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Bisanzio e l'Occidente medievale PDF

117 Pages·2019·2.413 MB·Italian
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La millenaria storia dell’impero di Bisanzio ha avuto continui punti di contatto con quella dell’Occidente, basti pensare alla presenza dei bizantini in Italia, dove restarono come dominatori dal VI all’XI secolo. I rapporti si fecero poi conflittuali fino a giungere nel 1204 alla quarta crociata, allorché veneziani e crociati si impossessarono di Costantinopoli. Nel Trecento l’atteggiamento dell’Occidente, e soprattutto di Venezia, fu più accondiscendente nei confronti di Bisanzio, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei Turchi ottomani. Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, ma le discordie fra gli stati europei e la potenza dei Turchi condussero fatalmente alla fine dell’impero nel 1453. Giorgio Ravegnani insegna Storia medievale e Storia dell’Italia bizantina nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Fra i suoi numerosi libri per il Mulino segnaliamo "Andare per l’Italia bizantina" (2016), "Galla Placidia" (2017), "Imperatori di Bisanzio" (nuova ed. 2017), "I bizantini in Italia" (nuova ed. 2018). Giorgio Ravegnani Bisanzio e l'Occidente medievale Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2019 ISBN 9788815283160 Edizione e-book 2019, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 9788815352194 Indice Premessa Capitolo primo L’Età di Giustiniano Capitolo secondo L’Italia esarcale Capitolo terzo Bisanzio nell’Italia meridionale Capitolo quarto Venezia e Bisanzio Capitolo quinto L’Invadenza dell’Occidente Capitolo sesto La quarta crociata e l’impero latino Capitolo settimo Il declino di Bisanzio Cronologia Nota bibliografica Indice dei nomi Premessa La storia di Bisanzio a tutt’oggi non ha il posto di rilievo che meriterebbe nella vicenda del Medioevo. I Bizantini e l’impero bizantino in realtà non sono mai esistiti se non come categoria storiografica: si trattava infatti della metà orientale dell’impero romano, che di questo fu parte inscindibile fino a quando i destini delle due parti non iniziarono a separarsi, con un Occidente destinato a crollare sotto i barbari e un Oriente che al contrario sopravvisse per molti secoli ancora. Bisanzio non fu una realtà astratta e un cosmo a sé stante, inseritosi chi sa come nella storia; ereditò al contrario tutto quanto era romano, senza soluzione di continuità, e lo conservò gelosamente nel corso del tempo, sia pure con gli adattamenti che il trascorrere di questo talvolta richiedeva. I suoi sovrani si definivano imperatori romani e Romani erano chiamati i loro sudditi, che rifuggivano altre designazioni, come Greci o Elleni, considerate dispregiative, e men che mai utilizzarono quella per loro inesistente di Bizantini, valida al massimo per gli abitanti di Bisanzio, l’antica città greca che dal tempo di Costantino I prese il nome di Costantinopoli. Altro pregiudizio da sfatare è che Bisanzio sia stato un mondo chiuso, anche nella ripetitiva ritualità delle sue cerimonie, lontano dall’Occidente e refrattario a qualsiasi contatto con questo. In realtà la più che millenaria storia dell’impero di Bisanzio ha continui punti di contatto con quella dell’Occidente, di cui molto spesso è parte integrante. I Bizantini furono presenti come dominatori soprattutto in Italia, dove restarono per più di cinque secoli, dapprima in possesso dell’intera regione, poi di parte di questa a seguito dell’invasione longobarda della penisola e infine soltanto del Meridione, in cui diedero vita a una brillante civiltà, fino a quando nell’XI secolo i Normanni li cacciarono. La memoria della loro presenza in Italia non è certo ampia come quella di Roma; non mancano tuttavia testimonianze dirette o indirette, visibili soprattutto in campo artistico, come per esempio nei celebri mosaici di Ravenna, che ne sono l’attestazione più alta. Una volta terminato