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Dante e Manzoni. Studi e letture PDF

106 Pages·2009·3.899 MB·Italian
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Mappe/Letteratura collana di studi e testi diretta da Sebastiano Martelli 2 Arnaldo Di Benedetto DANTE E MANZONI studi e letture Terza edizione riveduta e accresciuta LAVEGLIA&CARLONE a Sir Ernst H. Gombrich, in rispettoso omaggio, con gratitudine. 3a edizione © 2009 by LAVEGLIACARLONE s.a.s. Via Guicciardini, 31 - 84091 Battipaglia tel/fax 0828.342527; e-mail: [email protected] sito internet: www.lavegliacarlone.it Riservati tutti i diritti, anche di traduzione, in Italia e all’estero. Nessuna parte può essere riprodotta (fotocopia, microfilm o altro mezzo) senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Stampato nel mese di settembre 2009 da Universal Book - Rende (CS) DANTE Our peace in His will... T. S. Eliot,Ash-Wednesday, VI AVVERTENZA ALLA TERZA EDIZIONE Questa nuova edizione di Dante e Manzoni ripropone la pre­ cedente edizione del 1999 (la prima è del 1987), con alcuni ritocchi e integrazioni, e con l’aggiunta di due nuovi studi: Il primo canto del «Paradiso» e Alessandro Manzoni storico della Rivolu­ zione francese. Indispensabile, fra l’altro, un intervento su Man­ zoni europeo, dopo la dimostrazione dell’improbabilità delTattri- buzione a E. A. Poe della recensione ai Promessi Sposi pubblica­ ta nel 1835, sulla quale molto si è fantasticato. La dedica a Gombrich è diventata ahimè, una dedica alla me­ moria del grande critico. a. d. b. Pietra Ligure, marzo 2009 DANTE, GERÌ DEL BELLO E GLI ALCHIMISTI {Inferno, XXIX) 1. Il canto XXVIII àeXYInferno era occupato per intero da «quei che scommettendo acquistan carco» b dai «seminator di scandalo e di scisma», come li ha definiti il primo dei dannati presentati da Dante, Maometto. Si trattava d’un canto che quasi rispettava la corrispondenza che era nei probabili propositi, poi non mantenuti, di Dante allorché intraprese la composizione del- VInferno: la corrispondenza, dico, tra la raffigurazione di ciascu­ na colpa punita e la sezione formale del canto. E un fatto che dal III al VI canto tale corrispondenza era rispettata. Della materia, quasi esaurita, del XXVIII era rimasto, per dir così, un residuo, ed è esso che invade i primi 36 versi del XXIX. Dopo di che si passa alla bolgia successiva (la decima), a altra colpa, altri puniti - con un séguito per tutto il XXX. Canto «di transizione» (come talora s’è detto di altri), il XXIX? Anche; e purché non si calchi troppo sull’intento diminutivo della qualificazione. Esso può essere suddiviso in due parti, tra loro asimmetriche: dal v. 1 al v. 36 (ancora i seminatori di discordia); e dal v. 37 alla fine (i falsatori, anzi il sottogruppo dei falsatori di metallo). Karl Vossler nel monumentale studio dedicato al poema dantesco, e Umberto Bosco nell’edizione della Commedia annotata da G. Reggio (Firen­ ze, Le Monnier), trattano separatamente delle due parti, privilegian­ do la suddivisione delle bolge sulla misura del canto; di cui negano così, implicitamente, l’unità. Negare l’unità del canto non equivale a dame una valutazione negativa, ma comporta solo un rinvio al più ampio organismo poematico. D’altra parte, come vedremo, la pau­ sa tra il XXVm e il XXIX segna un mutamento di prospettiva. Manca al canto un protagonista di forte rilievo. Il successivo sarà dominato dalla coppia maestro Adamo/Sinone. E quanto al 'XXVll, v. 136. - La Commedia sarà sempre citata secondo il testo dell’«antica vulgata» fissato da Giorgio Petrocchi (Milano, Mondadori, 1966-67). 