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CAPTIVE OF GOR ITA PDF

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Capitolo 1 IL MARCHIO Il resoconto che segue è stato scritto per ordine del mio Padrone, Bosk di Port Kar, grande mercante e, credo, ex guerriero. Il mio nome è Elinor Brinton. Ero stata ricca e indipendente. Ci sono molte cose che non capisco. Ma lascio agli altri il compito di trovare un significato a quanto narrerò. Mi risulta che la mia storia non sia né unica né tanto rara quanto potrebbe sembrare. Secondo gli standard terrestri, ero reputata una vera bellezza. Eppure, in questo mondo sono solo una ragazza da quindici pezzi d’oro, certamente più bella di molte altre, ma ancora lontana dall’eccellenza che mozza il fiato e che posso solo invidiare. Ero stata acquisita per le cucine della dimora di Bosk. Sapevo che i mercanti percorrevano le rotte degli schiavi fra questo mondo e la Terra. Le donne, come molti altri beni, vengono prese e portate nei mercati di questo strano mondo. Se sei molto bella e desiderabile, devi temere: a quanto pare, loro possono fare ciò che vogliono. Tuttavia, penso che ci sono destini peggiori che possono toccare una donna, rispetto all’essere portata su questo mondo come premio per gli uomini. Il mio Padrone mi ha detto di non descrivere questo mondo in modo troppo dettagliato. Non capisco il perché, ma non lo farò. Mi ha detto di raccontare soprattutto ciò che è accaduto a me. E ha sottolineato che deve trattarsi dei miei pensieri ma, soprattutto, delle mie emozioni. Spero di riuscirci. Non mi piace farlo, ma devo obbedire. Mi basterà accennare alla mia esperienza e alla mia condizione. Ho ricevuto un’educazione costosa ma non completa. Ho trascorso anni e anni di solitudine in scuole e collegi, e infine ho frequentato uno dei collegi per donne benestanti nella zona nord degli Stati Uniti. Quegli anni ora mi sembrano vuoti e frivoli, e non ho incontrato difficoltà nell’ottenere il diploma. La mia intelligenza, a quanto mi risulta, è buona, ma i miei lavori erano sempre valutati bene anche quando mi sembravano scarsi, come del resto accadeva anche alle altre studentesse. I nostri genitori erano ricchi e le donazioni a scuole e istituti universitari spesso seguivano il conseguimento del titolo di studio. Inoltre, non avevo mai frequentato uomini, anche se molti dei miei istruttori lo erano, ed erano difficili da accontentare. Più che altro, erano loro che sembravano desiderosi di accontentarmi. Ero stata bocciata in una sola materia, Francese. Il mio istruttore in questo caso era una donna. Il Decano degli studenti, come era solito fare in queste circostanze, aveva rifiutato di accettare il voto. Mi fecero fare un breve esame con un altro istruttore e il mio voto diventò una A. La donna diede le dimissioni in primavera. Mi dispiacque, ma lei avrebbe dovuto saperlo. Come ragazza ricca, avevo delle difficoltà a farmi degli amici. Ero molto popolare, ma non ricordo nessuno con cui avrei voluto parlare. Preferivo trascorrere le mie vacanze in Europa. Potevo permettermi dei bei vestiti, e l’ho sempre fatto. I miei capelli erano sempre ben tagliati e pettinati, anche se apparentemente potevano sembrare trascurati. Un nastrino colorato, un accessorio appropriato, l’appropriata tonalità di un costoso rossetto,la cucitura su una gonna, la qualità della pelle di una cintura d’importazione, scarpe abbinate, per me tutto era importante. Quando chiedevo la dilazione per un compito in ritardo, indossavo mocassini sformati, blue jeans e maglietta, e un nastro nei capelli. Forse avrei dovuto anche avere un po’ di inchiostro dei nastri per la macchina da scrivere sulle guance e sulle dita, ma avevo solo bisogno di un po’ di tempo in più. E, naturalmente, non avevo mai battuto a macchina. Di solito scrivevo a mano. Mi piaceva farlo. Mi piaceva di più delle cose che potevo comprare. Uno dei miei istruttori, dal quale avevo ottenuto una proroga nel pomeriggio, non