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Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi PDF

224 Pages·1996·7.468 MB·Italian
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B ENED ICI ANDERSON \ ORIGINI E DIFFUSIONE DEI NAZIONALISMI prefazione e cura di MARCO D'ERAMO MANIFESTOLIBRI BENEDICI ANDERSON COMDNITÀ IMMAGINATE Prefazione di Marce d'Eramo © 1983, 1991 Benedict Anderson lmagined Communities, Verso, London, New York 1991 © 1996 manifestolibri srl via Tomacelli 146 - Roma ISBN 88-7285-066-5 Traduzione: Marco Vignale Progetto grafico della copertina: Studio Idea INDICE Presentazione all’edizione italiana Chissà se capiranno di Marco d’Eramo 1 Prefazione alla seconda edizione (1991) 17 1. Introduzione 21 2. Radici culturali 27 3. Le origini della coscienza nazionale 33 4. Pionieri creoli 63 3. Vecchie lingue, nuovi modelli 79 6. Ufficial-nazionalismo e imperialismo 93 7. L’ultima ondata 119 8. Patriottismo e razzismo 143 9. L’angelo della storia 137 10. Censimento, mappa, museo 163 11. Ricordare e dimenticare 187 Il nuovo disordine mondiale. Un’appendice (1992 ) 203 Bibliografia 217 CHISSÀ SE CAPIRANNO di Marco d’Eramo Forse un giorno si chiederanno perché mai tanti esseri umani fosse - ro pronti a immolarsi per la propria nazione. Che cosa ci fosse in quest’entità che la rendesse degna del sacrificio della propria unica, irripetibile vita. A noi contemporanei, in questa fine di XX secolo, la nazione sembra un orizzonte naturale della società e della politi- ca. L’indipendenza nazionale ci pare un bene caro da salvaguardare (paventiamo se è minacciata). Non sembra nemmeno comico che un atleta pianga ascoltando dal podio il proprio inno nazionale. Come nella società indiana ognuno è incasellato in una casta, così nella nostra modernità ci pare ovvio che ognuno abbia una (e non più di una) nazionalità. Un’owietà ingannatrice. Per secoli, per millenni, gli umani hanno vissuto, agito, fatto politica, combattuto guerre in strutture sociali del tutto diverse dalle nazioni: in imperi polietnici e poliglotti, che oggi chiameremmo multinazionali, in entità regionali (potrebbe esistere un nazionalismo borgognone?), in comunità religiose, in principati il contorno delle cui frontiere dipendeva dalle peripezie matrimoniali delle dinastie. Ma allora quando è che si è imposto alle nostre società il concetto di nazione? Quando abbiamo cominciato a pensare che le nazioni fossero i sog- getti della storia? Tanto che oggi le organizzazioni mondiali si chiamano Società delle Nazioni o Nazioni Unite. [Non a caso l’idea di nazione si forgia in contemporanea con il nascere dello storicismo e con l’affermarsi della teoria dei soggetti contro la teoria delle cau- se: il mondo è prodotto dall’azione di un soggetto, non generato come effetto da una causa]. Già la domanda sul «quando» suona blasfema a un patriota. Per lui la nazione è qualcosa di originario, un retaggio primordiale che forse era stato dimenticato, sepolto nella memoria e solo di recente è riaffiorato, identità ritrovata. Siamo di fronte a una dupli- cità: la nazione è stata pensata, creata di recente, ma essa pensa se stessa come antichissima. I nazionalismi sono nati tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, ma per quell’epoca parliamo di risveglio dei nazionalismi, come se fossero emersi da un lungo sonno. Ci sembra che le nazioni siano sempre esistite. Ma così pensando cadiamo nel- la trappola che la nazione stessa ci tende: «Il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autocoscienza: esso inventa nazioni là dove 7 esse non esistono», afferma Ernest Gellner h Non ci accorgiamo che un modo tipico con cui la modernità produce il domani è quello di costituirsi uno ieri. Plasmare il nuovo inventando una tradizione. Si crea una comunità inedita immagi- nando di appartenere a una remota e dimenticata. Un po’ come i musulmani neri costruiscono la propria identità elaborando un’ori- ginaria nazione perduta e ritrovata dell’Islam, e come i mormoni pensano di essere discendenti di una perduta e ritrovata tribù d’Israele. Una linea di pensiero che indaga in questa direzione è rin- tracciabile, se pur in forma frammentaria, nei Quaderni dal carcere dove, parlando de La storia come «biografia» nazionale, Antonio Gramsci osserva: «Si presuppone che ciò che si desidera sia sempre esistito e non possa affermarsi e manifestarsi apertamente per l’intervento di forze esterne o perché le virtù intime erano “addor- mentate”» 1 2 (ecco il tema del risveglio). E in ambito anglosassone che verso il 1980 si è cominciato a indagare più in dettaglio questo meccanismo. Le ricerche che hanno aperto il varco sono il libro sulle Comunità immaginate di Benedict Anderson (la prima edizione inglese è del 1983) che stiamo presen- tando ai lettori italiani e il famoso volume collettivo curato nello stes- so anno da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger dal titolo appunto Linvenzione della tradizione 3. Ma quest’impostazione era nell’aria. Basti pensare che nelle prime righe del suo bellissimo saggio sull’Orientalismo, Edward W. Said scriveva nel 1978 che il concetto di Oriente «è stato quasi interamente un’invenzione europea» 4. Da allora non si contano più i libri sull’invenzione di questo, sull’inven- zione di quello. Quest’impostazione è - dal punto di vista del procedimento della ragione - quel che la mossa del cavallo è negli scacchi: proce- dendo di sghembo, saltando una casella, il suo compito è spiazzare, scuotere l’orgogliosa sicurezza con cui alcuni concetti si presentano a noi, introdurvi un sospetto, e quindi un’inquietudine. Essa assolve al meglio il suo compito proprio su concetti come quelli di nazione. Nel momento in cui esamina come «artefatto culturale di un parti colare tipo» (Anderson), cioè come prodotto quel che invece esige di 1 Vedi infray p. 25 2 In li Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 91. 