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Artworld & Artwork. Arthur C. Danto e l’ontologia dell’arte PDF

389 Pages·2007·17.75 MB·Italian
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n.s., 35 (2/2007), anno XLVII artworld & artwork Arthur C. Danto e l’ontologia dell’arte a cura di Tiziana Andina e Alessandro Lancieri Tiziana Andina, Introduzione. Un Brillo Box in salotto 3 Arthur C. Danto, Significati incorporati come idee estetiche 15 Carola Barbero, Arte in scatola 31 David Carrier, L’estetica di Danto è davvero così generale come pretende di essere? 45 Noël Carroll, Arthur Danto. Filosofia dell’arte e attività critica 67 Simona Chiodo, Lo stile, la rappresentazione, l’espressione (cioè la nozione analitica di soggetto) 81 Jean-Pierre Cometti, L’arte “post-storica” e la fine delle avanguardie 97 Diarmuid Costello, Cosa mai è successo all’“incorporazione”? L’eclisse della materialità nell’ontologia dell’arte di Danto 113 Stephen Davies, La vita a ritmo di Passacaglia 129 Michele Di Monte, Il capolavoro soprasensibile di Arthur Danto. Indiscernibilità, estetica e fede nella storia (dell’arte) 147 Maurizio Ferraris, Mondo dell’arte e mondo delle opere 169 Lidia Goher, Per gli uccelli / contro gli uccelli: narrazioni moderniste sulla fine dell’arte 189 Pietro Kobau, Come può Danto parlare di arte? 223 Dirk Koppelberg, Arthur Danto, Andy Warhol e la natura dell’arte 241 Alessandro Lancieri, I significati incorporati di Danto 259 Joseph Margolis, Danto sulla filosofia dell’arte di Danto 277 Alfonso Ottobre, L’abuso delle proprietà estetiche 293 Demetrio Paparoni, Arthur Danto e la questione formale 311 Richard Shusterman, Arte come religione: la trasfigurazione del Dao di Danto 315 Luca Vargiu, «Like paired dolphins». Sincronia di alternative tra Danto e Belting 335 Stefano Velotti, La scelta di Danto 357 Regina, Wenninger, Lo stile individuale dopo la fine dell’arte 375 Nick Zangwill, L’irrilevanza dell’avanguardia 387 Jerrold Levinson, About Aboutness: Poema Pazzo Pour Arturo 397 artworld & artwork Arthur C. Danto e l’ontologia dell’arte Tiziana Andina INTRODUZIONE. UN BRILLO BOX IN SALOTTO That’s my whole philosophy of art in a nutshell, finding the deep difference between art and craft, artworks and mere thing, when members from either class look exactly similar. What serves the purposes of ontology also serves the purpose of criticism. When you have found a similarity, avert your eyes and look for the explanation of how different artistic expression can look like affines of one another1. Provo a iniziare con un indovinello: quale filosofo potrebbe avere nel salotto di casa, a mo’ di piccolo tavolo postmoderno, una scatola Brillo? La risposta viene abbastanza facile e sono sicura che nessuno si stupirebbe se dicessi di averla vista nel salotto di casa di Arthur Danto a Riverside Drive, New York. Ho conosciuto di persona Danto nell’agosto 2006: avevo programmato un viaggio in Canada, con tappa a New York, e Danto mi ha invitata per un aperi- tivo. Una bella casa nella zona nord di Manhattan; mi ricordo di aver pensato, quando ci entrai, che non doveva costare troppa fatica lavorare e scrivere in un posto così. La finestra del soggiorno, come mi ha spiegato Barbara Danto, si affaccia sul Riverside Park, il parco che costeggia il fiume Hudson. Provate a immaginare di essere all’interno di un rettangolo: a sinistra si estende il limite superiore di Central Park, da dove, con una passeggiata, si può arrivare sino a Middletown, la parte centrale di Manhattan. Di fronte scorre il fiume Hudson 1 Danto 1992: 53. Rivista di estetica, n.s., 35 (2/2007), XLVII, pp. 3-14 © Rosenberg & Sellier 3 e, dietro alle vostre spalle, la Columbia University, l’Università in cui Danto ha lavorato per lunghi anni. Un bel po’ di New York in quel rettangolo, ma anche un bel po’ di storia filosofica americana. Personalmente, dicevo, ho conosciuto Danto nell’agosto 2006, di fatto però lo conosco da molto più tempo. E non solo perché ormai la posta elettronica assolve egregiamente al compito di colmare gli spazi fisici che separano le persone; piuttosto è la mia frequentazione della sua