il dominio diretto, i rapporti con l’Occidente non vennero mai meno, anche se furono per lo più di natura conflittuale, come i ripetuti attacchi normanni all’impero o le crociate, che ebbero come corollario una sorda ostilità dell’Occidente nei confronti di Bisanzio. Diverso fu almeno in parte il caso di Venezia, città nata sotto il dominio di Costantinopoli e che con questa mantenne un rapporto particolare, per lo più di collaborazione, fino almeno al XII secolo, subendone fortemente l’influsso in diversi campi. Nel 1204, con la quarta crociata, si raggiunse l’apice dell’ostilità occidentale all’impero di Oriente: Veneziani e cavalieri crociati, anziché dirigersi in Terra Santa, si impossessarono infatti di Costantinopoli, che fu messa a sacco, e di parte del territorio da questa dipendente. Si formò così un impero latino con sede nella capitale e sorsero nello stesso tempo, in Grecia e altrove, altri stati latini che sostituirono la precedente dominazione; a questi si affiancò un dominio marittimo veneziano destinato almeno in parte a durare per parecchio tempo. Si trattò innegabilmente di un atto di dubbia moralità, poiché Bisanzio, ancorché scismatica, era pur sempre una città cristiana; ma era discutibile anche sotto il profilo politico, perché la spedizione crociata, benedetta dal papa per andare a liberare i luoghi santi, si rovesciò al contrario su uno stato che con gli infedeli nulla aveva a che spartire. La città imperiale venne riconquistata nel 1261 dagli esuli bizantini, che ricostruirono così il loro impero sia pure fortemente diminuito nel territorio e minacciato dalle potenze occidentali in cerca di rivincita. Le due vicende storiche di Oriente e Occidente continuarono, come era avvenuto in precedenza, a interferire una con l’altra, mostrandosi una volta in più come inscindibili. Particolarmente attive in Levante divennero le repubbliche marinare di Genova e Venezia, che perseguivano le loro ambizioni di dominio per lo più ai danni di Costantinopoli, con cui erano sia alleate sia nemiche, a seconda delle contingenze del momento. L’atteggiamento ostile dimostrato a più riprese andò però esaurendosi nel Trecento quando l’Occidente, e soprattutto Venezia, divennero più accondiscendenti nei confronti di Costantinopoli, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei Turchi ottomani. Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, sia pure insufficienti e sporadici, ma le discordie degli stati europei e la potenza dei Turchi condussero fatalmente alla caduta dell’impero, nonostante i disperati tentativi fatti dagli ultimi sovrani per tenerlo in vita, e questo alla fine cadde nel 1453 quando il sultano Maometto II si impossessò di Costantinopoli, mettendo così fine alla secolare successione di governanti romani. Capitolo primo L’Età di Giustiniano 1. La fine dell’Occidente romano La caduta dell’impero romano di Occidente, convenzionalmente datata al 476, è un avvenimento che ha impressionato più gli storici moderni di chi lo visse di persona. Non ne sappiamo in realtà molto, perché le fonti per l’epoca sono assenti o reticenti, ma vi sono buoni motivi per credere che l’evento abbia lasciato abbastanza indifferenti i contemporanei. Di quello che era stato l’impero di Roma era infatti rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio, e da un ventennio i sovrani si succedevano senza di fatto governare quasi più nulla. Morto Valentiniano III nel 455, l’ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso infatti da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e per di più condizionati dai reali detentori del potere, ossia i generali barbari. Subito dopo Valentiniano divenne imperatore un losco personaggio di nome Petronio Massimo, un senatore romano, che riuscì a comprare il favore dei soldati di stanza a Roma. Insediatosi il 17 marzo del 455, finì ingloriosamente la sua esistenza un mese e mezzo più tardi quando i Vandali provenienti dall’Africa, approfittando