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Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell'essere PDF

332 Pages·2016·42.714 MB·Italian
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Pedro Manuel Bortoluzzi Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell'essere 11 Prefazione di Giorgio Brianese Questo dolore acoomuna tutte le oose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che oome vivono temono la morte (Carlo Mtchelstaedter) Sono dawero lieto di presentare questo libro di Pedro Manuel Bortoluzzi, che è degno di interesse per più di una ragione, prima tra tutte, a mio modo di vedere, per la qualità dell'im pegno teoretico e per la passione filosofica autentica che tra spare dalle sue pagine. Esso chiama in causa due prospettive di pensiero - quella di Carlo Michelstaedter e quella di Ema nuele Severino -che potrebbero apparire distanti l'una dall' al tra, se non addirittura inconfrontabili, indicando la possibilità di una loro convergenza intorno ad alcuni snodi essenziali del pensiero e declinandole, oltre che sul piano teoretico, su quel lo esistenziale, poiché pensare e vivere, come anche Carlo Mi chelstaedter ha insegnato con la sua opera e con la sua biogra fia, non sono separabili se non astrattamente e a prezzo di un più meno profondo fraintendimento: il «possesso presente» 12 della propria vita, che qualifica l'esperien7.a del Persuaso, è ad un tempo il «possesso presente» del proprio pensiero, che solo cosl può essere dawero vitale e consentire, a chi ne abbia la capacità, di incamminarsi lungo la «via della persuasione». Mi chelstaedter e Severino sono stati e sono per me due compa gni di strada irrinunciabili: l'intransigenza vitale del primo e la capacità del secondo di mettere in questione, discutendole con rigore inoppugnabile, le presunte evidenze a partire dalle quali pensiamo a noi stessi e orientiamo il nostro agire nel mondo, fanno parte della mia storia filosofica e del mio modo di intendere anche oggi l'esercizio della fìlosofìa Entrambi, ciascuno a proprio modo, mi hanno insegnato a guardare me stesso con occhi nuovi e a comprendere che non sempre (q ua si mai, anzi) le cose sono ciò che sembrano. Anche per questo ho letto il libro di Bortoluzzi con particolare interesse. Per quel che riguarda Michelstaedter, l'attenzione di Bortoluzzi si concentra motivatamente su lA persuasione e la rettorica, l'o pera principale del giovane goriziano, senza per questo trascu rare altri scritti a torto o ragione considerati "minori", primi tra tutti gli appunti postumi che Michelstaedter dedicò a Par menide e a Eraclito. lA persuasione e la rettorica, come è noto, è uno scritto nato come tesi di laurea che fu pubblicato postumo grazie alle cure di amici affettuosi di Carlo. Di una tesi di laurea («"genere" costituzionalmente del tutto minore e appartato», come ha scritto Alberto Asor Rosa}, tuttavia, quel lo scritto non ha le caratteristiche canoniche e si presenta non come un esercizio accademico, ma piuttosto come un'opera finale e definitiva: un autentico capolavoro fìlosofìco in certo senso irrinunciabile per le sorti del pensiero. A quest'opera estremai l libro di Bortoluzzi dedica un'attenzione particolare, anzitutto proponendone un commentario integrale molto ana litico e documentato che segue passo dopo passo lo svolgersi dell'opera, riuscendo a non essere mai pedante o inutilmente erudito. Il suo è un commento pensato e pensante, come di- 13 chiara egli stesso sin da principio: esso, scrive Bortoluzzi, in tende essere «una concreta esperienza di pensiero assieme a Michelstaedtel')> (Infra, p. 25) e una sorta di preludio all'inter pretazione vera e propria, alla quale viene dedicata la seconda parte del libro, con la quale egli intende mettere in evidenza i nessi teoretici fondamentali dell'opera di Michelstaedter e