opera che dura ormai da un po’ di anni. Ho cominciato a occuparmi del suo lavoro nel 1993, quando per la tesi di laurea mi è stato chiesto di mettere in luce quello che la filosofia americana era stata capace di fare lavorando sul pensiero nietzschiano. In quella occasione avevo affrontato la questione un po’ da lontano, cercando di mostrare come, contrariamente a ciò che siamo soliti pensare, la ricostruzione del dibattito americano su Nietzsche obblighi a rivisitare anche un bel tratto del pensiero filosofico americano. In questo percorso un po’ tortuoso non sono arrivata su- bito a Danto, vuoi per ragioni banalmente cronologiche, vuoi per questioni più teoriche. Come ben sanno i filosofi continentali che ormai da anni convivono con le controversie aperte dai lasciti nietzschiani, quella del materiale postumo e del presunto protonazismo nietzschiano è stata, anche in ambito americano, una delle questioni più pressanti che, in un modo o nell’altro, andavano risolte pena l’inammissibilità di Nietzsche nel salotto buono della filosofia. A questo compito si dedicò con una certa costanza Walter Kaufmann, che spese non poche delle sue energie intellettuali a districare la questione dei lasciti e a stabilire chi, tra Nietzsche e sua sorella, Elisabeth Förster-Nietzsche, portasse la responsabilità delle tante idee sgradevoli o moralmente inaccettabili che troviamo soprattutto negli inediti nietzschiani. Kaufmann non difettò di buona volontà e di capar- bietà c’è da dire, però, che raccontò una storia tanto sbagliata, a proposito di come andava letto Nietzsche e di quello che era stato il lavoro nietzschiano in ambito filosofico, che era naturale scegliere la sua posizione come modello per una contro-storia. E difatti fu ciò che fece Danto in Nietzsche as Philosopher2. Per ragioni di fatto, dunque, prima ancora che di diritto, cominciavo il mio racconto sui filosofi americani che si sono occupati di Nietzsche proprio da Kaufmann, e incontravo Danto solo in seconda battuta. In realtà – a voler guardare le cose a ritroso – per mettere in chiaro la novità dell’approccio americano a Nietzsche avrei dovuto considerare la questione pro- prio a partire dal Nietzsche di Danto. Quando lesse le pagine in cui raccontavo di questa storia3 Danto mi disse che le cose non erano andate proprio nel modo in cui le avevo ricostruite, e mi inviò un lungo racconto in cui ripercorreva il senso di quell’operazione teorica ed editoriale che fu Nietzsche as Philosopher. Gli proposi di scriverne un articolo4 perché mi sembrava che da lì si capissero molte cose. Si capiva bene per quale motivo un filosofo analitico, pure con tratti 2 Danto 1965. 3 Andina 1999. 4 Danto 2005: 17-23. 4 così particolari come quelli espressi dalla ricchissima personalità di Danto, si fosse accostato a Nietzsche. Si intuivano gli stimoli filosofici che un analitico aveva potuto trovare nella riflessione di Nietzsche e, inoltre, si capiva che Danto era stato uno di quei filosofi che avevano corso il rischio – e che si sono potuti permettere il lusso – di prescindere da tutta quella filologia che era stata fatta sugli scritti di Nietzsche proprio in forza della sua visione teorica. Nietzsche as Philosopher è, appunto, un libro spigliato che ha il coraggio di fare delle scelte, di discutere filosoficamente degli asserti e di proporre delle tesi. Credo sia stato per via di questo coraggio e di questa spregiudicatezza che ho continuato, negli anni, a leggere Danto. Ora – direte voi – perché tirarla tanto per le lunghe e parlare dei lavori di Danto dedicati a Nietzsche in un volume in cui si discute della sua filosofia dell’arte? La parentesi nietzschiana non è accessoria e mi serve per richiamare l’attenzione su un paio di punti importanti. In primo luogo vorrei ricordare che Arthur Danto non si occupa soltanto di filosofia dell’arte. Certo, quello dell’arte è uno dei nodi tematici per i quali Danto è più noto a livello internazionale, ma non è il solo, tanto è vero che c’è chi, come me, si è avvicinata al suo lavoro percorrendo tutta un’altra strada, per arrivare alla teoria dell’arte soltanto in un secondo momento. Possiamo vedere la cosa in