10 Dante Dante, Gerì del Bello e gli alchimisti 11 precedente, la rassegna dei personaggi (molto varia nei toni) s’era Isaia, XVI, 9 e XXXIV, 7; ma anche come il pane «innebriato [...] spiegata in prevalenza tra figure illustri o almeno partecipi della dell’olore che n’uscia» d’un celebre luogo del Novellino3) e «va­ “grande” storia: Maometto, Ali (i responsabili di quello che si ghi» di piangere (come nell’incipit d’un sonetto politico dello stes­ considerava lo «scisma» islamico), Curione (l’autore del fatale so Dante), del pellegrino che va attuando la propria salvazione consiglio a Cesare), Mosca de’ Lamberti (a cui s’attribuiva nien­ attraverso la conoscenza dell’umanità stravolta dalle passioni per­ temeno che la responsabilità della divisione tra guelfi e ghibellini in verse. Firenze); fino al culmine conclusivo dell’«orrore» e della Una pietà che a qualche commentatore (non è un caso che si «maraviglia» (per dirla col De Sanctis del saggio su Ugolino), e tratti del razionalista, e talvolta dottrinariamente razionalista, cioè del sublime, di Bertrand de Bom: Bertrand - la cui poesia è Castelvetro) parve «strana»: strana, com’è evidente, dopo ram­ una guida artistica, taciuta ma allusa, alla testura del XXVIII - è mollimento di Virgilio nel XX a interdire la pietà verso i dannati anzi ritenuto degno di nuova menzione nel XXIX (w. 28-30). Tra deH’Infemo infimo: «Qui vive la pietà quand’è ben morta». Strana esse aveva peraltro trovato posto un seminatore di meno illustri non solo, ma recidiva la pietà di Dante; perché ritorna, nel mede­ discordie, Pier da Medicina, elevato al livello degli altri solo in virtù simo XXIX, allorché giungono alle sue orecchie i lamenti della della poesia dantesca. decima bolgia. Occorre però precisare che, se precedentemente L’esordio del XXIX richiama in forma abbreviata quello del essa ha avuto per oggetto singoli dannati (Francesca, Ciacco o XXVIII. Ancora una volta Dante sottolinea la quantità dei dannati Pier della Vigna), in Malebolge la pietà, quando si manifesta, (direi quasi, adattando la locuzione di Agostino, la massa damnata) riguarda il genere della pena inflitta e i dannati in quanto forme e l’orrore della pena inflitta: umane dolenti: siano essi gli indovini, o i seminatori di scisma o discordia, o i falsatori. (Un’eccezione è Gerì; al quale Dante è La molta gente e le diverse piaghe... «pio» per via della parentela). E fra i traditori la pietà così esplicita - Noto, in margine, come gente compaia spesso nella Com­ verso Ugolino toccherà la vittima della ferocia dell’arcivescovo media in identica sede ritmica2; d’altra parte il verso, per la Ruggieri, e in nessun modo la sua dannazione oltremondana. D’al­ struttura binaria e per alcune parentele d’ordine timbrico e ritmi­ tra parte Dante si mostrerà buon pupillo di Virgilio quando co, richiama «La gente nova e i subiti guadagni» del XVI -. impietosamente negherà a frate Alberigo il conforto richiesto («E Circa gli esordi dei due canti contigui, non manca nemmeno io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano»). qualche relazione lessicale: piaghe (XXVIII, v. 2; XXIX, v. 1); Virgilio interviene per rimproverare a Dante non solo la sua mozzo (XXVIII, v. 19) e smozzicate (XXIX, v. 6), entrambi in commozione che lo spingerebbe alle lacrime, ma anche l’eccessi­ rima. Ma c’è in più, qui, la nota pietosa degli occhi «inebriati», vo indugio. Virgilio è qui, annota Jacopo della Lana, «l’umana impregnati di pianto (sì, come i biblici «inebriabo te lacryma mea correczione»; la ragione normativa e simili, potremmo anche dire. Hesebon, et Eleale» o «inebriabitur terra eorum sanguine» di Vero. Ma Virgilio, l’allegorico Virgilio della Commedia, vive an­ che come personaggio; e la componente allegorica non indeboli­ 2 Ad esempio: «e