del vuoto di potere che si era creato, andarono ad assediare Roma. Di fronte al pericolo incombente, l’imperatore non seppe pensare di meglio che fuggire: salì a cavallo e tentò di allontanarsi, ma gli andò male perché fu riconosciuto e ucciso dalla folla inferocita, che ne fece a pezzi il cadavere gettandolo poi nel Tevere. Roma venne messa a sacco dai barbari (era la seconda volta dopo la conquista visigota del 410) e la confusione che seguì la vicenda fece sì che il trono restasse vacante per qualche settimana, finché ad Arles, in Gallia, fu eletto un generale di nome Flavio Eparchio Avito. Il suo nome venne proposto dalla nobiltà locale; la designazione fu però resa possibile dall’appoggio di Teodorico II, re dei Visigoti che ormai stabilmente governavano una regione un tempo appartenuta all’impero. Avito si diede da fare senza grande successo per ristabilire il prestigio di Roma e commise l’imprudenza di nominare generale dell’impero il barbaro Flavio Recimero, un illustre personaggio fra la sua gente, in quanto discendente di uno svevo e di una figlia del re visigoto Vallia. Recimero era animato da un’ambizione smodata e subito si adoperò per togliere di mezzo il suo imperatore insieme al comes domesticorum Maggioriano, un altro aristocratico di origine gallica, che come tale comandava un reparto della guardia palatina. Il risultato fu una guerra civile combattuta in Italia: il 17 settembre del 456 il patrizio Remisto, fedele all’imperatore, venne tolto di mezzo a Classe e un mese più tardi fu la volta di Avito, sconfitto a Piacenza e costretto a divenirne vescovo. Erano tempi crudeli, ma stranamente gli fu risparmiata la vita; qualche tempo dopo, tuttavia, mentre cercava di ritornare in Gallia morì durante il viaggio, non si sa se di morte naturale o assassinato. Il trono fu quindi di Maggioriano, o piuttosto di Recimero, che per alcuni anni ebbe saldamente in mano il potere effettivo: essendo un barbaro, non poteva pretendere di diventare imperatore, secondo la mentalità del tempo, e si servì quindi di docili prestanome. Ottenne il rango di patrizio, tradizionalmente portato negli ultimi tempi dell’impero dai generali che lo dominavano, mentre Maggioriano fu proclamato imperatore dalle truppe ed eletto dal senato romano dopo diciotto mesi in cui non vi era stato alcun sovrano (il 28 dicembre del 457). Il nuovo imperatore, a dire il vero, cercò di essere all’altezza del suo ruolo: con alcune buone leggi si adoperò per ristabilire le fortune di Roma e in seguito ebbe l’idea di riconquistare l’Africa, sottratta alcuni anni prima dai Vandali. Mise insieme un grande esercito, composto come usava allora per lo più da mercenari barbarici, e dall’Italia raggiunse la Spagna dove, a Cartagena, doveva attenderlo la flotta. Il re vandalo Genserico, forse il più capace condottiero dell’epoca, fu comunque più abile di lui e fece naufragare i suoi sogni, sconfiggendolo. Maggioriano, impossibilitato a proseguire, rientrò quindi in Italia, ma trovò sul suo cammino Recimero, che non lo aveva seguito in campagna e che nell’agosto del 461 lo catturò all’altezza di Tortona per farlo uccidere subito dopo. Maggioriano evidentemente si era mostrato troppo attivo per i gusti del barbaro, che di conseguenza aveva pensato bene di sbarazzarsene. Questa serie di eventi sembrava abbastanza paradossale: l’impero, benché in agonia, era ancora in grado di riesumare energie imprevedibili, di lottare per la propria sopravvivenza e di emanare buone leggi, anche se è da ritenere che mai siano state messe in pratica. L’effettiva capacità di esercitare il potere si era però spostata dai Romani ai barbari e, se anche l’esercito di barbari del sovrano sembra essere stato fedele, non altrettanto lo fu il suo generale, assolutamente privo com’era di ogni senso dello stato e intenzionato soltanto a far valere la propria smisurata sete di dominio. Recimero era così diventato il padrone incontrastato di ciò che restava dell’Occidente