questi termini: giungere a Danto passando per Nietzsche è un po’ come se uno entrasse in una casa spaziosa e ben organizzata dalla porta di servizio. Probabilmente ci metteremmo un po’ a orientarci attraverso la disposizione delle stanze, a capire il modo in cui sono organizzate e come si passa da un punto all’altro dell’appartamento, però poi, alla fine, il quadro diventa completo. Io sono entrata da una porta secondaria del sistema di Danto e all’inizio l’obiettivo non era Danto, ma Nietzsche. Da quel punto un po’ periferico del suo sistema mi sono poi guardata attorno (altri hanno fatto la stessa cosa muovendo dalla sua filosofia della storia, dalla sua ontologia realista, dai suoi scritti su Wittgenstein o su Hegel) e sono rimasta affascinata dall’architettura di un pensiero sofisticato e complesso, a tratti divertente, e colpita da una scrittura raffinatissima oltre che da una vivacità intellettuale rigorosa, ma al tempo stesso impertinente e ardita. Danto ha sempre osato molto sia nei temi di ricerca sia nelle posizioni che ha sostenuto, senza per questo allontanarsi da quella metodologia analitica che considera tutt’oggi lo strumento più adatto per svolgere il suo mestiere di filo- sofo. Mi piace considerarlo un rivoluzionario garbato, ma caparbio e credo che Nietzsche lo avrebbe annoverato volentieri tra i suoi interpreti ideali. Veniamo al secondo punto. Un rivoluzionario, dicevo. Troppo per un filo- sofo? Forse, ma provate a considerare la cosa in questi termini: Arthur Danto è Johnsonian Professor Emeritus alla Columbia University e illustre padre della filosofia analitica. Andate ora a scorrere la sua produzione, c’è di che restare sor- presi: un filosofo analitico che si occupa, tra le altre cose, di Nietzsche che ama Hegel e Wittgenstein e che fa della filosofia dell’arte e dell’estetica i suoi orizzonti teorici e di ricerca preferiti. Niente di più irrituale. E tuttavia, se dovessi spiegare 5 a un giovane studente cosa significhi fare ricerca in filosofia lo farei utilizzando l’opera di Danto. Gli direi che è stato capace di aprire la filosofia analitica a temi di ricerca che non le erano propri e, all’inverso, che è stato capace di mostrare a chi filosofo analitico non è che in filosofia ciò che conta sono, prima di tutto, la lucidità dell’argomentazione e la creatività, anche là dove sembra che i vincoli della tradizione siano troppo consistenti perché si possa produrre qualcosa di nuovo. Gli direi anche che i filosofi eccellenti sono qualcosa di più che i semplici tecnici – magari anche sofisticatissimi – della disciplina, perché sono capaci di fare della buona divulgazione senza perdere il senso profondo delle questioni e dei problemi. E Danto è un eccellente divulgatore. C’è una filosofia analitica prima e una filosofia analitica dopo Danto il che, davvero, non è poco. E per chi analitico non è, tutto questo conta qualcosa? Direi di sì, nella misura in cui il lavoro di un filosofo non è semplicemente questione di scuola o di appartenenza a una corrente filosofica. In Italia la filosofia analitica non ha notoriamente vita facile. Provate a pro- porre a un editore un testo di filosofia analitica: a meno che non ne troviate uno particolarmente illuminato vi dirà che sì, sono tutte cose davvero interessanti, ma non per il contesto italiano, visto che qui, in genere, la filosofia analitica non è molto amata. In questo caso probabilmente proverete a consolarvi parlando con un collega degli argomenti del vostro filosofo analitico preferito. Almeno lui, in genere, vi capisce e vi compatisce. Con Danto, però, fino a non molti anni fa non funzionava neppure la strategia consolatoria. Anche volendo rimanere con- finati alla ristretta cerchia degli specialisti, alla fine, se si considerava il panorama nazionale, emergeva che uno dei filosofi analitici più importanti del contesto internazionale era ignoto un po’ a tutti: sia a coloro i quali si occupavano di estetica, perché l’estetica analitica in Italia, e per lungo tempo, è stata disciplina pressoché ignota, sia a coloro i quali in genere maneggiavano più agevolmente la filosofia analitica perché essere filosofi analitici