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Contro la comparazione. Lo «scarto» e il «tra» un altro accesso all'alterità PDF

64 Pages·2014·0.976 MB·Italian
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N. 89 Collana diretta da Giuseppe Bianco, Damiano Cantone, Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio François Jullien CONTRO LA COMPARAZIONE Lo “scarto” e il “tra” Un altro accesso all’alterità A cura di Marcello Ghilardi Traduzione di Marcello Ghilardi. Titolo originale: L’écart et l’entre, de François Jullien. Copyright © Editions Galilée 2012 Il presente volume nasce all’interno delle attività del laboratorio politico della Fondazione Francesco Fabbri che si impegna a promuoverne la diffusione. Rivolgiamo un sentito ringraziamento anche a Paolo Fabbri per il suo supporto. © 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Volti n. 89 eISBN: 9788857559360 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] INDICE PREFAZIONE NEL CANTIERE DI JULLIEN di Roberto Masiero FRANÇOIS JULLIEN CONTRO LA COMPARAZIONE I. UNA DECOSTRUZIONE DA FUORI II. A COSA PORTANO LE DIFFERENZE? III. FAR LAVORARE LO SCARTO IV. LO SCARTO APRE UN “TRA” V. IL “TRA” COME STRUMENTO VI. IN CAMMINO VERSO L’ALTERITÀ POSTFAZIONE FILOSOFARE COME “PENSARE ALTRIMENTI” di Marcello Ghilardi R M OBERTO ASIERO PREFAZIONE NEL CANTIERE DI JULLIEN Ho letto molto di ciò che ha scritto Jullien rimanendone sempre catturato e alle volte persino stordito per chiarezza, lucidità di analisi, ma soprattutto per il «paesaggio sconfinato» che le sue argomentazioni offrono. La ritrascrizione di questa lezione inaugurale per la Chaire sur l’altérité, mi ha regalato una sensazione direi preziosa: ho bussato e Jullien mi ha accolto nel suo laboratorio dal quale si può accedere ad un immane cantiere nel quale tutti sono invitati a mettersi al lavoro. Al centro del cantiere una torre di Babele per costruire la quale gli uomini parlano molte lingue senza pensare che questo possa essere una dannazione o una colpa da espiare. È proprio tra le molte lingue che può animarsi l’umanità. Gli strumenti negli scaffali del laboratorio di Jullien sono frutto di un grande lavoro di precisione, esito di una rigorosa riflessione sul metodo e di indagini preventive sugli orizzonti della sua geografia: da un lato lo scaffale ad occidente (o dell’Occidente), dall’altra lo scaffale dell’universo cinese (che non può essere definito come ad oriente o come l’Oriente). Jullien è tra questi due mondi e non ha alcuna intenzione di compararli, di schierarsi o di perdersi nel tramonto dell’Occidente o in una qualche presunta volontà di potenza dell’universo Cina, ma prova a giocare una partita difficilissima e, forse, per l’uno e per l’altro cruciale: vuole farli uscire dalla «indifferenza reciproca e porli faccia a faccia, in modo tale che ciascuno possa al tempo stesso inquadrare l’altro e farsi inquadrare da esso». In questo tra accadono relazioni impreviste, possibilità non ancora pensate e, in fondo, una idea di libertà e quindi di umanità talmente nuova da apparire ancestrale, potrei dire, nella sua stessa vitalità, pre-originaria. Ecco allora due parole (cioè due strumenti) fondamentali nella loro immediatezza e nella loro efficacia posti da Jullien in questo scritto: lo scarto e il tra. La prima, lo scarto, viene contrapposta a differenza. Forse è il caso di ricordare che differenza è parola chiave per tutte le filosofie della decostruzione che seguono l’invito heideggeriano alla Destruktion dei concetti della metafisica. Nella decostruzione la lettura dei testi della tradizione metafisica occidentale ha come scopo l’annientamento del concetto stesso di sistema, di quel sistema che tutto unifica, che tutto ‘identifica’, che riduce il tutto a identità. L’intenzione per la decostruzione è liberare l’alterità, e aprirsi alla differenza. Secondo Jullien, che vuole cercare di comprendere la pluralità delle culture, la semplice indagine sulle differenze non risolve il concetto stesso di cultura. La differenza è in fondo un concetto a sua volta identitario in quanto presuppone che a monte ci sia una cultura