudizi, siano essi considerati come pastorali, musicali, liturgici e quant’altro. Nessun futuro per il gregoriano in casa sua. Eppure la Chiesa, proprio in quello stesso Concilio Vaticano II al cui ‘spirito’ molti si appellano per motivare il menzionato definitivo superamento, ha ribadito nella ‘lettera’ che essa <<riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale>>. (Sacrosanctum Concilium, 116). Un inspiegabile abbaglio, una clamorosa ingenuità anche questa, dunque? Tanto più che al n. 117, con la stessa serena pacatezza, viene indicata la necessità di terminare l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano, anzi di preparare ‘un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X’. Non sembra una mens orientata alla smobilitazione, quella che qui traspare, piuttosto segnala una pacifica consapevolezza ed una tensione progettuale. Ci ha colpito questa dicotomia, macroscopica ma sottaciuta, quasi non abbia più alcun valore ormai rilevarla, tra tali affermazioni conciliari, peraltro ribadite e sviluppate in diverse occasioni dal Magistero successivo, e il sentire comune espresso dalla prassi e dalle concezioni liturgiche – maggioritarie, occorre a questo punto aggiungere – presenti oggi nella Chiesa. Che ne è stato della coscienza, dello sguardo, del sapere ecclesiali sul canto gregoriano? Perchè oggi ben pochi sono disposti a comprare questo campo, a riscattarne il futuro e a considerarlo ancora proprio nonostante quello che sembra stia per accadere? Da laici cresciuti sotto la provvidenziale guida del Concilio Vaticano II, da anni incontriamo corsi, pubblicazioni e ogni sorta di altri importanti contributi formativi in pertinente riferimento ai grandi temi riformulati da quel grandioso evento di grazia per il cattolicesimo contemporaneo: la Parola di Dio, la liturgia, il rapporto col mondo, l’ecumenismo e così via. Ma in tutto questo prezioso sviluppo della cultura teologica postconciliare troviamo noi, soprattutto nell’ambito della Parola di Dio e della liturgia, sia a livello specialistico che divulgativo, una preoccupazione significativa per insegnare, spiegare, trasmettere la ricchezza di questo tesoro che la Chiesa giudica a chiare lettere proprio? E nei seminari delle nostre diocesi, quanto è insegnato e imparato il canto gregoriano? Anche lì, come altrove, troviamo piuttosto approfondimenti sull’esegesi patristica, sulla storia dell’arte o su tanti altri pertinenti e bellissimi aspetti correlati. Ma, c’è da chiederci, come sia possibile che in ambito speculativo e formativo in rapporto alla Parola di Dio e alla liturgia, ampi settori della Chiesa dimentichino quasi sistematicamente quella parte di sé germinata rigogliosamente proprio dalla Parola e dalla liturgia, costituita dal canto gregoriano. La messa in discussione seria ed esplicita di questa situazione e di tutti i suoi luoghi comuni è solitamente classificata in modo sbrigativo come sospetta nostalgia verso concezioni liturgiche e visioni di Chiesa risalenti ai tempi preconciliari. Tutto ciò, oltre a fare poco onore agli artefici di questa curiosa trasformazione della questione, non contribuisce di certo a porla nei termini propri e ad affrontarla in modo ecclesiale. Nella Chiesa Cattolica, dopo questi quarant’anni in cui i più si sono sentiti autorizzati a non studiare, a non insegnare e a non cantare più il gregoriano, sono davvero pochi coloro che tra laici, pastori, liturgisti e musicisti oggi sanno realmente ciò di cui si parla quando si dice gregoriano. La maggior parte tra noi si basa spesso su una comprensione del canto gregoriano molto vaga, superficiale e soprattutto antistorica; possiede qualche conoscenza approssimativa che si rivela subito inadeguata, se non errata, qualche percezione del tutto fuorviante, molto lontana dalla vera essenza del