in Italia e nella maggior parte dei casi, è coinciso con l’essere filosofi della scienza o del linguaggio e Danto, che pure ha amato molto Wittgenstein, non ha mai ricondotto la filosofia a un problema di linguaggio e non si è pressoché mai occupato di filosofia della scienza. In più – paradosso dei paradossi – non conoscevano il suo lavoro nemmeno coloro i quali avrebbero dovuto salutare il suo Nietzsche come un tentativo estremamente serio di affrontare un filosofo che tanti non consideravano affatto serio: Friedrich Nietzsche appunto. In buona sostanza: in ambito italiano gli studiosi di estetica lo conoscevano poco, i filosofi analitici non lo amavano molto e per la comunità nietzschiana era, il più delle volte, uno sconosciuto. Possiamo individuare delle ragioni precise dietro una vicenda che, in fondo, fa di Danto una sorta di grande rimosso della filosofia italiana e, almeno questa volta, non tutte hanno a che vedere solamente con il nostro contesto filosofico. Certo, alcune idiosincrasie tutte italiane hanno giocato la loro parte in questa vicenda, e tuttavia il fatto che Danto si diverta tanto a mescolare le carte dei modi più tradizionali di fare filosofia (qualunque sia la tradizione di riferimento) 6 ha certamente avuto il suo peso. Dunque, volendo riassumere il quadro teorico abbiamo: un filosofo analitico che si interessa a Nietzsche, operazione che, come osserva lo stesso Danto5, prima del suo libro era davvero inconcepibile. In più un filosofo analitico appassionato delle tesi hegeliane che elabora in una metafisica dell’arte partendo proprio da quegli artefatti in cui, guarda caso, le proprietà estetiche tradizionali – per esempio la bellezza – sono del tutto assenti: scatole Brillo e similari. Ora, se entrare nel pensiero di Danto attraverso i suoi interessi nietzschiani è un po’ come entrare in una grande casa dalla porta di servizio, la sua filosofia dell’arte, che di recente mostra anche importanti aperture verso l’estetica6, rappresenta invece il salotto bello, la parte più fantasiosa di quella casa, quella in cui Danto osa di più e per più tempo, coniugando la sua passione militante per l’arte con l’altra passione, più matura e professionale, per la filosofia. Credo che la filosofia del Novecento debba molto ad Arthur Danto nella misura in cui la sua filosofia dell’arte7 è un vero e proprio sistema filosofico, declinato spesso e volentieri nella direzione dell’arte. Ancora negli anni Sessanta del secolo scorso i filosofi analitici erano tenuti a rispettare una sorta di obbligo implicito sull’oggetto delle loro ricerche. Potevano cioè occuparsi di filosofia del linguaggio, di logica oppure di filosofia della scienza. E così, almeno per un po’, Danto lavora alla filosofia seria con la mano destra e alla filosofia dell’arte con la sinistra. Questo da un lato; bisogna però ancora segnalare un punto cruciale per comprendere la genesi della sua teoria. Mentre era studente alla Columbia University (siamo nel corso dei primissimi anni Cinquanta del secolo scorso) e si preparava per sostenere gli esami in estetica si stupì, e non poco, della grande discrasia tra gli studi teorici dell’epoca e le forme che l’arte andava assumendo all’interno di quel grande labo- ratorio dell’arte moderna che era ed è New York. Per usare le parole di Danto: «era come se le considerazioni che, in senso ampio, possiamo definire estetiche fossero irrilevanti per la cultura dell’Espressionismo Astratto»8. Come se, cioè, la teoria non volesse occuparsi della pratica, forse proprio perché la pratica stava diventando troppo bizzarra per la teoria e la teoria, almeno quella dei filosofi, non riusciva più a farla rientrare nei propri schemi. Heinrich Wöllflin ebbe a scrivere che non ogni cosa è possibile in ogni tempo e molta parte dell’arte contemporanea testimonia, nella visione di Danto, proprio questo punto. Nel 1917 Marcel Duchamp ebbe l’idea di presentare un ready-made – certamente un oggetto qualunque, ma nel suo genere particolarissimo: un orinatoio – a una mostra. Il comitato scientifico della Society of Independent Artists, che sponsorizzava la manifestazione, si rifiutò di esporre l’opera sostenendo che non si trattava, a tutti gli effetti, di un’opera d’arte. Allo stesso modo, una larga parte del mondo dell’arte nel 1964 non era affatto disposta a considerare il Brillo Box un’opera d’arte. 5 Danto 2005: 17-23. 