molte genti fé già viver grame»; «però che gente di sce, anzi intensifica l’efficacia del personaggio, il quale a sua volta molto valore»; «ch’orrevol gente possedea quel loco»; «sovra la gente non contraddice all’allegoria. Qualcosa di simile osservò Ezra che quivi è sommersa»; «Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa»; «per ch’una gente impera e l’altra langue»; «Io vidi gente sotto inflno al ciglio»; «sovr’una gente che ’nfìno a la gola»; «Poi vidi gente che di 3 N. Tommaseo (nel commento dantesco) annotava il vocabolo come fuor del rio»; «e vidi gente per lo vallon tondo»; «e molta gente per non modo ancor vivo in Toscana. Impossibile quindi parlare di fonte stretta- esser ria?», ecc. ecc. mente scritturale. Dante, Gerì del Bello e gli alchimisti 13 12 Dante Unita all ’ indicazione oraria è Γ indicazione della misura della Pound allorché affermò: «Il dialogo di Dante è, in un certo senso, nona bolgia: «pensa [...] / che miglia ventidue la valle volge». Que­ simbolico, ha un compito simile a quello che ha in Platone; e, sto e l’altro del canto XXX, w. 86-87, sono gli unici luoghi in cui tuttavia, sia l’uno che l’altro ci danno veramente l’impressione di sia data qualche misura dell’Infemo. S’èpreteso talvolta, su tali persone che parlino». indizi, di ricostruire le misure dell’intero «sito» infernale. Ma quel Il richiamo della guida vale a rammentare a Dante la sua miglia ventidue ha un valore enfatico (in un verso dove 1 ’ enfasi è condizione di pellegrino - pellegrino letterale e allegorico, secondo anche rafforzata dall’allitterazione: «Ventidue la Valle Volge») ben quello che è un modello fondamentale della concezione e talora più che puntualizzatore. della stessa prassi cristiana (e non solo cristiana): si pensi ai pellegrinaggi d’un tempo (che erano pellegrinaggi reali e simboli­ 2. Tutto l’episodio della prima parte del XXIX può essere ci) o agli anonimi Racconti d’un pellegrino russo, lo splendido interpretato come un caso di racconto «dialogico» in un organismo testo mistico del XIX secolo. Un richiamo alla situazione struttu­ narrativo che parrebbe invece, di primo acchito, «monologico». rale del viaggio - oltre che al simbolo della Pasqua imminente, a Sorge infatti un dissidio tra Dante personaggio e la sua guida, in cui tende il viaggio infernale - è anche l’avvertimento dell’ora da cui entrambe le voci hanno le loro ragioni e quindi non pervengono parte di Virgilio («E già la luna è sotto i nostri piedi», indicazione a sopraffarsi, pur nella sottomissione pratica del pellegrino alla sua notturna - per Dante è invece il primissimo pomeriggio - che guida- il dialogo infatti avviene durante il tragitto, appunto solleci­ s’intona all’invenzione, anch’essa per dir così archetipica, delle tato da Virgilio, verso la decima bolgia. Aggiungerò di più. Se si tenebre infernali). dovesse prender per buona - io la prendo per fondamentalmente Esso contribuisce inoltre al forte contrasto tra la temporalità di buona, pur usandone, come si deve, alquanto liberamente - la Dante (giacché l’unico destinatario possibile, e non solo quindi di distinzione posta da Hugo Friedrich5 tra Dante poeta e Dante fatto, della puntualizzazione cronometrica è Dante) e la fissità senza personaggio, tra un Dante che sa ormai «tutto» e racconta e un tempo in cui si trovano le anime dannate, e tra il processo di re­ Dante meno savio che si va istruendo e redimendo nel corso del denzione in atto nel vivo e l’irreparabile della condizione infernale. viaggio raccontato, Virgilio sarebbe anche portavoce di quel Dan­ Quanto poi alla presenza di simboli religiosi primordiali (giudaico- te più savio. cristiani, ma non solo giudaico-cristiani) m\Y