mi aveva riconosciuta quella stessa sera, quando si era seduto dietro di me ad un concerto di musica da camera al Lincoln Center. Mi aveva guardata con aria interrogativa, e durante l’intervallo era sembrato sul punto di dirmi qualcosa. Lo avevo freddato con lo sguardo e lui aveva girato gli occhi altrove, con il viso rosso. Indossavo un abito nero, capelli alzati sulla nuca, perle e guanti bianchi. Lui non aveva più osato guardarmi per tutta la serata. Non riesco a ricordare quand’è che sono stata notata. Potrebbe essere accaduto in una strada di New York, su un marciapiede di Londra o in un caffè a Parigi. Potrebbe anche essere accaduto durante i bagni di sole sulla Riviera. Ma poteva anche essere successo nel campus dell’università. Dovunque. A mia insaputa, ero stata notata e stavo per essere acquisita. Ricca, bella ed elegante. Sapevo di essere migliore di tanta altra gente e non avevo paura di mostrarlo, alla mia maniera, perché era vero. È interessante notare che molte persone, anziché essere arrabbiati con me, qualunque siano i loro sentimenti privati, sembravano impressionati e un po’ mi temevano. Mi accettavano per la mia apparenza, che era considerevole. Volevano essermi simpatici. Mi divertivo con loro, a volte mettevo il broncio, fingendo di essere offesa o dispiaciuta, poi sorridevo e lasciavo che mi perdonassero. E loro sembravano grati, raggianti. Quanto li disprezzavo! Mi annoiavano. Io ero ricca, fortunata e bellissima. Loro non erano niente. Mio padre aveva fatto la sua fortuna nel settore immobiliare a Chicago. Era concentrato solo sui suoi affari, per quanto mi risultava. Non mi ricordo di una sola volta in cui mi abbia dato un bacio. Non ricordo di averlo mai visto fare una carezza a mia madre, né lei a lui, in mia presenza. Lei veniva da una ricchissima famiglia di Chicago, con ampie proprietà sulla costa. Non credo che mio padre fosse interessato ai soldi di mia madre, se non altro per il fatto che lui poteva farne molto di più di qualsiasi altra persona. Era un uomo infelice. Ricordo mia madre che ospitava nella nostra casa. Lo faceva spesso. Ricordo anche che mio padre una volta mi disse che lei era il suo bene più prezioso. Era certamente un complimento, a modo suo. Ricordo che era molto bella. Lei avvelenò un barboncino che avevo tanti anni fa, perché aveva strappato una delle sue pantofole. Avevo sette anni all’epoca e piansi disperatamente. Amavo molto quel cane. Quando mi sono laureata, né mio padre né mia madre hanno partecipato alla cerimonia. Fu la seconda volta in vita mia, a quel che mi è dato ricordare, che piansi. Lui aveva un appuntamento d’affari e mia madre, a New York, aveva dato una cena per alcuni suoi amici. Mi spedì un biglietto che accompagnava un costoso orologio, che mi affrettai a regalare ad un’altra ragazza. Quell’estate, mio padre appena quarantenne ebbe un attacco di cuore e morì. Da quello che so, mia madre vive ancora a New York City, in una suite su Park Avenue. Nella divisione ereditaria, mia madre ricevette la maggior parte dei beni, mentre a me toccarono circa 750.000 dollari, prevalentemente in azioni e obbligazioni, una fortuna che oscillava notevolmente a seconda del mercato azionario, ma sostanzialmente in buona salute. E se anche il mio patrimonio fosse stato superiore ai tre quarti di milione di dollari, non mi sarebbe interessato granchè. Dopo la mia laurea, presi un attico a Park Avenue. Mia madre e io non ci vedevamo più. Non avevo più interessi rilevanti come quando ero a scuola. Fumavo molto, anche se lo odiavo. Bevevo anche abbastanza. Non ho mai preso droghe perché mi sembra stupido. Mio padre aveva avuto numerosi contatti di affari a New York, e mia madre ne aveva fatto i suoi amici influenti. Feci una telefonata a mia madre poche settimane dopo la mia laurea, pensando che poteva essere interessante farmi assumere come modella. Avevo pensato che poteva esserci un certo glamour in questo, e che avrei potuto incontrare