6 Cfr. Danto 2003. 7 Danto 1981. 8 Danto 2003: 3 [tr. it. di T.A.]. 7 Con Duchamp e Warhol cambia davvero qualcosa di radicale nella fisionomia della storia dell’arte. In qualche modo cioè comincia tutto da lì, da quella scatola Brillo che Danto ha inserito nell’arredamento un po’ curioso del proprio salotto e da una domanda estremamente semplice: che differenza c’è tra la scatola che contiene spugnette insaponate e che troviamo nei supermercati americani e quel- la stessa scatola, esposta da Andy Warhol, e poi nei musei di tutto il mondo? Le scatole sono le stesse e a volerle descrivere non saremmo in grado di individuare delle differenze – è il bello di due oggetti indiscernibili – eppure i destini dei due oggetti, in termini di esposizione innanzitutto (scaffali dei supermercati da un lato e musei dall’altro), ma anche di mercato sono del tutto diversi. Accade di frequente che parti del sistema filosofico generale che troviamo in scritti meno noti, ma non per questo meno importanti di Danto, entrino come in un collage per costruire la sua filosofia dell’arte e la sua ontologia. Il tutto al servizio di una strategia poderosa e al tempo stesso leggera, organizzata intorno a un nodo teorico preciso, una sorta di domanda guida – il problema della identità degli indiscernibili – che Danto vede dipanarsi lungo tutto il corso della storia della filosofia occidentale, per poi crescere e raggiungere piena maturità attuativa nell’ambito dell’arte concettuale. Per capire quello che intendo è sufficiente guardare la copertina – bellissima – di Beyond the Brillo Box: ci troviamo espresso proprio il senso dello stupore che nasce dalla domanda filosofica sugli indiscernibili9 così come ha preso corpo nell’opera di Warhol: La copertina di Beyond the Brillo Box è un’opera di Russell Connor: The Pundits and the Whatsit (1991, 40’x30’) 9 Danto 1992. 8 Un gruppo di gentiluomini del tempo che fu che osservano il Brillo Box con un’aria a metà tra lo sbigottito e l’incuriosito, e che paiono interrogarsi sul tipo di cosa che hanno davanti agli occhi. La questione su cui si incentra la filosofia dell’arte di Danto è proprio un bel rompicapo filosofico, sul tipo di quelli tanto amati da Wittgenstein; uno di quei rompicapi che, però, non sono soltanto il segno di una curiosità intellettuale – a chi, per altro, non è capitato di domandarsi cosa diavolo avessero a che vedere gli scolabottiglie nei musei con l’arte di Giotto, di Picasso o di Malevič – ma anche il segno di un problema eminentemente filosofico. Notoriamente Danto risponde alla domanda che attraversa tanto l’arte quanto l’estetica del Novecento utilizzando a più riprese l’argomento degli indiscerni- bili e inquadrando il suo ragionamento in una filosofia della storia di stampo hegeliano. In questo contesto e in questa fase della riflessione di Danto – che si spinge almeno fino a tutti gli anni Ottanta del secolo scorso – vince la filosofia, nel senso che l’arte nel compiere la sua mossa più azzardata, e cioè esporre gli oggetti d’uso nei musei assimilando, di fatto, produzione ordinaria e produzione artistica, avrebbe passato la palla alla filosofia, decisamente più abituata e meglio avvezza di quanto non fosse l’arte ad avere a che fare con i concetti. Le differenze tra la scatola Brillo di casa nostra e la scatola Brillo di Warhol – sostiene Danto – è di ordine concettuale, non di ordine ontologico né, tanto meno, percettolo- gico. In una sola mossa la famosa scatola ha dichiarato scacco matto alle teorie dell’arte che teorizzano l’imitazione della realtà (il Brillo Box non imita nulla di particolare) e a quelle che teorizzano la rappresentazione (non rappresenta, in fondo, altro all’infuori di sé, casomai rimanda a una serie di significati concet- tuali). Se per rispondere alle domande aperte dai Brillo Box et similia abbiamo bisogno dei filosofi e, soprattutto, se l’oggetto d’arte non ha più le proprietà