Inferno, ricordo an­ Il dissidio tra i due personaggi ha per oggetto Gerì del Bello, cora ad esempio quello del «sonno» iniziale (I, w. 11-12) - che morto ammazzato e ancora, nel 1300, invendicato. Ho parlato, implica, per sottinteso, l’altro del «risveglio», simbolismo iniziatico iniziando questa conversazione, d’un «residuo» della materia del presente anche in s. Paolo -, e quello della «rinascita»: il passag­ canto precedente che si espande nel XXIX. Anche Gerì è tra i gio dalle tenebre all’alba (altro simbolo religioso di rinnovamento) seminatori di zizzania. Ma non è meno vero che, passando al avviene attraverso una caverna, la «naturai burella», che sfocia in XXIX, si ha (come ho anticipato) un mutamento di prospettiva un «pertugio» da cui si esce alla luce: quella del pellegrino è vera­ mente una seconda nascita4. (Uno stadio ulteriore, quello dell’estasi mistica, è descritto nel Paradiso in termini di metamorfosi). processo che conduce all’estasi: le è affine la nigredo alchemica. Bona­ ventura da Bagnoregio parla nel De triplici via di un sopor pacis, e riprende neìV Itinerarium la metafora della «tenebra» luminosa, che 4 Una proprietà dei simboli è quella d’essere spesso ambivalenti. toma anche in Giovanni della Croce. Nello Pseudo-Dionigi della Teologia mistica la tenebra (tenebra lumino­ 5 H. Friedrich, Die Rechtsmetaphysik der Gòttlichen Komòdie. sa) è il luogo in cui si compie l’unione con Dio; la noche oscura di Francesca da Rimini, Frankfurt/M., Das Abendland, 1942. Giovanni della Croce, pur nella sua negatività, è anche un grado del 14 Dante Dante, Gerì del Bello e gli alchimisti 15 rispetto al canto XXVIII. Dante non descrive, né fa descrivere da ta degli Amidei contro Buondelmonte, per cui Mosca de’ Lamberti Virgilio che parla, la mutilazione o lo squarcio inflitto a questo suo è dannato nella nona bolgia, è definita «giusto disdegno» nel XVI secondo cugino. Di lui noi veniamo a conoscere solo il gesto del Paradiso (U. Bosco). intimidatorio all’indirizzo del parente. La vita artistica di Gerì è Lo stesso Dante aveva in precedenza sentenziato, chiudendo tutta in rapporto al tema e al problema personale del poeta, paren­ la «petrosa» Così nel mio parlar, «ché bell’onor s’acquista in far te d’una vittima da vendicare (la Commedia, tra l’altro, è anche vendetta» - ma non scinderei troppo l’epifonema dal contesto, un’autoapologia dell’autore). Dante ne parla qui: ne avrebbe par­ che è quello di una poesia amorosa, per dir così, a dispetto, una lato altrove? Se Gerì si fosse segnalato, che so, come sodomita ne poetica vendetta. avrebbe trattato nel XV o nel XVI canto? Certo non si può non E non va sottovalutata Γ allusione d’un sonetto di Forese Donati notare la pertinenza del tema della vendetta privata a quello dello {Ben so che fosti) a una «vendetta» familiare non compiuta da «scandalo»; e che fra discordie familiari e civili (spesso così con­ Dante, il quale è accusato di viltà. Ciò proverebbe una sua non re­ giunte) hanno già introdotto il lettore, nel canto precedente, i per­ cente riluttanza verso quella pratica sociale, che del resto incontra­ sonaggi di Mosca e di Pier da Medicina. Un caso evidente di va anche opposizioni: il citato Francesco da Barberino la chiama relazione tra «struttura» e «poesia». «VÌ90»; note di riprovazione si colgono tra i commenti trecenteschi. La vendetta è espressamente condannata nelVEcclesiastico Quel che conta è che la risolutezza con cui Virgilio distoglie, nel o Siracide. Nondimeno s’è soliti ricordare come l’esercizio della XXIX dell ’Inferno, Dante dal prestare attenzione al rimprovero di vendetta privata fosse pratica normale ai tempi di Dante. Stando a Gerì vale come una