persone interessanti e divertenti. Pochi giorni dopo fui invitata da due agenzie per un’intervista, che mi aspettavo fosse una mera formalità. C’erano indubbiamente molte ragazze bellissime che volevano fare da modella. La bellezza, in sé stessa, in una popolazione che conta circa dieci milioni di individui, non è certo difficile da trovare. Di conseguenza, in particolare per le ragazze inesperte, si potrebbe supporre che debbano esserci altri criteri diversi dal fascino e dalla bellezza, per determinare le probabilità di riuscita in un settore così competitivo. E fu così nel mio caso. Ritenevo, naturalmente, di poter avere successo a modo mio, ma non ce ne fu bisogno. Mi sono goduta al mia carriera da modella, anche se non era durata più di poche settimane. Mi piaceva indossare gli abiti e li portavo splendidamente. Mi piaceva mettermi in posa, anche se era faticoso. I fotografi e gli artisti sembravano tutti intelligenti e spiritosi, anche se a volte avevano maniere brusche. Erano sempre molto professionali. Uno di essi una volta mi chiamò puttana. Risi. I miei incarichi erano frequenti. Il mio incarico più remunerativo fu quando mi chiamarono per fare da modella per una nuova linea di costumi da bagno, prodotti da una società molto nota, il cui nome è comunque irrilevante ai fini di questo racconto. Non lo accettai. Un lunedi pomeriggio ricevetti l’incarico e dovevo dare una risposta allo studio il mercoledì successivo. Non avevo chiamate per il martedi. La sera prima, avevo dato un giorno di libertà alla mia cameriera di colore fino a mercoledì: volevo godermi la mia casa, stare da sola a leggere e ascoltare musica. Martedì mattina dormii fino a tarda ora. Mi svegliò un raggio di sole attraverso le tende. Era un caldo giorno di ozio. Mi stiracchiai. Era quasi mezzogiorno. Avevo dormito nuda, fra lenzuola di seta bianca. Mi avvicinai al comodino e presi le sigarette e il posacenere. Era tutto normale, nella stanza. Un orso di peluche, un buffo koala, giaceva ai piedi del letto. I libri erano sulle loro mensole. Il paralume era leggermente inclinato, come me lo ricordavo la sera prima. La sveglia, che non avevo impostato, giaceva nel cassetto. La sigaretta non aveva un buon gusto, ma avevo voglia di fumare. Mi sdraiai sulle lenzuola e mi stiracchiai ancora, poi allungai le gambe fuori dal letto e infilai i piedi nelle pantofole. Mi infilai una vestaglia di seta. Spensi la sigaretta nel posacenere e andai in bagno a farmi la doccia. Mi legai i capelli, mi sfilai la vestaglia e aprii la porta scorrevole della doccia, entrandovi. Mi abbandonai subito all’abbraccio dell’acqua calda. Era un giorno caldo, molto molto caldo. Restai qualche minuto con la testa piegata all’indietro e gli occhi chiusi, lasciando che l’acqua calda mi scivolasse sul viso e sul corpo. Poi presi la saponetta e iniziai ad insaponarmi. Quando le mie dita toccarono la coscia sinistra per insaponarla, sobbalzai. Stavo toccando qualcosa che la sera prima non c’era e che non avevo mai toccato prima. Mi appoggiai al muro e allungai la gamba sinistra. All’improvviso, tutto divenne buio. Non potevo più respirare. Ero terrorizzata. Non sentivo dolore ma di sicuro quello non c’era la sera prima! C’era un marchio sulla mia gamba. Sulla parte alta della coscia. Grande circa 5 o 6 sentimetri. Era una lettera in corsivo, anche carina, se vogliamo. Era fin troppo chiaro che non poteva essere una semplice ferita. Era troppo perfetto, chiaro e profondo. Era stato deliberatamente inciso nella mia coscia! Annaspai per riprendere fiato e mi appoggiai con le spalle al muro per non cadere. Con gesti rapidi e rigidi mi lavai il sapone di dosso e uscii dalla doccia. Lasciai il bagno ancora tutta bagnata, e camminai scalza sul tappeto davanti allo specchio che stava nell’angolo opposto della stanza. Respiravo a fatica e mi sembrava che la stanza barcollasse intorno a me. Sullo specchio, c’era un altro marchio, ma non me ne ero accorta prima. Era stato