e al posto del defunto imperatore il 19 novembre del 461 fece eleggere a Ravenna il senatore Libio Severo, un insulso fantoccio originario della Lucania, che morì di morte naturale il 14 novembre del 465 senza nulla aver fatto. Dopo di lui fu la volta del senatore Antemio, figlio di un illustre generale dell’Oriente, che Recimero dovette digerire nonostante lo detestasse. Fu proclamato imperatore in prossimità di Roma il 12 aprile del 467: le sue velleità di regnare non furono però durature e nel 471 si arrivò a una nuova guerra civile, conclusasi l’anno dopo con la sconfitta del sovrano in carica e la sua sostituzione con Olibrio, un’altra creatura del generale barbaro. Nel frangente Roma venne nuovamente messa a sacco dalle soldatesche di Recimero (luglio del 472) e Antemio, «eroico» come Petronio Massimo, fu ucciso dalla folla mentre cercava di fuggire dall’Urbe travestito da mendicante. Recimero e Olibrio ebbero il buon gusto di morire entrambi di lì a poco, anche se l’imperatore di cartapesta prima di andarsene nominò patrizio il principe burgundo Gundobad, nipote e successore di Recimero nel controllo dello stato. Gundobad fece innalzare al trono a Ravenna il comes domesticorum Glicerio (5 marzo del 473), spodestato nella primavera dell’anno seguente dal magister militum Dalmatiae Giulio Nepote che attaccò l’Italia con una flotta. Ma neanche questo sovrano riuscì a consolidare il proprio potere: il suo magister militum Oreste il 28 agosto del 475 si ribellò a Ravenna e lo costrinse a fuggire in Dalmazia. Anziché farsi proclamare imperatore, tuttavia, costui preferì che fosse incoronato il proprio figlio Romolo, il quale sul trono assunse anche il nome di «Augusto», storpiato però in Augustolo a motivo della sua giovane età. Oreste aveva il governo effettivo, ma si trovò presto a contendere con un generale barbaro, il comes domesticorum Odoacre, messosi a capo dei mercenari stranieri di stanza in Italia, che a quel tempo costituivano pressoché la totalità dell’esercito di Roma. Questi chiesero per sé un terzo delle terre italiche e, di fronte al rifiuto di Oreste, si ammutinarono a Pavia il 23 agosto del 476 proclamando Odoacre loro re. Oreste si rifugiò a Pavia, ben presto assediata ed espugnata dai ribelli; riparò quindi a Piacenza, dove le sue poche truppe furono sbaragliate, e venne quindi messo a morte. In seguito Odoacre si impadronì di Ravenna uccidendo Paolo, il fratello di Oreste, da cui era difesa, e facendo prigioniero Romolo Augustolo, che fu deposto (il 4 settembre del 476); forse in ragione della giovane età, venne però risparmiato e relegato nel castellum Lucullanum in prossimità di Napoli. Ebbe un trattamento di favore: gli fu concessa una sostanziosa pensione annua e visse verosimilmente in una prigionia dorata. Era forse ancora in vita nel 511; di fatto però non si sente più parlare di lui e non si sa quale sia stata la sua fine. Odoacre era probabilmente uno sciro, ossia un germano orientale, e all’epoca in cui assunse il potere doveva avere all’incirca quarantatré anni. A differenza dei barbari suoi predecessori nel supremo comando militare, rinunciò alla farsa di fare eleggere un sovrano fantoccio e rimandò le insegne imperiali a Costantinopoli, chiedendo al titolare del trono di Bisanzio, Zenone, la dignità di patrizio e l’autorizzazione a governare per suo conto l’Italia. La richiesta era alquanto ambigua, ma non faceva una piega dal punto di vista giuridico. L’impero romano, malgrado la divisione delle due parti fosse divenuta permanente dall’anno 395, era ritenuto unico e, se mancava un titolare del trono in Occidente, il collega orientale era in teoria l’unico detentore del potere. I Romani di Oriente non erano stati a guardare di fronte all’agonia dell’altra metà dell’impero e nel corso del V secolo avevano in alcune occasioni fatto sentire la loro voce. Nel 409 un contingente di quattromila uomini era stato inviato a Ravenna per dare aiuto a Onorio minacciato