condanna di essa. Dante riconosce le ragioni qualche commentatore antico della Commedia (Benvenuto da del parente (ragioni radicate nell ’ uso), e ciò lo fa «più pio» a lui. Per Imola), e a qualche antico scrittore (Francesco da Barberino6), si tale pietà egli non rinuncia a comprendere Gerì e a giustificare sé trattava d’una pratica propria in particolar modo dei fiorentini o stesso con la sua guida. Dante poeta sta qui con Dante personaggio dei toscani. Su ciò ho qualche dubbio. (passionalmente, ma non dottrinalmente perplesso7) e con Virgilio. Si citano, opportunamente, testi come il Tesoro e il Tesoretto Gerì Alighiero sarebbe stato - così asserisce l’Ottimo Com­ di Brunetto Latini, in cui la vendetta privata è raccomandata («ma mento-, oltre che «scommettitore», anche «falsificatore di mone­ pur, come che vada / la cosa, lenta o ratta, / sia la vendetta fatta»). ta». Se fosse vera Γ antica informazione, il personaggio ben si pre­ Gli stessi Statuti fiorentini, e chissà quanti altri, la tolleravano e sterebbe a far da cerniera tra la nona e la decima bolgia. Ma nulla ci anzi la regolamentavano: con scarso successo, pare. Di vendette assicura della veridicità dell’annotatore fiorentino. attuate o tentate parlano i cronisti del tempo. Opportunamente si ricorda inoltre che vendetta nel linguaggio 3. Siamo giunti tra i falsatori; più precisamente, tra i falsatori della Commedia è anche sinonimo di ‘giustizia’ (e con tale parola di metalli, o alchimisti, sfigurati dalla scabbia o dalla lebbra: si s’alterna): «la divina vendetta», «O divina vendetta», «Segnor, parla, infatti, dapprima di scabbia (v. 82); ma poi Capocchio è fammi vendetta», ecc.: ciò corrisponde all’uso biblico, attestato designato come «l’altro lebbroso» (v. 124). Chiaro il contrap­ ancora nel Conte di Carmagnola di Manzoni. Il contrappasso passo, non la malattia. osserva pur sempre lo schema della vendetta - non diversamente, del resto, dalla concezione giuridica del tempo. E la stessa vendet­ 7 Di una «incertezza, una perplessità tutte umane» ha discorso (e mi 6 / documenti d'Amore, a cura di F. Egidi, I, 24, risi, anastatica, Mila­ trovo d’accordo con lui) G. Mariani, Dante tra vendetta e pietà, in La no, Archè, 1982, voi. 1, pp. 318-21. vita sospesa, Napoli, Liguori, 1978, p. 17. 16 Dante Dante, Gerì del Bello e gli alchimisti 17 Stando all’Ottimo Commento, seguito da Niccolò Tommaseo Quindi scabbia indicherebbe, ancora vicina al significato più e da altri, si tratterebbe qui dell’alchimia illecita, accanto alla quale generico della parola («a corporis asperitate», dice lo stesso Isidoro Tommaso d’Aquino ne poneva una invece lecita. Si sa peraltro [Etym., XIV, viij, 28]), l’aspetto delle pelli scabre: pustolose e che una bolla di Giovanni XXII (del 1317 circa) incolpava pruriginose, qui; mentre in Purg., ΧΧΙΠ, le pelli, troppo secche, si indiscriminatamente gli alchimisti «de crimine falsi»8. Esisteva nel sfogliano. tempo una linea di condanna tout court dell’ alchimia9. Certo non v’è traccia di discriminazione nel testo dantesco, che pertanto non 4. Toma, in questa seconda parte del canto, il motivo della sembra adeguarsi alla dottrina delTAquinate. pietà per l’assieme dei dannati: «lamenti saettaron me diversi, / Quanto alla malattia - è scabbia o lebbra? Scabbia compare che di pietà ferrati avean gli strali; / ond’io li orecchi con le man anche in Purg.,XXIII, e lì sicuramente non si tratta di scabbia in copersi». Ma in pietà (come suggerisce lo stesso gesto del senso stretto. E attestato quindi, nella Commedia, un uso non personaggio) sembra presente anche l’accezione, viva nella lin­ tecnico del termine. gua del tempo, di ‘angoscia’ (cfr. il sonetto dantesco Se