primaria, ma non si dà una qualche identità culturale previa una qualche umanità originaria (per questo prima ho provato ad usare il termine pre-originario). Lo scarto invece non opera classificando, ma mette in tensione, non prefigura un ordinamento, ma mette in atto il disturbo e «fa apparire le culture e i pensieri come altrettante fecondità». Lo scarto è produttivo mentre la differenza non produce nulla. Questa è destinata alla tautologia, rinvia ad una verità come presupposto, mentre lo scarto propone una verità come «rendimento», possibilità, apertura. Scrive Jullien: «Si potranno (si dovranno) considerare le culture e i pensieri non più dal punto di vista della verità, nemmeno in filosofa, bensì secondo la loro capacità di presa o di effetto, a partire da ciò che definirei senza timori (…) il loro ‘rendimento’. Le culture sono come dei filoni, o dei solchi, a seconda che ci si presenti il pensiero come qualcosa che penetra nella terra o come qualcosa che fa germogliare. Il pensiero greco non è più ‘vero’ di quello cinese, o viceversa. Ma se approfondiamo lo scarto tra essi, sono entrambi in grado di fornirci, oggi, altrettante possibilità di ‘presa’, o reti (di coerenza) per pensare un comune dell’esperienza che sia comunicabile; forniscono delle ‘prese’ che si rinforzano e si distaccano grazie al loro confronto». Dalla questione della verità non si sfugge, e ovviamente, ciò vale anche per Jullien, ma quello che nello scarto accade è che la verità non può essere pensata come normativa, come logica della corrispondenza, come ‘rivelazione’, come conformità ad una regola, come coerenza o come utilità, o come essenzialmente vincolata agli universali, ma va pensata nelle dinamiche della fattualità. Le tre grandi linee di riflessione sulla verità sinteticamente rappresentate da Heidegger, Tarski e Jaspers, la prima attorno al concetto di alétheia, del non essere nascosto come tale, la seconda come teoria della indefinibilità per la quale la verità all’interno di un determinato sistema non può essere definita all’interno del sistema stesso, la terza che propone di considerare la possibilità di una sintesi imparziale di tutte le definizioni finora date della verità, non sfuggono comunque dalla definizione di Tommaso d’Aquino, veritas est adaequatio rei et intellectus, definizione con la quale si misura anche Jullien con uno scarto particolare. Per Jullien l’intelligenza, quindi la possibilità di intelligere, «in quanto facoltà dell’umano, non è una facoltà fissa, un ‘intelletto’ bloccato nelle sue categorie (fossero anche quelle kantiane), ma una capacità che resta aperta, in processo, in cantiere; è una capacità che si de-categorizza e si ri-categorizza, dispiegandosi quanto più passa attraverso delle intelligibilità che hanno compiuto uno scarto». Cosa accade? Che la verità non sta né dalla parte della res, né da quella dell’intellectus, si potrebbe dire che sta nel mezzo, nel tra. Forse è ciò che i Greci, come una sorta, per loro, di residuo logico-esistenziale, intendevano con la parola metis, prudenza. Essendo nel tra non si dà il dilemma se la verità sia assoluta o possa essere relativa. Non sta nemmeno dalla parte del pensiero contrapposto alla percezione sensibile. Anche la distinzione, o la simmetria, tra intelletto e sensibilità perde valore categoriale e assume una sorta di fluidità. Il presupposto aristotelico: «tutti gli enti sono o sensibili o intelligibili» può essere allora scritto così: «tutti gli enti sono e sensibili e intelligibili». Questa fluidità è il comune dell’umano: non la differenza ma lo scarto e nello scarto il tra. Il tra, la seconda parola chiave di questa conferenza, rinvia sempre ad altro da sé, non possiede alcuna essenza, non ha nulla di proprio, non concede identificazione, non è mai fermo. Il tra (scrive Jullien) «non ‘è’, non può esistere di per sé». L’Occidente ha rifiutato il tra per interrogare l’‘essere’, per dedicarsi all’ontologia e si è quindi ritrovato in un sapere dell’«al di là» e del meta e quindi è stato destinato alla metafisica, alla ricerca di una vera vita che sta nell’oltre della vita stessa. E così «il pensiero del vivere, tutto ad un tratto, si è trovato abbandonato». Per lo scarto e non nella differenza! Attraversare il tra e non cercare il riposo in ciò che è precostituito! Questo il dettato. Si dirà chiaro e in fondo semplice, ma tutto ciò è veramente complesso: aprirsi alla metabolizzazione continua messa in gioco percorrendo in lungo e in largo, dai presocratici ai decostruttivisti del tardo Novecento, sia i molteplici tra che emergono dal pensiero Occidentale, sia le pieghe tra una metafisica e l’altra, sempre inseguendo l’ontologia e il tra, per così dire esistenziale, fattuale, organico (forse organico è termine sbagliato e sarebbe più corretto scrivere omoiotico, omeopatico) dell’universo cinese, con l’enorme fatica di stare sempre nel tra, nella impossibilità intelligente dell’intelligere continuamente al di là delle parti. Scrive Jullien: «Credo insomma che non sia tanto da pensare l’essere ma il tra». Aggiungerei – seguendo le tracce di Jullien e cercando a mia volta lo scarto – che la questione non è pensare l’essere, ma invece pensare il tra e, allora, scriverei pensare nel tra visto che il tra non è un pensare, ma – così credo – un pensare che fa e un fare che pensa, non è l’essere ma un modo d’essere. Entrato nel laboratorio e appena intravisto il cantiere, non posso che mettermi al lavoro sapendo delle profonde sintonie che sento per il luogo mentale in cui ora mi trovo: quello di Jullien. Mi metto al lavoro su due questioni che emergono alla fine della lezione di Jullien: la logica e quindi l’epistemologia, l’etica e quindi la politica, provando a mia volta a «far lavorare lo scarto», e mettendomi in posizione nel tra (ovviamente non nel tra tra Occidente e Cina, visto che sono totalmente incompetente di quest’ultima, ma più semplicemente tra me e Jullien). Ciò che viene messo in gioco nello scarto come nel tra è il concetto di identità che sta alla base della stessa metafisica occidentale. L’identico è in relazione stretta con l’uno e il tutto, mette in gioco il concetto di sostanza visto che come affermava Aristotele le cose sono identiche solo se è identica la definizione della loro sostanza. L’identico rende possibile l’articolazione di una ontologia filosofica o, per dirlo con il linguaggio della filosofia, il concetto di identità corrisponde all’interpretazione dell’essere predicativo come inerenza e dell’essenza come essenza necessaria. Il predicato verbale, l’è dell’essere, si costituisce là dove il simile conosce il simile, là dove l’intelligere si rispecchia in se stesso, nell’identico, appunto. Vorrei aggiungere una ulteriore argomentazione sulla questione dell’identità, proprio per far lavorare lo scarto. L’identità ha come motore la mimesi e quindi la sostituzione di qualcosa con qualcosa d’altro. Cosa accade quando il ritratto si sostituisce alla persona? L’albero disegnato si sostituisce a quello reale? L’aratro si sostituisce alle mani che scavano? Cosa cattura il rappresentante sul (o del) rappresentato? Quale è il suo potere? Che cosa estrapola? Quale linfa? Quale verità? Quale sostanza? Quale essenza? E la cosa rappresentata sarà sempre la stessa anche dopo essere stata rappresentata? L’identità è, da questo punto di vista, ciò che resiste all’alterità e alle pratiche sostitutive. È in essa che riposa, nella cultura occidentale, una idea di verità come assolutezza e come universalità, è in essa che viene elaborato il concetto di autenticità. È nella relazione mimetica che progressivamente si fa spazio l’autonomia dell’astrazione che animerà sia il logos greco che il pensiero scientifico moderno. Ovviamente nel pensiero occidentale emergono anche tentativi di uscire dall’assolutizzazione dell’identico. Ricordo il caso di Plotino (e lo ricordo perché figura cara a Jullien) che poteva affermare che se è vero che l’uomo – e quindi l’arte – imita la natura, è altrettanto – e provocatoriamente – vero che la natura non usa leve. Il mondo non può risolversi nella «meccanica». Per altro il tema identità e differenza o dell’io e dell’altro è centrale nella filosofia

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