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C'è una parte di me che dorme nel west Tiziana Rinaldi Castro PDF

202 Pages·2009·22.36 MB·Italian
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Preview C'è una parte di me che dorme nel west Tiziana Rinaldi Castro

Il manifesto introduzione Quale modo migliore per cominciare un viaggio tra i «rifugi della sinistra» che partire dal treno? «11 treno era l’Italia», ci ricorda Erri De Luca, e ci viaggiavano la borghesia e i] proletariato, lo studente e l’operaio. Senza dimenticare che, essendo i treni «a somiglianza e immagine della libertà», «i nemici, quelli che preferivano le tirannie e le dittature» se la sono presa proprio con loro, e «pure nella stazione hanno fatto spargimento di sangue». Alla vigilia del 2 agosto, ventisettesimo anniversario della strage di Bologna, ecco un altro buon motivo per parlare del treno, «luogo di sinistra» per eccellenza. Dunque, tutti in carrozza e via per un itinerario che toccherà le case occupate e i movimenti degli anni ‘80, Freak Street e l’osteria del Sordo, l’Albania di Enver Hoxha e la Sardegna del ‘71. E poi ancora il Mediterraneo dell’inaugurazione e il manifesto, che da qualche parte ci sarà ma dovrete stare attenti a saperlo scovare, il cinema e internet. Abbiamo chiesto a scrittori e giornalisti, «penne» del manifesto e simpatizzanti, di raccontarci il loro «rifugio», spesso collettivo, a volte del tutto individuale. Il risultato è un ritratto della sinistra dell’ultimo mezzo secolo, frammentario e soggettivo ma proprio per questo più interessante. E dal quale scaturiscono tante sinistre quante sono le persone che le raccontano. L’esito è una lettura a puntate, quotidiana e ci auguriamo da collezione, che vi accompagnerà ovunque voi stiate trascorrendo l’estate, sotto l’ombrellone o al lavoro. Buon viaggio 2 Il manifesto Sul treno il Novecento in libertà Erri De Luca Un posto di sinistra? Mi viene in mente il treno. Coincise con la libertà portandomi lontano. Non poteva essere una nave, che aveva imbarcato i nostri emigranti dal molo Beverello del porto di Napoli. Il mondo largo e tondo se li era inghiottiti senza restituzione. A bordo dei bastimenti non viaggiava la libertà, ma i prigionieri della necessità. Andavano a cercare di levarsi lo scorno della fame dall’altra parte di un oceano. La nave non mi metteva pensieri di aria aperta, ma di stiva e di separazioni irreparabili. Il treno invece, quello sì, prometteva fortuna a ogni stazione, gente nuova saliva, saluti, conversazioni, ci si presentava, e se qualcuno aveva di che masticare, «favorite» era l’invito e pure un mezzo comando, altrimenti era offesa rifiutare. Il treno era l’Italia: prima classe impettita e ingrugnita per il troppo modesto privilegio di una sola classe di distanza dall’altra. Per loro ci voleva che dopo la prima la successiva non si chiamasse seconda, 3 Il manifesto così vicina nella graduatoria. Per loro ci voleva che dopo la prima si passasse direttamente all’ultima - biglietti di prima classe e biglietti di ultima: così si suonava meglio la distanza. Per i viaggiatori di seconda la distanza era quella da percorrere in chilometri. Quelli di prima viaggiavano invece per mantenere la distanza. Tutto di loro, dai vestiti ai modi, badava ad aumentarla. L’ho capita sul treno la borghesia. Oggi non si conosce più, oggi nemmeno esiste sugli aerei dove la differenza tra prima classe e l’altra è a stento una sfumatura, una tendina. Oggi non c’è la borghesia, al suo posto c’è invece l’indistinta uguaglianza degli utenti. Chi non lo è, non risulta. «Favorite», e si accettava una fetta di pane inumidita da pomodoro e olio, un pezzo di frittata, un salame tagliato sul tovagliolo steso sulle gambe. li un sorso di vino versato dai bottiglioni verdi da due litri: era la classe, né l’ultima né prima, la classe pura, stile del viaggiare italiano. «Voi dove andate, giovinotto?» «Io scappo da casa». «Fate male. E per dove?» «Dove non ci sta casa». «Sotto i ponti?» Un altro interveniva: «a Napoli non ce ne stanno, manca il fiume». «Ve li andate a cercare dove stanno. Chi la capisce questa gioventù? Il biglietto lo tenete? Se no vi fanno scendere». «Lo tengo, grazie, la partenza pagata. Il resto si vedrà>’. E subito si passava a un’altra storia. Si stava in otto nello scompartimento, hai voglia a sentire racconti e interventi sopra i racconti. Me l’ero immaginato diverso. Avevo letto «Sulla strada» di Keirouac, i treni saliti al volo nei carri bestiame vuoti, a marcia lenta,. sperduti in 4 Il manifesto mezzo all’ovest sconfinato. Erano i carri merci della libertà, portavano spiantati e vagabondi a zonzo tra l’Atlantico e il Pacifico. Sapevo che da noi c’erano quei treni, ma com’erano invece? Da noi erano Italia che si trasferiva