dai Visigoti e, di nuovo, nel 425 truppe bizantine erano arrivate in Italia per deporre l’usurpatore Giovanni e portare al potere il giovane Valentiniano III, erede della dinastia teodosiana. Negli anni che seguirono i Bizantini non intervennero però con altrettanta decisione nelle faccende dell’Occidente, limitandosi a inviare rinforzi militari al patrizio Ezio, il generale a capo dell’Occidente romano, impegnato nel 452 a contrastare l’attacco di Attila in Italia. Durante la serie degli ultimi imperatori non presero altre iniziative così dirette, ma non di meno intervennero nella loro designazione, forti del potere di legittimazione che la titolarità del trono dava loro, per completare la scelta fatta in Occidente. Costantinopoli non riconobbe formalmente gli imperatori sgraditi o, come nel caso di Maggioriano nel 457, ne ritardò a lungo il riconoscimento. In due casi invece si intromise con maggiore determinazione: nel 465 fu imposto Antemio Procopio, che Recimero fu costretto a subire soltanto perché bisognoso dell’appoggio bizantino per far fronte ai Vandali, anche se l’operazione militare congiunta dell’Oriente e dell’Occidente tentata nel 468 contro questo popolo si risolse in un completo disastro. E ancora nel 474 Leone I da Costantinopoli designò imperatore Giulio Nepote in antagonismo a Glicerio, elevato al trono da Gundobad. Dopo la sconfitta di quest’ultimo Gundobad abbandonò il campo, recandosi in Gallia dove fu acclamato re di parte dei Burgundi, ma questa sua uscita di scena e la vittoria su Glicerio non risolsero i problemi dell’Occidente. Oreste a sua volta non ottenne l’assenso di Costantinopoli e, dopo aver atteso un paio di mesi, alla fine proclamò imperatore Romolo Augusto, che quindi dal punto di vista bizantino era un sovrano illegale. L’autorità di Zenone, che sedeva sul trono di Bisanzio quando l’Occidente crollò, era essa stessa alquanto traballante, visto che nel settembre del 476 aveva da poco recuperato il trono dopo esserne stato rimosso da un usurpatore l’anno precedente; non disponeva di conseguenza delle forze necessarie per poter cambiare il corso degli avvenimenti, ammesso che lo volesse fare, e si limitò a sollevare questioni di natura diplomatica. Rispose infatti all’ambasceria di Odoacre che la concessione era di competenza di Giulio Nepote, considerato da Costantinopoli quale imperatore legittimo. Odoacre, sostenuto tra l’altro dal senato di Roma, non si lasciò pregare, riconobbe formalmente l’autorità di Nepote e fece coniare monete in suo nome, guardandosi bene però dal farlo rientrare in Italia. Lo stesso Zenone si adeguò alla nuova situazione e, scrivendo a Odoacre, in una missiva privata lo chiamò con il titolo di patrizio, congratulandosi con lui per aver preservato lo stato romano. La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’impero di Occidente, anche se questa da alcuni è posticipata al 480, quando Giulio Nepote venne assassinato in Dalmazia. Ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, forse perché riteneva conclusa la vicenda imperiale o, più probabilmente, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere. Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava a esistere nella persona di Zenone, all’ombra della cui autorità il generale barbaro si limitava a esercitare un’autorità delegata. Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo passò sotto silenzio fino al secolo successivo quando, sull’onda della riconquista giustinianea, gli storici iniziarono a rimarcarla. Il comes Marcellino, autore di un Chronicon che giunge fino al 534, è per esempio molto preciso in merito: «l’impero romano – egli scrive infatti – perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai Goti». Odoacre fu un buon governante e si adoperò per rispettare le tre principali istituzioni dell’epoca: l’impero di Costantinopoli, il senato di Roma e la chiesa cattolica. Finì però per mettersi in urto con Zenone, appoggiando a quanto pare