vedi li Scabbia e lebbra erano inoltre accomunate dalla sintomatologia occhi miei, v. 2). L’angoscia dei dannati si trasmette a chi ne del tempo. Comuni a entrambe sarebbero, secondo Isidoro da ode i lamenti. Siviglia, «asperitas cutis cum pruritu» e «squamatio»: la scabbia Il nuovo episodio s’inaugura con un paragone (ipotetico e non sarebbe quasi una forma più blanda di lebbra (Etym., IV, viij, classicistico: «Qual dolor fora, se de li spedali») formalmente 10)10 11. Ancora in Isidoro si legge, in altro luogo: «Leprosus a parallelo a quello che introduceva, nel canto precedente, alla nona pruritu nimio ipsius scabiae dictus» {Etym., X, 162). bolgia. A esso ne segue, pochi versi oltre, un secondo. Al solito, Se poi guardo alcune miniature trecentesche a illustrazione di Dante non esita a contaminare àmbiti diversi. Se infatti il primo è questa parte del canto, noto che le chiazze di cui i dannati son ricavato da una realtà umile, attuale, e in parte anche familiarmen­ coperti sono identiche a quelle, per esempio, delle due raffigurazioni te vicina (almeno quanto ai malarici della Valdichiana e della delle guarigioni del lebbroso e dei dieci lebbrosi nei mosaici del Maremma), l’altro (la peste d’Egina) proviene dal mondo del mito duomo di Monreale. Il «puzzo» era inoltre ritenuto caratteristico e della letteratura - Ovidio. Un Ovidio a cui Dante ha già attinto della lebbra11. Opto, non senza incertezza, per la lebbra. nel Convivio (IV, xxvij, 7), e qui ripreso in forma estremamente abbreviata e libera: non è in Ovidio il particolare del «picciol vermo»; e quanto al linguaggio, scarseggiano quei precisi calchi 8 G Contini, Sul XXX dell ’«Inferno», in Varianti e altra linguistica, lessicali altrove invece non sdegnati. Più aveva nell’orecchio, Torino, Einaudi, 1970, p. 450, nota 2. Dante, proprio il precedente prosastico del trattato; lo provano le 9 Cfr. in C. Davanzati, Rime, edizione critica con commento e glossa­ rio a cura di Aldo Menichetti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, concordanze: popolo', aere (non gli Austri d’Ovidio12); ristoro, 1965, la nota 9 a p. 273 (dove sono citati Bonagiunta Orbicciani e Gonella ristorato (nel nostro canto: «si ristorar»), 11 linguaggio del modello degli Anterminelli). latino influisce piuttosto fuori del paragone, nella descrizione degli 10Citato da U. Bosco sotto la voce Lebbra dell’Enciclopedia enti paragonati: in quel «languir li spirti» (v. 66) che riprende dantesca. 1 ’ovidiano «Omnia languor habet» {Met., VII, v. 547); e magari 11 Cfr. su questo punto U. Bosco, voce Lebbra, cit. - (Quanto, anco­ nel verbo giaceva (v. 68): in Ovidio, «corpora foeda iacent» (v. ra, ai mosaici di Monreale, la Guarigione dell’idropico visualizza lo stes­ so male di maestro Adamo - e sia per l’idropico di Monreale sia per quello della decima bolgia si è parlato anche, per vie indipendenti, e non so quanto a ragione, di cirrosi epatica). 12«letiferis calidi spirarunt flatibus Austri» (Met., VII, v. 532). 18 Dante Dante, Gerì del Bello e gli alchimisti 19 548). La stessa sensazione peraltro clinica del puzzo compare, in gio o a quel commento, mi limito a citare le allitterazioni, quasi evidenza, nel latino: «vitiantur odoribus aurae» (v. 548). iperboliche, unite all’assonanza, dei w. 82-83: I due paragoni introducono al carattere del racconto che e Sì traevan giù l’unghie la SCAbbia segue. Nel primo, con la pietà, nella nota olfattiva messa in Come COltel di SCArdova le SCAglie15, evidenza («e tal puzzo n’usciva») convive un’innegabile ripu­ gnanza, non certo nuova del resto in Malebolge. Il secondo con, fra l’altro, relazioni timbriche col più lontano «SCHiAnze» e allontana colla sua preziosità