canto gregoriano e qualche stereotipo prodotto dal tam-tam ecclesiale a sostegno della inconsistenza della questione che qui si vuole invece porre. Così ci siamo decisi: si va a discutere di gregoriano, a vederlo, a sentirlo, a capirlo, a interrogarlo. Ci informiamo, leggiamo, ascoltiamo, impariamo e ancora discutiamo su questa ‘cosa’ di cui s’è preferito tacere. Abbiamo così percorso questo itinerario, che non ha voluto ricalcare una trattazione manualistica, ma – finalmente – un dialogo tra credenti curiosi su questo tema e incuriositi dalla sua emarginazione. Un maestro, che ben volentieri ha raccolto la sfida indicando e consegnando il sorprendente splendore del canto della Tradizione, due discepoli inquieti e stupiti che si sono appassionati alla freschezza, alla attualità e alla grandiosità della ragione gregoriana. Insieme a scoprire e capire come il canto proprio della Chiesa non sia semplicemente ‘una’ delle tante forme musicali, seppur nobilissime, che la storia ci ha consegnato; come esso non abbia nulla a che fare con il tradizionalismo, ma lo contesti in radice; come nulla più del canto gregoriano possa promuovere un’autentica partecipazione attiva al culto divino, e così via. Di folgorazione in folgorazione. Questo libro, nato dalla volontà di dar credito schietto alle dichiarazioni che la Chiesa, nostra madre e maestra, ci ha con serena fermezza consegnato nel Concilio, vuole contribuire, senza alcuna vena polemica né antagonistica, a infrangere quella sorta di ‘tabù’ di cui s’è detto; e intende insinuare in molti altri, così come è stato per i due discepoli, la semplice curiosità sul canto gregoriano. Nell’attuale momento anche solo questo può bastare in vista di una consapevolezza nuova su questa testimonianza antica. L’obiettivo ultimo non può essere quello di riportare a tutti i costi e il più possibile il canto gregoriano nella nostra liturgia. L’obiettivo vero per la Chiesa è, come sempre, più profondo e più alto; quello di cambiare radicalmente il suo sguardo verso il canto gregoriano, tornare ad amarlo, considerarlo davvero suo con nuovi sentimenti, con occhio purificato e benevolo. Non importa poi in quale misura saremo in grado di tradurlo concretamente e con dignità in prassi liturgica, cosa quanto mai necessaria, sicuramente, ma non certo automatica. Ciò che importa davvero è che rinasca, rimanga e sia percepibile l’amore e il desiderio di una comunità che volentieri è portata a ‘riservargli il posto principale’, ben felice di prepararglielo con cura perché sa di rispondere, pur balbettando, ad un inesauribile dono. Geremia farà mettere il contratto di acquisto da lui firmato in una giara di coccio, <<perchè si conservi a lungo>>. L’effetto dell’acquisto del campo non è percepibile nell’immediatezza che, al contrario, relega la scelta del profeta nell’incongruenza e nell’inutilità; solo nell’orizzonte profetico può emergere da essa il senso compiuto. È un profetizzare nel vivo, non solo a parole e nemmeno con un’azione simbolica, ma con un atto reale, giuridico. Un atto che ‘significa’ il futuro perchè già lo sta anticipando, signum che ‘conserva a lungo’ la propria opacità. Comprare e conservare: così la Chiesa fa nei riguardi della propria realtà costitutiva. E non secondo valutazioni pragmatiche e congiunturali, ma nella virtù teologale della speranza e con la virtù cardinale della fortezza. Da sempre essa ‘sa’ di custodire tutto ciò che la riguarda e la trascende nella fragilità propria della condizione umana. Questo sapere ecclesiale riguarda anche il tesoro del suono della Parola, anche il canto gregoriano presenta questo marchio di origine che ci sorprende, che ci sovrasta e che ci inquieta. <<Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi>>. (2Cor 4, 7). Dialogo primo Alla ricerca Porre come punto di partenza