estetiche che lo distinguono dagli oggetti ordinari, allora – si può concludere – che anche l’artista ha esaurito il suo ruolo. Arte e artisti dovevano svolgere dei compiti che si sono rivelati storici, Duchamp e Warhol sono il segno che quei compiti si sono esauriti. Quando inizia a fare dell’estetica il suo principale interesse di ricerca (1964), Danto lo fa – come lui stesso dichiara – da filosofo analitico affascinato prima di tutto da un problema di metafisica. In veste di filosofo è interessato a elaborare una definizione universale di che cosa sia un’opera d’arte; perciò è naturale che qualcosa di nuovo scatti davvero nel suo modo di porre la questione quando, a seguito delle mosse di Duchamp e Warhol, nei musei entrano opere d’arte che hanno la curiosa caratteristica di essere la controparte indiscernibile di quegli oggetti ordinari che, normalmente, nella loro veste di oggetti ordinari si trovano in luoghi molto meno nobili di un museo (bagni pubblici, scaffali di supermercati e così via). Danto scopre il problema filosofico che si cela dietro a questa bizzarria e cerca di trovare delle risposte eminentemente filosofiche. Non avrebbe senso – dal suo punto di vista – domandarsi se un fisico, servendosi di un’indagine molecolare sulla natura delle due scatole (il Brillo ordinario di Harvey e il Brillo 9 opera di Warhol), potrebbe essere in grado di immaginarsi una risposta. Magari potrebbe anche articolare un elenco lunghissimo di differenze fisiche tra i due oggetti (visto che gli indiscernibili di Danto sono indiscernibili davvero solo se li consideriamo degli esperimenti mentali mentre, nella realtà, una qualche differenza tra le scatole certamente si ha), tuttavia non è questo genere di diffe- renze che può permetterci di capire perché, delle due scatole, l’una trovi posto nei musei, l’altra nei supermercati. In questa prospettiva, l’inafferrabilità della Pop Art è, in fondo, un problema tipicamente filosofico anzi, a ben guardare, metafisico. Sottolinea cioè esplicitamente e anche con una qualche aggressività espressiva che le proprietà estetiche non sono rilevanti l’arte. Se può accadere qualche caso in cui si dia arte a prescindere dalla proprietà estetiche dell’opera – e questo caso si è verificato appunto con l’arte concettuale – allora le proprietà estetiche non sono necessarie all’arte e le teorie formaliste – come nota Danto in The Abuse of Beauty – sono teorie apertamente sbagliate. Notoriamente, pure con differenti sfumature, le teorie formaliste sostengono, un po’ alla stessa stregua dell’internismo in filosofia della mente, che tutto ciò che è disponibile alla percezione estetica risulta, ipso facto, idealmente disponibile all’apprezzamento dell’occhio di un qualunque critico, in qualsiasi momento storico. La tesi di Danto, estremamente coerente negli anni, è che il formalismo non coglie nel segno nella misura in cui non tiene conto della dimensione sto- rica delle opere. Il Brillo Box non avrebbe potuto avere il valore e il significato che ha se, poniamo, Warhol avesse avuto la stessa identica idea nel 1864. Ne consegue, dunque, che l’occhio è storico in un senso particolare. Torniamo dunque alla domanda di partenza: che cosa distingue, allora, oggetti ordinari come i Brillo Box dei supermercati da oggetti d’arte come i Brillo Box esposti da Warhol? Quali sono le proprietà che distinguono i Brillo-da-supermercato dai Brillo-da-museo? Forse il fatto che i primi sono usciti dalla penna di James Harvey, geniale designer americano morto prematuramente, mentre i secondi sono state ri-scoperti da Warhol? È il gesto di Andy Warhol che li fa diventare un’altra cosa? Se la conclusione teorica fosse questa non potremo individuare nessuna proprietà, al di fuori di quelle attribuite dalla storia o dallo Artworld, che permetta di distingue il Brillo-da-supermercato dal Brillo-da-museo. Stando così le cose, nessuna proprietà che appartiene alla sfera fisica dei due oggetti sarebbe utile per ragionare su quello che Danto considera come un fatto puro e semplice. È cioè un fatto che la Pop Art è arte, così come è un fatto, nella prospettiva di Danto, che il filosofo non è