3Cambridge University Press, Cambridge, 1983; trad. it. Einaudi, Torino 1987. 4 Vintage Books, New York 1979; trad. it. Bollati Borignhieri, Torino 1991, p. 3. 8 essere pensato come dato, essa desacralizza ciò che pretende di esse- re riverito, laicizza quel che si pone come un destino. Chiedersi da chi, e quando, e come, la nazione sia stata immaginata impone un mutamento prospettico che rende visibili fenomeni che prima non percepivamo. E di questa nuova visione abbiamo un enorme bisogno. Ripercorrendo il pensiero «di sinistra» sulla nazione e il nazionali- smo, non ci si può esimere da un senso di fastidio e disagio per il continuo oscillare, da Marx in poi, documentato nel bel volume antologico, ingiustamente dimenticato, Les marxistes et la question nationale (1848-1914) 5. Una volta la nazione è ridotta a puro epife- nomeno del formarsi del mercato capitalistico e dell’ascesa della borghesia. Un’altra è demone collettivo, puro impulso irrazionalisti- co da esorcizzare. Un’altra volta ancora è un fattore da usare stru- mentalmente per far avanzare la causa proletaria. Ci sono i naziona- lismi buoni e quelli cattivi. Già tra il 1848 e il 1850 Marx «era favo- revole al movimento nazionale dei polacchi e degli ungheresi e contrario al movimento nazionale dei cechi e degli jugoslavi. Per- ché? Perché i cechi e gli jugoslavi erano allora “popoli reazionari”, “avamposti russi in Europa”, avamposti dell’assolutismo, mentre i polacchi e gli ungheresi erano “popoli rivoluzionari” che si batteva- no contro l’assolutismo» (Stalin dixit 6). Nello stessomodo, al cat- tivo nazionalismo dei fascisti viene contrapposto il buon nazionali- smo dei popoli del terzo mondo nella loro lotta per Pindipendenza e contro l’imperialismo: si noti che - in modo simmetrico - i fascisti vedevano il proprio nazionalismo in termini di lotta di classe mon- diale, in cui le «nazioni proletarie» come l’Italia si battevano contro le nazioni capitaliste. Anche oggi da noi sembra vigere una doppia verità sul nazionalismo. Schematicamente, quando si tratta di opporsi alla libera circolazione del capitale e delle merci (alla cosiddetta mondia- lizzazione o globalizzazione), allora il nazionalismo è buono (dalla scuola economica di Cambridge fautrice di un protezionismo eco- nomico, al battersi contro lo spirito di Maastricht...). Quando inve- ce si oppone alla libera circolazione degli individui e cioè è ostile all’immigrazione, allora il nazionalismo è cattivo. La stessa duplicità si ripete a proposito ddl’identità: la perdita dell’identità viene vissu- 5 A cura di Georges Haupt, Michael Lowy, Claude Weil, éd. Francois Maspé- ro, Parigi 1974. 6 fo/ip Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, trad. it. Einau- di, Tonno (J 948) 1974, pp. 274-5. 9 ta come qualcosa di distruttivo, ma nello stesso tempo è negativa anche l’affermazione dell’identità nazionale. Si noti che l’identità è sempre identità di un soggetto e che quindi il problema dell’identità può porsi solo nell’ambito della teoria dei soggetti: i lepenisti in Francia invocano quello stesso diritto alla differenza brandito da soggetti che vogliono vedersi riconosciuti (primo fra tutti il diritto alla differenza di genere, cioè quella femminile). Ma, rivalutando o deprecando, rimaniamo sempre intrappolati nel tranello che la nazione ci tende, cioè la pensiamo come essa chiede di esserlo. Persino quando la condanniamo nelle sue manife- stazioni xenofobe, quando esecriamo la barbarie delle varie pulizie etniche, in realtà restiamo imprigionati nell’immagine che la nazione (e - in sottordine - il suo parente povero e bastardo: l’etnia) offre di sé, oggetto e fonte di un sentimento oscuro, ancestrale, risalente alla notte dei tempi, barbaro come il buio da cui discende. Ecco perché la provocazione di Benedict Anderson risulta così stimolante, a cominciare dal titolo. Applicata all’idea di nazione già la parola comunità spiazza, tanto più in italiana in cui è usata in modo così diverso rispetto all’inglese community', l’insieme degli abitanti di una piccola cittadina o di un quartiere costituiscono una community che non ha bisogno di essere immaginata perché i suoi membri si cono- scono tutti, mentre la nazione è «una comunità politica immaginata», «in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li in- contreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità» 7. E un ulteriore disorientamento sta in quel verbo dall’apparenza tanto frivola che è immaginare. Gellner aveva usato il termine «inventare» che però finisce con l’implicare che la comunità inventata sia falsa, mentre per Anderson «le comunità vanno distinte non in base alla loro fai- sità/genuinità, ma dallo stile in cui sono immaginate»: è la ragione per cui abbiamo preferito usare comunità immaginate invece che immaginane, per quel tanto in più di irrealtà, di fantasticheria con- tenuto nell’aggettivo immaginarie, rispetto al participio passato immaginate. L’utilità di questa mossa disorientante è subito chiara al lettore di Comunità immaginate: essa consente ad Anderson di classificare il nazionalismo in diversi tipi, quindi distinguerne diverse specie per la prima volta in modo non pretestuoso e non strumentale, e di trat- 1 vedi infra, p. 25. io

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