il suo significato complessivo, suggerendo e motivando anche la possibilità di una dialogo fruttuoso con il pensiero di Emanue le Severino e con la testimonianza del valore incontrovertibile della verità dell'essere proposta dai suoi scritti: «Il senso che nelle nostre pagine viene attribuito al pensiero di Michelsta edter, e quindi alla persuasione -scrive Bortoluzzi-, appartie ne inevitabilmente alla verità dell'essere, e ne è dunque inevi tabilmente una testimonianza» (Infra, p. 28). Si tratta di un dialogo problematico, non vi è dubbio, dal quale verosimil mente lo stesso Severino prenderebbe le distanze, soprattutto in ragione della possibilità che vi sia una prossimità essenziale tra Michelstaedter e Parmenide («La vicinanza di Michelsta edter a Parmenide è un equivoco», ha scritto verso la metà degli anni Ottanta Severino). Ma il modo in cui Bortoluzzi lo propone è davvero interessante e il disegno che ne risulta è stimolante (mi verrebbe da dire "persuasivo"), così che la pos sibilità di quel dialogo si trasforma in una autentica occasione di pensiero che contribuisce a comprendere «che cosa sia l'uo mo, il suo essere, il suo agire, ovvero la 6losolìa» (Infra, p. 28). Un commento a La persuasione e la rettorica, una interpreta zione di Michelstaedter, una discussione critica dei critici di Michelstaedter, un dialogo (fondamentale, dal punto di vista dell'autore) con il discorso di Emanuele Severino, alla luce del rilievo dell'importanza cruciale del pensiero di Parmenide, ol tre che negli scritti di quest'ultimo, anche nelle pagine di Car lo Michelstaedter: questi i nodi principali che danno corpo e unità al libro. Commentario e interpretazione, s'intende, sono tra loro strettamente connessi: l'una è indispensabile all'altro 14 e viceversa. Oltre a ciò, l'attenzione analitica nei confronti del la Persuasione è funzionale a quello che l'autore propone nel la terza parte del libro, nella quale vengono "denunciati" gli errori che, a suo giudizio, sarebbero stati sinora commessi da gli interpreti, i quali, ( tutti, sia pure in modi differenti) avreb bero più o meno gravemente frainteso l'opera di Michelsta edter anche e forse soprattutto in ragione di una inadeguata attenzione al testo nel suo insieme. Un inciso a proposito dell'errore dei critici (per "fatto personale", come si suol dire). Bortoluzzi, bontà sua, prende ampiamente in esame anche la lettura di Michelstaedter che ho proposto ormai troppi anni or sono nel volume L'arc,o e il destino. Interpretazione di Michel staedter (Francisci, Abano Terme 1985; nuova edizione rive duta e ampliata, Mimesis, Milano-Udine 2019), consideran dola come «l'interpretazione più coerente all'interno del travisamento che perdura in tutte le interpretazioni - pur nel leg randi differen7.e - del pensiero michelstaedteriano» (Infra, p. 290). In primo luogo, secondo Bortoluzzi, avrei commesso anch'io l'errore comune a tutti i lettori di Michelstaedter, che è, nella sostan:za, quello di ritenere «che la persuasione consi sta nel sapersi liberare dalla vita inautentica, cioè dalla rettori ca», perdendo di vista quella che egli indica come «la vera struttura dell'illusione che Michelstaedter denuncia: l'illusio ne della persuasione e la sua faccia storica, la rettorica» (Infra, pp. 290-91). Avrei in tal modo ascritto alla seconda i caratteri che Michelstaedter attribuisce alla prima, finendo per attribu ire anche alla Persuasione i caratteri della rettorica e indivi duando nella volontà di dominio il loro denominatore comu ne: «In de6nitiva - scrive Bortoluzzi -, poiché Brianese vede la rettorica in ciò che di illusorio viene esposto nella prima parte dell'opera (ossia l'illusione della persuasione), e poiché egli accetta l'immagine della persuasione come volontà, come decisione (e quindi come permanere nella volontà di dominio) [. .. ] egli