disegnato con il mio rossetto. Era grosso circa una ventina di centimetri ma era identico a quello sulla mia coscia, lo stesso carattere in corsivo. Incredula, mi guardai allo specchio. Mi toccai il marchio sulla coscia. Guardai di nuovo il marchio rosso disegnato sulla superficie dello specchio. Non credevo ai miei occhi. Non sapevo niente di queste cose ma non pensavo ci fosse stato uno sbaglio nell’incidermi quel marchio sulla coscia. Tutto ridivenne nero e svenni sul tappeto davanti allo specchio. Ero stata marchiata! Capitolo 2 IL COLLARE Non ricordo quanto sono rimasta svenuta sul tappeto dinanzi allo specchio. Forse sarà stata circa un’ora, a giudicare dalla posizione del sole attraverso le tende. Mi sollevai in ginocchio e mi guardai allo specchio. Urlai. Stavo impazzendo! Mi presi la testa fra le mani e la scossi. Infilai le dita nella fascia che avevo al collo, cercando di strapparla via. Sicuramente mi era stata messa mentre giacevo senza coscienza! Intorno al collo avevo una graziosa lucente fascia di metallo. Recuperai le mie forze mentali e cercai di rimuoverla. Le mie dita brancolavano nel buio dietro la nuca. Non riuscivo a trovare la chiusura. Lo girai attentamente intorno al collo, essendo abbastanza stretto. Lo esaminai allo specchio. Non c’erano fermagli o chiusure. Solo un piccolo lucchetto e un foro dove poteva entrare una piccola chiave. Era stato bloccato intorno al mio collo! C’era un’iscrizione sulla fascia metallica, ma niente che io potessi leggere. Non era una lingua che conoscevo! Ancora una volta la stanza si oscurò improvvisamente ai miei occhi e mi roteava intorno, ma cercai di non perdere conoscenza. Qualcuno era penetrato nella mia stanza da letto e mi aveva messo un collare. Poteva essere ancora qui. A testa bassa e i capelli ricadenti sul tappeto, a quattro zampe, scuotevo il capo. Strappai i peli del tappeto. Non volevo perdere conoscenza. Volevo mantenere i miei sensi. Mi guardai intorno. Il mio cuore fu ad un passo dall’infarto. La stanza era vuota. Strisciai fino al telefono sul comodino vicino a letto. Mi alzai in piedi con molta esitazione, per non fare nessun rumore. Il telefono non dava segni di vita. Il filo pendeva strappato. Mi salirono le lacrime agli occhi. C’era un altro telefono nel salotto, ma era dall’altro lato della porta. Avevo paura di aprire la porta. Diedi uno sguardo al bagno. Anche quella stanza mi faceva paura. Non sapevo cosa poteva esserci dentro. Avevo un piccolo revolver. Non avevo mai sparato. Mi era tornato in mente solo ora. Saltellando, feci un balzo fino al triplo armadio all’altro capo della stanza. Infilai le mani sotto le sciarpe e gli slips nel cassetto, e toccai l’impugnatura. Mi sfuggì un grido di gioia. Presi l’oggetto. Guardai l’arma, incredula. Non sapevo se piangere o lamentarmi. Semplicemente non capivo proprio cosa fosse successo. L’arma era diventata un grumo informe di metallo. Quasi fosse stato un pezzo fuso di cioccolato. Lo gettai sulle lenzuola e restai inebetita, guardandomi allo specchio. Ero inerme. Ma il mio terrore non era semplice terrore: sentivo che era successo qualcosa di strano, che aveva cambiato i termini del mondo che conoscevo. Ero spaventata. Corsi fino alla finestra della camera da letto e spalancai le tende. Guardai la città. Lo smog la ricopriva come al solito, offuscando la luce del sole. Potevo vedere centinaia di finestre, alcune con i riflessi del sole, immerse in una luce dorata surreale. Potevo vedere i grandi muri di mattoni e i palazzi di acciaio, cemento e vetro. Era il mio mondo. Rimasi immobile per qualche istante, col sole che mi abbagliava attraverso i vetri. Era il mio mondo! Ero nuda al di qua del vetro, con il mio collare di metallo che non riuscivo a togliere. E avevo un marchio sulla coscia. "No!" gridai a me stessa. "No!" Volta le spalle alla finestra e, furtivamente, mi avvicinai alla porta del salotto, che era socchiusa. Feci appello a tutto il mio coraggio ed aprii quella