delle nostre indagini la questione del che cosa sia il canto gregoriano mi appariva al principio o come semplicemente banale, o come una di quelle domande sui massimi sistemi che per vastità di implicazioni finisce coll’essere improduttiva. Ma ripensando a ciò che io per primo e per lungo tempo ho inteso per gregoriano, mi sono ricreduto e ho pensato di riproporla in termini nuovi. Per me, infatti, e senza dubbio anche per moltissimi altri credenti, l’immagine e le idee – ma, a posteriori, direi i pregiudizi – col tempo costruitisi a proposito di questa complessa realtà liturgico-musicale sono stati mediati sostanzialmente dall’ascolto di qualche brano che, a dispetto dell’abbandono quasi generalizzato del repertorio tradizionale, ha continuato a godere nelle nostre liturgie di una certa qual celebrità. A cominciare dall’onnipresente Alleluia, probabilmente la melodia emblematica del gregoriano nel cattolico medio contemporaneo assieme a quella del Salve Regina. Possiamo anche includere, forse con indici meno trionfali, l’Adoro Te devote o il Veni Creator; come pure le parti della Missa de Angelis. Sebbene si cominci a essere già troppo selettivi, io continuerei con la Missa cum Iubilo o la Novena di Natale. Ma pur aggiungendo a tutto ciò anche la diffusa ‘sensazione ecclesiale’ che il canto dei salmi e di qualche antifona abbiano a che vedere col gregoriano, ci rendiamo comunque conto che il significato del termine per tutti è ben poca cosa: qualche canto popolare, magari l’orazione in retto tono del celebrante con l’Amen dell’assemblea e nulla più. Ma è poca cosa in senso quantitativo, poichè in questa stagione ecclesiale il repertorio s’è notevolmente ridotto, oppure l’inadeguatezza attuale deve essere giudicata sotto altro profilo? E sarebbe a dire: è davvero questo il gregoriano? Ciò che continuiamo a cantare ha a che fare con ciò di cui vogliamo parlare tra noi? Oppure il gregoriano è altra cosa, è altrove? E se la nostra prassi liturgica non costituisse più de facto il luogo in cui reperire il canto della Tradizione ecclesiale, dove dovremmo andare a cercarlo de iure? Ecco il mio punto di partenza, che cos’è il canto gregoriano si precisa come: dov’è il canto gregoriano oggi nella Chiesa? Proseguo lungo la direttrice tracciata per determinare ulteriormente l’ambito di questo nostro primo approccio conoscitivo. Vedo bene se affermo che è la Chiesa stessa ad indicare i luoghi in cui essa raccoglie tutto ciò che ha chiamato e continua a chiamare canto gregoriano? Mi riferisco a ‘libri’ che sono senz’altro da definirsi come ‘liturgici’, visto che costituiscono l’autorevole indicazione esplicitamente e ripetutamente espressa dalla Chiesa laddove essa si è impegnata a spiegare e a regolare il cuore della propria liturgia, il sacrificio eucaristico. Nei Principi e norme per l’uso del Messale Romano, infatti, in corrispondenza a ciascuna delle parti della Messa, troviamo sempre due rimandi ben precisi quando vengono date indicazioni sul canto da eseguirsi. Nel capitolo II, intitolato “Struttura, elementi e parti della Messa”, al n. 26 viene precisato che per il canto dell’Introito <<si può utilizzare sia l’antifona con il suo canto, quale si trova nel Graduale Romanum o nel Graduale Simplex, oppure un altro canto adatto all’azione sacra, al carattere del giorno o del tempo, e il cui testo sia stato approvato dalla Conferenza Episcopale>>. Quanto ai canti tra le letture, il n. 36 stabilisce che <<oltre al salmo designato sul Lezionario, si può utilizzare o il graduale del Graduale Romanum, oppure un salmo responsoriale o alleluiatico del Graduale Simplex, così come sono indicati in tali libri>>; i versetti dell’Alleluia <<si scelgono dal Lezionario oppure dal Graduale>> e l’altro canto eseguito nel tempo quaresimale <<è costituito da un versetto