autorizzato ad assumersi un particolare onere nor- mativo quando parla di opere d’arte; tutto quel che può fare, casomai, è tentare di trovare una spiegazione per i fatti che si trova davanti, e l’arte concettuale è, appunto, uno di questi. Danto lavora allo sviluppo della sua filosofia dell’arte ormai da molti anni: le tappe fondamentali di questa ricerca sono The Transfiguration of the Common- place (1981) che fornisce il quadro ontologico di riferimento, After the End of Art (1997) una vera e propria storia filosofica dell’arte e, a chiudere la trilogia, 10 The Abuse of Beauty (2003), il testo che sviluppa in senso sistematico le tre Carus Lectures che Danto tenne nel 2001, davanti all’American Philosophical Asso- ciation. The Abuse of Beauty è dedicato alla bellezza una proprietà estetica tra le tante – è vero – e tuttavia la sola di cui si possa dire, prima di tutto in base al portato della tradizione classica, che è anche un valore, insieme alla verità e al bene. Sempre la bellezza è anche il principale obiettivo polemico delle avanguar- die. In questi tre testi soprattutto, ma anche nei moltissimi articoli e nei tanti saggi che li hanno accompagnati10, Danto ha espresso le linee fondamentali di una teoria essenzialista dell’arte11 elaborata su basi realiste. L’ontologia di The Transfiguration prima e di The Abuse of Beauty poi è l’ontologia di un metafisico descrittivo che si guarda intorno e vede un mondo dell’arte popolato da artefatti strani, spesso nemmeno belli e soprattutto diversissimi. Chi decide in merito alla presunta artisticità di questi artefatti? Come facciamo a giustificarli? Quale teoria ci dobbiamo inventare per renderli plausibili facendone delle opere? O forse si tratta di opere che sono delle teorie sotto mentite spoglie? L’idea di Danto è che la soluzione vada ricercata su basi squisitamente teoriche proprio perché la nostra percezione – specie quella visiva – è una sorta di invariante biologica che ci fa vedere il mondo così com’è: «la tesi secondo la quale l’occhio è storico come ogni conoscenza umana – tesi per cui si sostiene che ci sarebbero delle modificazioni della percezione visiva vincolate a, ed eventualmente sintomatiche di, particolari cambiamenti storici, e che si darebbe dunque una storia del vedere del tutto analoga all’evoluzione della produzione artistica – attribuisce al nostro apparato ottico, per come la vedo io, una plasticità di gran lunga superiore a quella che i fatti riconosciuti in materia di percezione mi sembrano autorizzare»12. Nel caso specifico Danto ha in mente un obiettivo polemico preciso, Marx Wartofsky, che considera la visione alla stregua di un artefatto culturale, plasmato dalle modificazioni storiche delle nostre pratiche. Ovviamente il nome di War- tofsky indica un obiettivo polemico più ampio, e la critica di Danto è rivolta a tutte quelle posizioni che sostengono, con declinazioni differenti, che l’occhio è condizionato culturalmente e storicamente e che la visione umana è prima di tutto il risultato dei nostri schemi concettuali. In sostanza ritiene infondata la tesi secondo cui noi vedremmo nel modo in cui ci rappresentiamo le cose e che, dunque, cambiando i modi della rappresentazione dovremmo cambiare anche quelli della visione. L’idea di Danto è che una tesi del genere non abbia alcun riscontro scientifico e che dunque non debba trovare spazio nemmeno in ambito filosofico. La precisazione andava fatta e avviene – non a caso, credo – dopo che Danto si è confrontato a lungo con quanto la sua teoria concedeva all’interpretazione. 10 Cfr., per esempio, il dibattito estremamente interessante sviluppato nella forma del simposio ideale dal Journal of Aesthetics and Art Criticism, 59/1 (2001) dal titolo The Historicity of the Eye. Il lettore italiano può giovarsi della eccellente traduzione di M. Di Monte 2007. 11 Ben più autorevolmente di me sostiene questa stessa posizione Noël Carroll 1993. 12 Danto 2001: 1. 11

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La filosofia dell'arte di Arthur C. Danto analizzata e discussa da alcuni dei suoi interpreti.
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