può dire che la persuasione è la redenzione dalla co- 15 stitutiva rettoricità del vivere, in quanto azione che realizza veramente il dominio sulle cose [ ... ] Questa è la forma più compiuta del travisamento essenziale del pensiero di Michel staedter, è il travisamento sul quale tutti gli altri, sia preceden ti che successivi, possono basarsi, pur rimanendo molto lonta ni dalla sua raffinatezza» (Infra, p. 293). C'è del vero in quello che scrive Bortoluzzi e, lo dico seriamente, in un certo senso mi trovo più d'accordo con lui che con il me stesso che, più di trent'anni fa, pensò e scrisse L'arco e il destino: sono cambiato io, ed è naturale che sia cambiato anche il mio modo di dialo gare con Carlo Michelstaedter e di confrontarmi con le sue pagine. Non penso però, né pensavo allora, che la Persuasione consista nella reali7.7,azione del dominio sulle cose. Essa mi appariva piuttosto come il fallimento del tentativo di realizza re quel dominio e come il riconoscimento di fatto della-se mi si passa l'espressione - impotenza della volontà di potenza. Penso però (e non pensavo allora) che quella della Persuasio ne possa essere effettivamente la via della redenzione del mondo dalla rettorica della volontà (da essa, ma anche dalla persuasione illusoria). Una redenzione non nichilisticamente compromessa, capace tra le altre cose di svincolare la persua sione da qualsiasi parentela o solidarietà tanto con la rettorica quanto con la persuasione illusoria. Ma, come è chiaro, non è questa la sede giusta per argomentare in modo adeguato, e dunque non posso che limitarmi a questo rapido cenno. Dal punto di vista ermeneutico, uno degli elementi di novità più significativi e suggestivi del libro di Bortoluzzi, sul quale i let tori di Michelstaedter non potranno d'ora in poi fare a meno di riflettere, consiste appunto in quella correzione di rotta per mezzo della quale ci si propone di oltrepassare quella sorta di luogo comune ermeneutico che percorre pressoché per intero la storia delle interpretazioni di Michelstaedter: l'antinomia di fondo, secondo Bortoluzzi, non è quella tra Persuasione e Rettorica sulla quale la critica si è sin qui per lo più concentra- 16 ta, bensì quella tra la Persuasione (e la rettorica) da un lato, e l'illusione della Persuasione: è quest'ultima, non la Rettorica, «la vera (essenziale) negazione della verità, la rettorica essen do la forma swrica dell'organizzarsi vincente di quella nega zione» (Infra, p. 84). L'esperienza che consente all'uomo di cogliere quel contrasto è anzitutto l'esperienza del dolore: «Quella forma dell'illusione che è il dolore - scrive Bortoluzzi -, comunica la verità dell'illusione. Essa comunica all'uomo il suo essere doppio; da un lato vi è il mortale dell'illusione, che fugge i dolori ossia, da ultimo, teme la morte, vive per vivere, per non morire. Dall'altro vi è la persona che nell'ascolto di tale dolore si afferma attualmente come assenza della paura della morte, in un mondo che è rimasto quello di prima. Chi si afferma nell'attualità? L'io della persuasione o il mortale? Il dolore è quel senso del mortale che, se ascoltato, porta l'uomo di fronte al contrasto tra la persuasione e l'illusione della per suasione» (Infra, p. 312). Siamo di fronte a un'ambivalenza che non può mancare di interrogarci anche nei suoi aspetti più generali: la fìlosofia è teoria o è pratica di vita? Forse è en trambe le cose. E in entrambi i casi la fìlosofia sembra presen tarsi come una risposta al dolore del mondo, come un tentati vo di governarlo o di trasformarlo in una esperienza gioiosa. L'esercizio filosofico, secondo quanto suggerisce Platone nella Settima lettera, costruisce uomini pronti ad apprendere, a ri cordare, a ragionare, e, soprattutto, padroni di se stessi. Ma, prima ancora, crea le condizioni affinché ciò sia possibile, prendendosi