prima del Vangelo, oppure da un altro salmo o tratto, come si trovano nel Lezionario o nel Graduale>> (n.37). Lo stesso dicasi sia per il canto d’offertorio, le cui norme <<sono le stesse del canto d’ingresso>> (n. 50), che per il canto di comunione, per il quale, secondo il n. 56, <<si può utilizzare o l’antifona del Graduale Romanum, con o senza salmo, o l’antifona col salmo del Graduale Simplex, oppure un altro canto adatto, approvato dalla Conferenza Episcopale>>. È pertanto il contenuto del Graduale Romanum e del Graduale Simplex il nostro oggetto di indagine, di conoscenza e di discussione? È proprio lì il gregoriano per chi lo cerca? Ragionare oggi di canto gregoriano significa, prima di ogni altra cosa, misurarsi con una convenzione terminologica che non dà ragione di un percorso evolutivo di enorme portata che ha attraversato i secoli. La suddetta domanda fa memoria di un ‘sentire comune’ lentamente maturato su un colossale equivoco; equivoco che ha finito per produrre valutazioni distorte e giudizi infondati, pur se tranquillamente accolti e nutriti segnatamente in ambito ecclesiale. Lo stereotipo che associa in modo totalmente improprio il canto gregoriano alla Missa de Angelis o al repertorio (tardivo) di pur apprezzabili brani popolari di impronta devozionale è segno eloquente di questo stesso equivoco. La ‘ricerca’ del canto gregoriano appare dunque la prima urgenza che interpella l’intera comunità ecclesiale: ciò a causa di una situazione talmente compromessa per cui, prima di tentare di dire qualcosa su cos’è il canto gregoriano, occorre identificare con precisione l’oggetto vero a cui indirizzare lo sguardo, evitando il troppo frequente e grossolano errore di definire canto gregoriano qualunque monodia liturgica ‘tradizionale’di sapore più o meno arcaico. Per incontrare il canto gregoriano occorre invece avvicinarsi a quel repertorio che mi premuro di connotare come ‘proprio’ – anche se al momento inevitabilmente sfuggirà il senso di tale precisazione – e che, per quanto riguarda la liturgia eucaristica, viene riportato, come s’era correttamente intuito, nel libro del Graduale; oltre ad esso, però, occorre menzionare anche l’Antifonale, che contiene il repertorio per la liturgia delle Ore. Il riferimento al Graduale Romanum e al Graduale Simplex è un primo punto fermo della nostra ricerca: da lì dobbiamo partire perché lì, come vedremo, troviamo il riflesso delle antiche testimonianze manoscritte che rappresentano a loro volta il vero punto di mira della nostra indagine. Per questo, come si dirà, il Graduale Romanum verrà considerato nella sua edizione arricchita dagli antichi segni manoscritti. Al già citato Graduale Simplex, pertanto, aggiungiamo – più che il Graduale Romanum – il Graduale Triplex. Questi sono i testi che costituiranno a suo tempo oggetto dei nostri dialoghi. Al momento l’importante è fissare che esattamente in questi ambiti dovremo muoverci per trovare, capire e imparare il canto gregoriano della Chiesa Cattolica di rito romano. Procediamo, dunque. Ciò che per noi, a questo punto, deve diventare profondamente significativo – e a tal punto da costituire proprio il tema di fondo del nostro primo dialogo – è la presa di coscienza che i libri del Graduale e dell’Antifonale, così come li leggiamo oggi, costituiscono l’esito di un lungo, sofferto, ma entusiasmante processo di ricerca che prese le mosse da una profonda inquietudine. Nella Francia della prima metà dell’Ottocento ci fu, infatti, qualcuno nella Chiesa che, di fronte a quella che al tempo era la condizione compromessa del canto liturgico, si pose in atteggiamento di paziente ma determinata ricerca. Sarebbe stato interessante anche iniziare la nostra trattazione, come peraltro si fa di solito, con un percorso storico cronologicamente ordinato che partisse