sud/nord e poi tornava per Natale, per qualche ricorrenza elettorale. Da noi si votava spesso. I treni erano di sinistra perché congiungevano. Le navi no, separavano, erano l’addio pe’ terre assai luntane. I treni erano sempre pronti. Uno che teneva nostalgia (la nostalgia è una cosa che si tiene e ci vuole il verbo tenere), magari faceva l’operaio a Torino, la domenica andava alla stazione. Vedeva i vagoni appena arrivati dalla sua città, dal paese. Vedeva facce quasi conosciute, sentiva la parlata, dava un’informazione a uno appena sceso e spaesato, gli veniva il pensiero amaro e dispettoso di salire sul treno e farsi riportare. La stazione di Porta Nuova la domenica era consolazione per sfogare la nostalgia e vedere che si stava in tanti con quel pensiero. Faceva bene sapere quanti e quanti, assomigliati senza poterlo sapere. Nelle officine uno non si accorge, sta al macchinario e sa degli altri solo al varco dei cancelli. A mensa metti gli occhi nel piatto, hai solo mezz’ora. Poi è venuta la lotta di fabbrica, alla fine degli anni sessanta, è venuto il ‘69.I cortei di operai nelle officine erano belli perché facevano smettere il chiasso dei macchinari in produzione e lo sostituivano col ritmo della pausa suonata a tamburo sui bidoni vuoti. La lotta era un’interruzione generale, un sollievo da baciarsi i gomiti per l’allegria. Poi dava pure dignità, i capi di officina, i controllori portavano rispetto e tenevano un poco di paura (la paura è una cosa che si tiene e ci vuole il verbo tenere). Uno si accorgeva che gli era servito andare alla stazione di domenica, 5 Il manifesto perché i cortei dentro le officine somigliavano ai treni. Senza la divisione tra prima e seconda, era una sola classe in marcia e l’altra ferma . La distanza tra loro si accorciava. I treni erano a somiglianza e immagine della libertà. Perciò i nemici, quelli che preferivano le tirannie e le dittature, da noi se la sono presa coi treni. Li hanno bombardati con la gente dentro, sotto natale e sotto ferragosto per fare pii male, pure nella stazione hanno fatto spargimento di sangue. E sono rimasti impuniti, perché stavano in combutta con altri malfattori dentro le forze pubbliche, i servizi. Bei servizi hanno reso, il migliore se lo sono procurato con la impunità delle stragi. I treni hanno fatto l’unità d’Italia più delle scaramucce di tre piccole guerre d’indipendenza, più di un portone sfondato a Porta Pia. I treni ci hanno fatto conoscere italiani divisi dalla meravigliosa, specie di dialetti. Prima di scendere alle stazioni, salutarsi, ci si scambiava l’indirizzo e almeno una cartolina di saluto arrivava a ricordo dell’incontro. L’Italia è stata imita dagli scompartimenti della seconda classe e la parola d’ordine e intesa, dopo i saluti e le presentazioni era una per tutti: «favorite». 6 Il manifesto Dalla bocciofila a Freak street Emanuele Giordana Per noi che si prendeva l'Orient Express da Milano, l'ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po' torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano dalla stazione, animata da pensionati comunisti e giovani fricchettoni, dove un pasto con ossobuco e barbera di Broni costava 500 lire. A qualche centinaio di metri gli effluvi della cannabis condivano le serate all'Abanella, un cinema di terza visione rilevato da un amante del genere sex, drug & rock'n roll, in cui, oltre a «Il laureato» e «Woodstock», si proiettava anche «Cavalieri selvaggi» con Omar Sharif e Jack Palance, un grande film sull'Afghanistan che alimentava l'epopea del «Viaggio all'Eden», come Marco Amante e Luigi Buffarini Guidi avevano chiamato la prima guida per freak sulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. 7 Il manifesto Non c'era molto altro come viatico letterario. Anche Ginsberg era stato in India, ma alla fine ci passavamo di mano un altro classico dell'epoca, un libro da due lire, pura operazione furbescamente commerciale ma non priva di seduzione, di Charles Duchaussois, un junkie francese che aveva fatto il giro del mondo con un ago infilato nel braccio. Tant'è: descriveva l'Old Gulhane di Istanbul e raccontava di sordidi buchi del bazar di Bombay dove si fumava oppio o di santoni, guru e ashram dove poter allargare la coscienza a colpi di mantra e di manali, l'hascisc nero e profumato delle valli del Nord. Insomma la partenza si preparava così. Amuchina e antibiotici per i più paranoici, pile e lamette da barba per i previdenti, «Siddharta» di Hesse e «Sulla strada» di Kerouac per i raffinati, «Autobiografia di uno yogi» di Paramhansa Yogananda per gli spiritualisti. Inseguiti dagli anatemi di quelli che «no, non si può andar via e mollare la lotta di classe», ci rodeva - sotto la pergola della Bocciofila Martesana - il tarlo della strada e ci faceva poco quel refrain di Giorgio Gaber che cantava di una generazione che scappava «in India e in Turchia» fingendo di essere sana. Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione di quel treno maleodorante che partiva dalla Stazione Centrale e veniva da Parigi diretto a Istanbul, dove gli immigrati turchi di ritorno a casa esibivano le coppole d'ordinanza mentre si attraversava la Jugoslavia di Tito fino alla Porta d'Oro aperta sull'Oriente. Dopo la Martesana, i ritrovi all'occidentale cui eravamo abituati (a Milano il bar Magenta, l'Erika, il baretto a Sant'Eustorgio, qualche vecchia osteria come quella del Pino in via Cerva) finivano di colpo. Qualche locale a Belgrado dove potevi bere acquavite e l'ultimo espresso ma in cui già trionfava il caffè serbo, che in Grecia è caffè greco e in Turchia caffè 8 Il manifesto finalmente turco. Con alle spalle ormai i Campari soda e il barbera dell'Oltrepò, passato che avevi l'ultimo confine alcolico bagnato di retzina e Demestika ghiacciati, restava la birra turca e ormai solo quello splendido tè servito nei bicchieri stretti stretti con la pancia sporgente e l'orlo striato da una collanina d'oro, trascinati su un vassoio rotondo di metallo martellato ai tavolini all'aperto di Sultan Ahmet. A Istanbul, per dormire, c'era il Gulhane e ancora l'Old Gulhane o il Balikesir - se non erro un ostello che chiudeva a mezzanotte - oppure i tetti per sfuggire all'afa e risparmiare qualche lira turca. E la mattina il Pudding Shop, dove ingozzarsi di pasticceria ottomana, grassa e zuccherina, ammantata di miele e pinoli e di cui avevi già avuto qualche sentore nei Balcani. L'Iran era un passaggio veloce. Una notte all'Amir Kabir per i più fortunati e sennò il campeggio di Mashad prima del confine afgano. Era lì, alla frontiera di Tayebad, il vero inizio del viaggio. Ed era a Kabul, la città di cui avevamo distillato ogni sapore nei racconti degli amici, il luogo dove esplodeva l'epopea dei ruggenti Settanta on the road. I freak erano così numerosi che si era creata una vera e propria colonia il cui santuario era chicken street, che è oggi l'ombra di se stessa. Quelli con più soldi stavano al Peace e lo chiamavano così perché se dicevi Peace Hotel voleva dire che eri un novellino. Se avevi i soldi andavi magari a mangiare al Marco Polo dove, mentre la cucina offriva il solito kabuli palau, ti servivano anche un vino d'uva che forse non era granché ma poteva farti evocare i poemi di Omar Kayyam intitolati al vino. Anche gli afgani, che sono di lingua iranica, conoscono bene la sua poesia mentre noi, lo ammetto, cercavamo il sapore di casa in un liquido senza retrogusto e tratto da un frutto ottimo 9 Il manifesto per l'uva sultanina ma pessimo - a quelle latitudini - per la vinificazione. Nel percorso verso la Posta, il luogo sacro - prima dell'avvento degli Internet café - per un vero viaggiatore (ricevevi la corrispondenza al Poste Restante, che sarebbe il P.O. Box inglese e il nostro Fermo Posta ma che ovunque si declinava in francese), c'era la possibilità di un frullato di mele o di carote, unica chance vitaminica in un paese dominato da riso e montone e dove mangiare pomodori e insalata era a tuo rischio e pericolo. Meloni quelli sì, quelli di Kunduz, dolci e bianchi, promessa di frescura nelle estati torride e polverose della capitale afgana. Sul passo Kyber avevi giusto il tempo di ragionare del fatto che tra l'Afghanistan e il Pakistan esisteva una sorta di terra di nessuno dove comandavano pastori barbuti col fucile in spalla. Col senno di quei viaggi abbiamo capito poi cosa sono le aree tribali pachistane e perché i mujaheddin sparavano a Jalalabad ma dormivano a Peshawar e perché anche adesso quella frontiera porosa è attraversata senza passaporto dai talebani pashtun, che oltre confine si chiamano pathan. A Peshawar, che era ancora una città marcata dall'urbanistica del Cantonment britannico - la città coloniale dell'Impero di Sua maestà - c'era il primo impatto con la geografia umana del subcontinente indiano perché, e lo capivi dopo, la spartizione dell'India aveva diviso a metà il Punjab e dunque, di qua e di là della frontiera indo-pachistana, la gente era la stessa. Comprese le mucche che pascolavano tra gli scoli dei bazar anche nell'islamico Pakistan. A Peshawar potevi stare al Rainbow, famoso perché affacciato sull'acquitrino formato dai residui del cambio dell'olio di un'enorme officina meccanica per camion colorati. Rumore assordante già alle prime luci. Se avevi meno rupie andavi al National, un antico e fatiscente palazzo moghul dove ai 10

Description:
Alfredo Bandelli, al Canzoniere Pisano, a Fausto Amodei, Emilio . «L'insostenibile leggerezza di Effenberg», per aiutare quelli come lei, già.
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