cura del dolore del mondo (del dolore dell'esi stenza) e consentendoci di esperire diversamente noi stessi. Si può "insegnare" tutto questo, lo si può "comunicare"? Platone e Michelstaedter, ciascuno a proprio modo, dicono di no: quella filosofica è anzitutto una esperienza, com'è un'e sperien za quella del dolore, che ciascuno non può che rP.alizzarP. e sperimentare in prima persona. Le teorie si possono comuni care, le conoscenze si possono trasmettere con l'insegnamen- 17 to: a vivere (soprattutto a vivere bene, in armonia con noi stes si) non ce lo può insegnare nessuno, anche se - Spinw.a lo insegna magistralmente - non c'è salvezza nell'isolamento: la solitudine è una condizione che può sen7.a dubbio risultare produttiva, magari addirittura indispensabile, ma l'isolamento è distruttivo, improduttivo, sterile; se c'è salvezza dal dolore o se c'è un modo per convivere pacificamente con esso, ciò av viene all'interno della relazione che unisce ciascuno di noi a ciascun altro. Spinoza lo spiega in una pagina del Trattato sull'emendazione dell'intelletto, importante sia per quel che riguarda il problema del bene e del male, sia per quel che ri guarda il tema della "conversione filosofica", sia per quel che riguarda l'importan7.a della relazione, che è sia una relazione intersoggettiva sia la relazione di ciascuno con la natura nella sua interezza. Da questo punto di vista possiamo dire che co noscere se stessi significa comprendere la propria appartenen- 7.a ali'o rdine complessivo della natura, rP.a)iz:zando in sé, o ri specchiandola, l'armonia del tutto. Prestare ascolto al logos, da questo punto di vista, significa riconoscere quell'armonia e realizzarla in se stessi. Come si legge nell'aforisma 112 di Era clito, «L'essere sapienti è la virtù più grande: e la sapien7.a è dire il vero e agire dando ascolto alla natura» (Eraclito, fram mento 112). Italo Valent, nel suo libro più importante - Dire cli no. Filosofia Linguaggio Follia-, scrive in modo suggestivo: «Armonia. Un'altra parola greca; come è greca anche "musi ca", il luogo dove ritmo e armonia imparano a farsi amore[ ... ]. Armonia è una delle parole d'ordine della filosofia nascente». Ma l'armonia, come insegna Eraclito, non equivale di per sé a pacificazione: è anche armonia di tensioni contrastanti, pole mos, conffitto. Essa non esclude il contrasto, il dolore, la con traddizione. Potrà riuscire a superarli, ma non ad estrometter li dall'orizzonte dell'esistenza. L'esperienza, in effetti, può attestare qualcosa di diverso: non l'armonia (del singolo e del tutto) ma la stridente disarmo- 18 nia alla quale, volta per volta, assegnamo nomi diversi: dolore, soffreren:za, male di vivere, e così via. A tal punto che sembra impossibile non solo dame ragione, ma anche solo il riuscire a parlarne, nel momento stesso in cui però ci viene imposto di dare voce anche e soprattutto a quella disarmonia. Il discorso di Michelstaedter, da questo punto di vista, diventa particolar mente incisivo nel dialogo, che Bortoluzzi sollecita, con quello di Severino: «Michelstaedter, con la via della persuasùme, nel testimoniare la verità dell'essere testimonia anzitutto che cosa sia latestimonianza della verità dell'essere. L'agire del persua so è questa testimonian:za. Anche i cosiddetti testi severiniani sono tale testimoniama, lap iù rigorosa. La persuasione è esat tamente questa cosa qui, togliere agli uomini la paura della morte» (Infra, p. 318). Anche per questo il libro di Bortoluz zi si presenta, oltre e più che come uno studio specialistico, come un'occasione di pensiero. Il che, come si capisce, lo ren de particolarmente prezioso. Venezia, settembre 2016. 19 «A.eh, wie gar nichts sind alle Menschen, die doch so sicher leben» J. Brahms, Ein deutsches Requiem, III (Ps. 39, 6)

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