anche il ribelle Illo che intendeva rimuoverlo dal trono. Fu l’inizio della sua fine: nel 488 il sovrano bizantino offrì a Teodorico l’Amalo, re degli Ostrogoti, di insediarsi in Italia se fosse riuscito a rimuovere Odoacre. Teodorico era a capo di genti germaniche insediate nell’impero di Oriente che a lungo avevano mantenuto un atteggiamento ora collaborativo e ora ostile verso Costantinopoli; nei periodi in cui l’alleanza con lui era stata solida, Zenone lo aveva insignito del rango di patrizio e della carica di generale (magister militum praesentalis), concedendogli perfino nel 484 l’elevatissima dignità di console. Teodorico e i suoi Goti erano comunque un peso per l’impero, che faticava a tenerli sotto controllo, e rappresentavano il colpo di coda dell’influenza germanica su Bisanzio contro cui i sovrani di Costantinopoli si erano battuti a più riprese nel V secolo. Con una notevole accortezza, tipica peraltro della diplomazia dell’Oriente romano, Zenone pensò quindi di sbarazzarsi in un colpo solo dell’incomodo alleato e di Odoacre. Nell’autunno del 488 lo spedì quindi in Italia con tutto il suo popolo, la cui consistenza viene valutata dagli storici fra le cento e le duecentomila anime. Teodorico, una volta in Italia, vinse Odoacre in battaglia e lo costrinse a chiudersi in Ravenna, dove si arrese nel 493 dopo tre anni di assedio: il vincitore gli aveva promesso di risparmiargli la vita, ma lo uccise subito dopo. Teodorico governò l’Italia come re degli Ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio I nel 497 gli trasmise le insegne imperiali che Odoacre aveva inviato a Zenone, ma ciò nonostante egli non pensò a fregiarsi del titolo di Augusto. Il suo lungo governo fu, a giudizio di molti storici, un periodo felice per l’Italia: si mantenne nei principi stabiliti da Odoacre di rispetto della romanità e attuò nello stesso tempo una proficua collaborazione con l’aristocrazia senatoria. Promosse inoltre importanti opere pubbliche, come il palazzo o la basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e numerose altre ancora, che diedero lustro al suo governo. Ma l’idillio con i Romani era destinato a interrompersi bruscamente quando, dopo la morte di Anastasio I, nel 518 salì al trono Giustino I, un anziano generale illirico sotto il quale cominciò ad avvertirsi un nuovo orientamento politico. La conduzione della cosa pubblica, sotto Giustino I, di fatto faceva capo al nipote Flavio Sabbazio, che aveva assunto il nome di Giustiniano dopo essere stato adottato dallo zio. Giustino I, che a differenza del predecessore era un cristiano di fede ortodossa, prese provvedimenti contro il culto ariano professato da Teodorico e dai suoi Goti, come dalla maggior parte dei popoli germanici. Teodorico, già sospettoso dell’attivismo di Giustiniano e dell’aristocrazia senatoria, in cui vedeva potenziali alleati di Costantinopoli, perse letteralmente la testa, a causa forse anche dell’età ormai avanzata, e rovinò con errori madornali la politica di sostanziale moderazione seguita fino a quel momento. Il re adottò provvedimenti contro il culto cattolico e molti Romani eminenti vennero arrestati o uccisi. I casi più noti della persecuzione furono quelli che riguardarono il papa Giovanni I e i due senatori Boezio e Simmaco. Nel 525 Teodorico inviò una legazione a Costantinopoli guidata da Giovanni I, ma al ritorno, insoddisfatto per come erano andate le cose e timoroso che il papa sostenesse i nazionalisti romani avversi ai Goti, lo fece incarcerare; il pontefice morì in prigionia nel maggio del 526. Nello stesso anno inoltre mise a morte il famoso filosofo Severino Boezio; dopo di lui, la stessa sorte toccò al suocero Quinto Aurelio Simmaco. L’accusa di tradimento era probabilmente falsa, ma l’errore politico fu notevole: Teodorico rovinava così la sua trentennale costruzione politica volta a rendere accettabile il dominio barbarico nell’Occidente romano e rafforzava, nello stesso tempo, le