la materia trattata. I successivi col più vicino «SoCCorSo». paragoni si mantengono tutti sul registro umile, ormai però deci­ Una volta di più bisogna registrare come in Dante (lontano in samente degradante: già la metafora delle biche (della rima ciò da Petrarca) la rima sia spesso un incentivo aH’invenzione formiche:biche si ricorderà Montale - dopo A. Boito - negli linguistica. «Non si franga / lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello»; Ossi) rientra in questo àmbito; maestro Griffolino d’Arezzo e il chiostra, che qui (non così altrove) produce il coerente e conse­ probabilmente fiorentino Capocchio sono poi comparati a due guente conversi; strali (i lamenti-strali); registra (nel libro della teglie, a un mozzo di stalla e a uno stalliere nell’atto di strigliare vera Giustizia)16; biche (i dannati-biche); ti dismaglie (dalle ma­ frettolosamente i cavalli (e i dannati, oltre che strigliatoli, sono glie dell’armatura); tanaglie; scimia-son tutte metafore in rima. anche strigliati e quindi assimilati a cavalli); e il lavorìo delle loro Discorso analogo va fatto per i paragoni, dove in rima sono spesso unghie, messo in vistoso, espressionistico primo piano13, è acco­ le parole fondamentali: spedali; malizia; tegghia; stregghia; stato a quello d’un coltello che tolga le scaglie da un pesce (e i vegghia; scaglie. E le rime non sono solo rare; molti degli effetti dannati sono così, in analogia coi paragoni precedenti, cuoco e consonantici che animano il canto sono in rima: tegghia:streg- pesce insieme: ambiguità alla W. Empson). Con quest’ultimo ghiawegghia; Stricca:ricca:s ’appicca (un caso di rima... ricca); paragone entriamo nel mondo culinario evocato poi direttamente occhio'.Capocchio'.adocchio. da Capocchio nella persona di Niccolò de’ Salimbeni; cioè in Divertimento linguistico, «commedia» (se così piace) e anche, quella risorsa di linguaggio e situazioni comiche cui E. R. Curtius con la pietà, qualche ironia, più che sui dannati (non è ironica la ha dedicato alcune pagine del suo libro sulla letteratura europea chiostra coi conversi; e forse nemmeno l’augurio: «[...] se l’un­ e il Medioevo latino. ghia ti basti / ettemalmente a cotesto lavoro»), su coloro di cui i due dannati parlano - dei quali uno almeno, Niccolò de’ Salimbeni, 5. Con Griffolino e Capocchio la commedia (che, non del tut­ forse era ancor vivo, se non morto da poco, allorché Dante com­ to a ragione, Francesco De Sanctis riteneva dominante in poneva il XXIX. Ci moviamo, è vero, nella cronaca cittadina Malebolge) subentra nel canto alla pateticità. Dante cesella il suo minore (ma sempre relativa a personaggi ben noti), da campanile linguaggio con le rime rare e i «suoni striduli», le assonanze e le o, come dicono in Svizzera, da «cantonetto» - non escludendo lo allitterazioni in cui maestro gli era stato Amaut Daniel, il gran stesso pettegolezzo, qualora la perifrasi «tal che l’avea per figliuo- «fabbro del parlar materno», e ben rilevate da N. Sapegno in una lettura del ’ 3 814 e nel commento al poema. Rinviando a quel sag­ 15Non considero, s’intende, vera assonanza «cOme cOltel», ma piut­ tosto un’estensione dell’allitterazione: «COme COltel». 13 Enjambement: «il morso / de Pungine»; ripetizione di unghie (w. 16 La metafora del libro è scritturale, e inoltre del Dies irae. (È anche 80 e 82), unghia (v. 89). dell’antichità greca: Eschilo, Eumenidi, v. 275, e fr. 530 M., v. 21). È 14 N. Sapegno, Il canto XXX dell'«Inferno», Roma, Signorelli, 1950 ripresa da Manzoni, Adelchi, a. V, vv. 346-7: «né una lagrima pur notata («Nuova ‘Lectura Dantis’»), pp. 14-15. in cielo / fia contra te [...]».

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