porta: quasi svenni per il sollievo. La stanza era vuota e tutto era come lo avevo lasciato la sera prima. Corsi in cucina, dato che potevo vederla dal salotto. Aprii un cassetto e presi un coltello da macellaio. Mi voltai di scatto, schiena al mobiletto, brandendo il coltello, ma non c’era nessuno. Impugnando il coltello, mi sentivo un po’ più sicura. Tornai nel salotto, dov’era il telefono sul tavolo. Imprecai nel vedere il filo tagliato. Esaminai l’attico. Le porte erano tutte chiuse. La casa era vuota, e anche il patio e la terrazza. Il cuore mi batteva all’impazzata. Ma ero su di giri. Corsi al guardaroba per vestirmi, lasciare la casa e andare alla polizia. Avevo appena raggiunto l’armadio che sentii un pesante colpo alla porta. Mi girai, stringendo il coltello. La bussata fu ripetuta, più insistente.. "Apra la porta" ordinò una voce. "Polizia!" Mi sentii sollevata. Corsi verso la porta, tenendo il coltello. Alla porta mi fermai, stringendo il coltello, terrificata. Non avevo chiamato la polizia! Nell’attico non c’era nessuno che mi avesse sentita gridare. Non avevo sentito nessun suono quando avevo preso il telefono, e infatti il cavo era distrutto. Volevo solo fuggire. Chiunque ci fosse dall’altra parte delal porta, di certo non poteva essere la polizia. Bussarono ancora e ancora. Mi girava la testa. La bussata diventava sempre più forte. "Apra la porta!" sentivo. "Apra la porta. Polizia!" Cercai di mantenere la calma. "Un attimo" risposi con tutta la calma di cui ero capace in quel momento. "Apro la porta fra un attimo. Mi sto vestendo". I colpi alla porta cessarono. "Va bene" disse la voce. "Ma faccia in fretta" "Si" risposi dolcemente. "Ci vuole solo un attimo di pazienza!" Corsi in camera da letto e mi guardai intorno. Presi alcune lenzuola dall’armadio e febbrilmente li annodai insieme. Corsi sulla terrazza. Avevo la nausea solo a guardare oltre la ringhiera. Ma circa 10 metri sotto di me c’era un’altra terrazza piccola, una delle centinaia che sporgevano su questo lato del palazzo. Era dell’appartamento sotto il mio. Con il sole e il vento che mi pungevano gli occhi, e molecole di polvere e cenere che mi cadevano addosso, annodai un capo della corda di fortuna alla ringhiera di ferro che sormontava il muro intorno alla terrazza. L’altro capo della corda lo lasciai cadere fino alla piccola terrazza di sotto. Ero terrorizzata per quello che non avrei mai avuto il coraggio di fare, in condizioni normali. Ricominciarono a bussare alla porta. Si avvertiva l’impazienza nei forti colpi. Avevo realizzato che non potevo portare il coltello con me, perché mi occorrevano entrambe le mani per scendere con le lenzuola di seta. Forse potevo tenerlo fra i denti, ma ero troppo terrorizzata e non pensavo di poterlo fare. Ero ancora in camera da letto quando sentii la porta andare in pezzi, fuori dai cardini e dalla serratura. nascosi il coltello sotto il cuscino e corsi nel patio. Senza guardare in basso, terrorizzata, afferrai la corda di lenzuola e -senza quasi respirare- cominciai a mano a mano a scendere. Ero sparita sotto il bordo della terrazza quando sentii la porta scardinata che cadeva a terra e degli uomini che entravano nell'appartamento. Più veloce che potei, stavo per raggiungere la terrazza di sotto. Ancora pochi metri e sarei stata salva. Avrei potuto attirare l'attenzione delle persone che vi abitavano, magari rompendo uno dei vetri. Sopra di me, nel mio appartamento, sentivo grida rabbiose. Sentivo anche i rumori della strada, molto sotto di me. Non osavo guardare in basso. Finalmente i miei piedi toccarono il pavimento dela terrazza di sotto. Ero in salvo! Qualcosa di morbido e bianco mi scivolò sopra la testa, impedendomi la vista. Qualcos'altro mi fu infilato in bocca. Un altro pezzo di stoffa mi coprì la testa e fu annodato saldamente dietro la mia nuca. Provai a gridare ma non ci riuscii. "L'abbiamo presa!" disse una voce.

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