dalle prime testimonianze manoscritte per giungere via via ai giorni nostri; ma capire da subito ciò che è successo dalla metà del sec. XIX costituisce, più che una introduzione al gregoriano, una introduzione nel gregoriano. Perchè la storia della ricerca del gregoriano autentico e della sua restaurazione ha fornito al contempo gli elementi fondamentali necessari al processo di comprensione della sua anima profonda. Qui la storia è divenuta davvero maestra evidenziando le chiavi di accesso e le infrastrutture di questo monumento ereditato in stato di grave degrado. Più che conoscere, è cruciale anzitutto comprendere il gregoriano. Comprendere cos’è il gregoriano, siamo proprio alla formulazione di partenza. E perseguiamo questo intendimento seguendo una vicenda sorta da esigenze storiche ed ecclesiali rappresentabili benissimo dall’interrogativo che mi è stato posto: dov’è il gregoriano? L’intuizione di dover andare oltre la prassi liturgica dell’epoca al fine di potersi porre alla ricerca del gregoriano autentico si sviluppò in Francia in concomitanza con due importanti avvenimenti ecclesiali; la rinascita dell’ordine benedettino a seguito della sua dissoluzione avvenuta in epoca rivoluzionaria, e il ripristino della liturgia romana, quest’ultima frammentata dal fenomeno del Gallicanesimo che aveva portato l’episcopato francese a ottenere una pronunciata autonomia da Roma non solo in campo dottrinale, ma anche nella pratica liturgica, al punto che s’era raggiunto un frazionamento liturgico tale per cui ogni diocesi aveva i propri libri di canto e di rito liturgico. Basti pensare che al concilio provinciale di Reims nel 1849, non potendosi celebrare insieme neppure un’ora canonica del giorno, perché testi e musiche cui i vescovi partecipanti facevano riferimento erano completamente diversi, venne composta proprio per l’occasione la Messa De Spiritu Sancto, così che almeno si riuscisse a cantare tutti insieme. Pioniere di questa straordinaria opera che convenzionalmente va ormai sotto la denominazione di ‘Restaurazione gregoriana’, grazie alla quale vien posta la parola fine a secoli di lenta ma inarrestabile decadenza del canto liturgico, è un monaco benedettino, dom Prosper Guéranger. Nel 1833 egli ripristina la vita monastica sotto la Regola di san Benedetto a Solesmes, nel nord ovest della Francia, con l’intento di “cercare dovunque ciò che si pensava, ciò che si faceva, ciò che si amava nella Chiesa nelle età della fede” (NOTA 1). La volontà di recuperare in radice ciò che si era perduto lo spinge a concentrarsi sulla liturgia, centro della vita monastica, e in particolare sul canto gregoriano, considerato il simbolo di un’unità liturgica a quel tempo compromessa. L’attività di dom Guéranger è da subito frenetica: in quello stesso anno ordina l’acquisto di quattro Graduali, quattro Antifonari e quattro Processionali in una delle numerosissime edizioni che circolavano nelle varie diocesi di Francia. Nel 1840 pubblica le Institutions Liturgiques trattando del ripristino della liturgia romana in Francia, opera a cui fa seguito, nel 1843 sulla rivista Univers, un articolo molto importante nel quale sono enucleati i due principi fondamentali da lui posti quali basi per il recupero del canto gregoriano: il testo e la melodia. Il primo passo verso la restaurazione avviene dunque nella direzione del testo ricondotto alla sua integrità romana, ossia del testo restituito alla sua pronuncia autentica e tradizionale, che è quella della liturgia di Roma. L’attenzione al fatto testuale porta subito, quasi naturalmente, al recupero dell’accentuazione corretta delle parole, alla ricerca del fraseggio chiaro e pulito nella sua periodizzazione. Da quel momento, dunque, il coro di Solesmes diviene incapace di ‘dire male’ un testo nella sua materialità; ma è