resistenze che a questo opponeva l’aristocrazia romana, la quale ora guardava a Giustiniano come al difensore della propria causa. Lasciò così un’eredità disastrosa ai suoi successori quando, il 30 agosto del 526, si spense a Ravenna a poco più di settant’anni di età. 2. La riconquista giustinianea Giustino I morì il 1o agosto del 527, quattro mesi dopo aver associato al trono Giustiniano il quale, investito da lui del rango di augusto, gli subentrò quindi automaticamente secondo la prassi costituzionale del tempo. Giustiniano come lo zio proveniva da una modesta famiglia dell’Illirico, ma diversamente da lui, che era analfabeta, aveva studiato, soprattutto diritto e religione, per prepararsi al governo dello stato. Era allora un uomo brillante di quarantacinque anni, già sposato con la famosa Teodora, nonostante lo scandalo che aveva suscitato a corte l’unione del principe ereditario con un’attrice. La figura di questo sovrano è una delle più controverse della storia e l’attività che esercitò al servizio dell’impero ebbe sicuramente del prodigioso. Giustiniano cercò di rinnovare e, nello stesso tempo, di rafforzare lo stato con una serie di provvedimenti e di riforme che datano per lo più ai primi anni del suo regno. Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’ex impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre: portò così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta. A tale programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: nonostante le sue umili origini, si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva come ogni sovrano di Bisanzio di aver ricevuto il potere. Quando divenne imperatore si trovò coinvolto in una fastidiosa guerra con i Persiani ereditata dallo zio. Non aveva intenzione di impegnarsi sul lontano e sterile fronte orientale e cercò di concluderla nel più breve tempo possibile, arrivando nel 532 a una «pace perpetua» (che di perpetuo avrebbe avuto solo il nome), anche se con un notevole esborso per l’erario. Non aveva velleità di misurarsi con un popolo così potente e, piuttosto, si preparava a dar vita al suo grande sogno di riconquista dell’Occidente romano. Il primo obiettivo fu l’Africa, che i Vandali avevano sottratto a Roma da più di un secolo: nonostante le difficoltà dell’impresa e il parere contrario dei suoi ministri, Giustiniano fu irremovibile e si lanciò nell’avventura affidando il comando di un’armata a Belisario, il migliore generale del tempo, che già aveva combattuto contro i Persiani. L’impresa era sicuramente da considerarsi a dir poco pazzesca: la regione non era raggiungibile via terra per l’impossibilità di rifornire un esercito in terreni desertici e, sul mare, i Vandali erano una potenza temibile. Unico popolo germanico ad avere acquisito ampie competenze marinare, i Vandali avevano infatti terrorizzato con le loro incursioni il morente impero di Roma: nel 455, come si è visto, avevano preso Roma e tredici anni più tardi erano riusciti a distruggere la poderosa flotta inviata contro di loro. Ma secondo il celebre detto per cui la fortuna premia gli audaci, le cose per i Bizantini andarono al di là di ogni più rosea previsione: le navi nemiche non intervennero, perché impegnate altrove, e le forze di terra vennero facilmente sbaragliate da Belisario in due battaglie campali. La campagna africana iniziò nel 533 con la partenza di una grande flotta imperiale al comando di Belisario, che gettò le ancore sulla costa tunisina presso il promontorio di Caput Vada (oggi Rass Kaboudia). Nell’arco di un anno il corpo di spedizione bizantino ebbe ragione dei Vandali, il cui ultimo re Gelimero fu condotto in prigionia a Costantinopoli. Nel 534 Giustiniano riorganizzò l’amministrazione civile e militare della provincia che, però, soltanto in parte raggiungeva i confini dell’antica Africa romana. Il governo civile faceva capo a un prefetto del pretorio e la suprema autorità militare spettava a un magister militum con cinque