importante notare quanto, qualche decennio più tardi, un altro grande protagonista di cui parleremo, dom Pothier, testimonierà. Per lui fu una rivelazione vedere come l’illustre abate, dom Guéranger, fosse stato in grado di dare alle melodie gregoriane dell’epoca un volto che nessuno poteva immaginare: risultava, così, già allora evidente come spesso sia sufficiente ridare al testo la sua vera forma, perché le melodie ne escano trasfigurate. Per la verità dom Guéranger non trascura nemmeno l’aspetto melodico del canto gregoriano, ma non riesce a raggiungere alcun risultato pratico per mancanza di strumenti e di conoscenze adeguate. Nei suoi scritti però indica già l’esigenza di una restituzione melodica gregoriana autentica, attraverso un confronto dei ‘manoscritti’ più antichi delle diverse ‘chiese’, come lui chiama le diverse scuole di notazione attestate dalle fonti più antiche del canto gregoriano – e che noi analizzeremo più avanti. Al fine di ritrovare, appunto, la versione primitiva. L’insufficienza di strumenti atti a recuperare la melodia e a decifrare quei particolari segni – detti neumi – riportati sui manoscritti, portò gli studiosi ad incappare anche in errori grossolani. È celebre la storia di Lambillotte che nel 1851, ritrovato il Cantatorium, prezioso manoscritto dei canti solistici del monastero di San Gallo, l’attribuì nientemeno che a papa san Gregorio. Errore analogo a quello in cui cadde un altro studioso dell’epoca, D’Anjou, che spacciò il Tonario di Montpellier per l’originale autentico di san Gregorio. Solo uno studioso, de Coussemaker, riuscì a intuire che tutti quei segni, così strettamente associati al testo, potevano avere una derivazione dagli accenti grammaticali del testo stesso. Quindi il primo sforzo si attua in una precisa direzione, la giusta direzione, dobbiamo dire: il primato del testo rispetto alla melodia. Perchè il gregoriano ‘è avvenuto’ proprio qui e proprio così, alla sua radice c’è un testo – non una melodia. Potremmo dire che esso è anzitutto un evento verbale prima ancora che musicale? Io penso di sì; sorge e si forma sulle esigenze dei vocaboli da pronunciare, della materia fonetica da emettere, della Parola da proclamare. Proprio così, l’approccio al canto gregoriano è anzitutto incontro con il testo ‘da dire’ col canto. Resta pur sempre un ‘dire’, quel canto; è la forma con la quale si intende proclamare ciò che sta a cuore, il testo liturgico o scritturistico. E quindi ogni attenzione va da subito al testo e a tutto ciò che esso reclama, dalla pronuncia, all’accentuazione, all’articolazione del fraseggio. Credo che il coro di Solesmes, a chi come noi s’è messo alla ricerca del gregoriano e della sua identità, abbia insegnato questa verità per nulla scontata. Porrei tutto ciò come un primo punto fermo nella nostra indagine storica. Che però deve proseguire nell’individuare, al di là dei primi insuccessi menzionati, i risultati positivi guadagnati nell’ambito della restaurazione della melodia. È nel 1851 che, per la prima volta, si assiste ad un tentativo di ricostruzione melodica secondo la tradizione antica. Si tratta della pubblicazione dell’edizione Remo-Cambrense, commissionata dai Vescovi di Reims e Cambrai accordatisi per pubblicare un’edizione comune di canto liturgico. L’aspetto fondamentale di questa edizione consiste nel basarsi, per la ricostruzione melodica, proprio sul Tonario di Montpellier sopra citato e scoperto nel 1847 da d’Anjou: si tratta di un codice che riporta sia la notazione con neumi, sia la notazione cosiddetta alfabetica e che pertanto consente di ricostruire perfettamente la versione melodica. Ma a raccogliere per primo l’eredità di dom Guéranger e a darle una base teorica, fu Augustin Gontier. Egli, che non era un monaco benedettino ma un canonico, dopo essere rimasto