duces ai suoi ordini, quattro in Africa e un quinto in Sardegna, che fu annessa al nuovo governatorato. Negli anni successivi l’Africa bizantina fu tuttavia agitata da sedizioni militari e da rivolte degli indigeni Mauri, che i generali di Giustiniano domarono faticosamente. Fu quindi la volta dell’Italia ostrogota, riconquistata con un sanguinoso conflitto, comunemente definito guerra gotica o greco-gotica, che durò dal 535 al 552, ma ebbe poi strascichi per un altro decennio. Qui, dopo la morte di Teodorico, il trono era passato al giovane nipote Atalarico, in nome del quale assunse la reggenza la madre Amalasunta. Atalarico era stato educato alla maniera romana, con grande disappunto dei Goti più nazionalisti che alla fine lo sottrassero alla madre per farlo diventare un guerriero. Atalarico non sopravvisse a lungo al cambiamento di vita, morendo a sua volta nel 534 e Amalasunta, per consolidare il suo potere, si associò al trono il cugino Teodato. Teodato però si accordò con i Goti avversi alla regina, che seguiva una politica filoromana, e nel 535 la depose facendola imprigionare in un’isola del lago di Bolsena, dove fu strangolata per suo ordine qualche tempo più tardi. Giustiniano era alleato di Amalasunta e la sua eliminazione gli fornì il casus belli per intervenire in Italia, subito dopo la riconquista dell’Africa vandalica. Nel giugno 535 una flotta imperiale ancora al comando di Belisario, investito dal suo sovrano come già in Africa del grado di «generalissimo», raggiunse la Sicilia sbarcando un piccolo corpo di spedizione di circa diecimila uomini in prossimità di Catania. Nello stesso tempo un altro esercito imperiale attaccò i possedimenti goti in Dalmazia. Gli Ostrogoti si fecero cogliere alla sprovvista e Belisario occupò la Sicilia incontrando soltanto una breve resistenza a Palermo. La maggior parte delle forze gotiche era infatti dislocata nell’Italia settentrionale e i generali imperiali ebbero buon gioco sfruttando il fattore sorpresa. Belisario si fermò in Sicilia per tutto l’anno 535, attendendo qui gli ordini del suo sovrano, che nel frattempo aveva avviato trattative diplomatiche con Teodato per convincerlo ad accordarsi con l’impero. Le trattative non andarono a buon fine e nel 536 Belisario superò lo stretto, proseguendo le operazioni militari. Risalì la penisola lungo la costa e non incontrò resistenza fino a Napoli, dove i cittadini e i Goti di presidio rifiutarono di arrendersi. La città venne tuttavia espugnata dopo una ventina di giorni di assedio e subì un feroce saccheggio da parte delle truppe imperiali. Questo fatto di sangue, cui Belisario aveva inutilmente tentato di porre freno, fece molta impressione in Italia e destò un forte malcontento nei confronti dei Bizantini che, come già in Africa, ambivano invece a presentarsi come i liberatori delle popolazioni romane dal dominio barbarico. Non fu comunque che l’anticipazione di quanto sarebbe avvenuto in seguito, in parallelo all’inasprirsi del conflitto. La caduta di Napoli portò anche alla fine del regno di Teodato: irritati per la sua inazione, che si sospettava dovuta al tradimento, i Goti si riunirono vicino a Terracina e lo deposero, nominando al suo posto un generale di nome Vitige. Teodato, che si trovava a Roma, cercò di fuggire a Ravenna, ma fu raggiunto e ucciso da un emissario del nuovo re. Vitige lasciò a Roma un presidio di quattromila uomini e, di qui, si recò a Ravenna per riorganizzare le forze gotiche. Belisario a sua volta raggiunse Roma e la occupò senza incontrare resistenza. Il 9 dicembre del 536 gli imperiali entrarono in città e subito dopo Belisario si preoccupò di consolidare le mura aureliane e di fare tutti i preparativi necessari a sostenere un assedio. Nel febbraio del 537 alcune migliaia di Ostrogoti (150 mila secondo uno storico del tempo, ma in pratica dovevano essere un quinto di quella cifra) calarono dal Nord e andarono a

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