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Arrivano i nostri PDF

202 Pages·2004·0.808 MB·Italian
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Arrivano i nostri Alfio Caruso Longanesi - 2004 Proprieta' Letteraria Riservata Longanesi & C. (c) 2004 - 20122 Milano, corso Italia, 13 Il nostro indirizzo internet è: www.longanesi.it ISBN 88-304-2128-6 A Vittorio Majorana l'amico ritrovato e troppo presto perduto. 1. Quella mattina di maggio. Giosuè appoggiò la doppietta al grosso albero di castagno ed estrasse dalla bisaccia lo spesso tovagliolo a quadratoni azzurri. Mentre lo apriva si diffuse il penetrante effluvio dell'aglio misto al profumo dell'olio invecchiato e delle olive che vi si erano macerate. "Proprio ora?" chiese Pippo spazientito. Con il fucile a canne sovrapposte inquadrò la fetta di terreno fino a pochi secondi prima tenuta sotto mira dalla doppietta di Giosuè. "Alla fame non si comanda", rispose Giosuè addentando le due fette di pane casereccio guarnite con olio, aglio e olive. Le aveva preparate in casa che era ancora buio, attento persino ai sospiri: la cucina confinava con la stanza da letto dei genitori e il sonno di sua madre era come il foglio di carta velina. A contatto con la lama del coltello, la crosta del pane ormai vecchio di sei giorni aveva crocchiato. Giosuè si era fermato: vuoi vedere che la mamma... Per fortuna, niente. Le olive "cunsate" stavano nel panciuto barattolo di vetro, secondo ripiano della credenza. Le curava suo padre, preoccupato che il livello dell'olio superasse di un buon dito quello delle olive. Non era preoccupazione da niente con il prezzo raggiunto dall'olio al mercato nero e la crescente difficoltà di procurarselo, benché il paese fosse circondato da terrazze di uliveti. Giosuè era stato molto scrupoloso nel prelevare assieme alle olive una quantità minima di olio. Gli sembrava quasi di rubare alla famiglia, ma il turbamento era stato subito scacciato da ciò che aveva annusato: una fragranza che sapeva di sole, di vento, di terra morbida, di zagara. Almeno così sosteneva il suo professore di storia e filosofia al liceo classico di Adrano. Per Giosuè, molto più semplicemente, sapeva di bontà, di solleticamento sul palato, di gioia che preparava un'altra gioia: il vino con cui spegnere il sapore asprigno rimasto in bocca e che a sua volta spianava la strada al prossimo morso. Ma il vino andava conquistato. Doveva versarlo dal bottiglione nella borraccia ed era ad altissimo rischio di rumore. Con la lingua Giosuè aveva pulito e ripulito il cucchiaio adoperato per le olive e gli era parso un anticipo delle delizie future. Poi con lo stesso cucchiaio aveva cominciato il travaso del vino fino a riempire la borraccia per un terzo; a quel punto si era spostato verso la porta e aveva completato l'opera direttamente, fino all'orlo del tappo. Con il vino si poteva anche esagerare: lo forniva zio Alfio, il papà di Pippo; proveniva da un vigneto a quasi mille metri, quattordici gradi uno più vero dell'altro, da far secchi quanti non fossero abituati. Ma a Biancavilla dai sei anni in su erano tutti abituati. Quand'era uscito di casa il vecchio orologio a pendolo dell'ingresso segnava un quarto alle cinque. L'appuntamento con Pippo era all'abbeveratoio, appena oltre le ultime case sulla strada che s'inerpicava verso l'Etna. Si erano confusi in mezzo a gabellotti e braccianti diretti ai vigneti, ai castagneti, agli uliveti. Qualcuno a dorso di mulo, qualcuno a sospingere la bicicletta che sarebbe servita al ritorno in discesa, molti a piedi. Uomini, donne, ragazzi confortati dall'aria tiepida di una primavera che già annunciava l'estate e dalla prospettiva che l'indomani sarebbe stata domenica e anche per loro avrebbe significato ventiquattr'ore di riposo. Dopo due chilometri Giosuè e Pippo avevano lasciato la lingua d'asfalto e si erano inoltrati per viottoli e sentieri. Le zone intorno all'Etna venivano ormai pattugliate dall'esercito alla ricerca di sabotatori, spie, agenti infiltrati, accaparratori, borsaneristi, profittatori, di tutti i fantasmi, insomma, che la paventata invasione della Sicilia e l'agonia del regime fascista ingigantivano. Erano pattugliamenti saltuari, casuali, affidati alla buona volontà dei comandi e della truppa, ma Giosuè e Pippo avrebbero avuto problemi a giustificare i due fucili con i quali si accompagnavano. Magari non li avrebbero presi per quinte colonne degli anglo-americani, tuttavia nella migliore delle ipotesi i militari avrebbero sequestrato le armi e questo, al di là del danno economico, avrebbe significato la rinuncia alla caccia. Una rinuncia dolorosissima: per entrambi rappresentava lo svago principale assieme alle furtive visite al casino, dovevano ancora compiere diciott'anni. La modesta battuta di quel sabato 8 maggio 1943, alla ricerca di uccelli di passo e di qualche coniglio selvatico sfuggito alla fame dei contadini, rappresentava per Giosuè e Pippo il modo migliore di festeggiare la notizia sussurrata il giorno prima dal professor Gioacchino Biondi, il giovanissimo docente di latino e greco: con gli Alleati a un passo dalla Sicilia niente esami di licenza liceale. Addio all'incubo di tre anni, dunque promozione garantita per Giosuè e Pippo, che comunque avevano la media dell'8, e soprattutto vacanze anticipate. Allora, domattina si va a caccia, aveva detto Pippo a Giosuè mentre in calesse percorrevano i tre chilometri di vialone che univano Adrano a Biancavilla. Adesso erano lì, nella postazione abituale sul poggio, da cui dominavano il boschetto e la spianata, pronti a far fuoco su qualsiasi cosa si muovesse. In verità solo Pippo appariva pronto, Giosuè stava infatti combattendo con ottimi esiti la sua battaglia contro la fame: le due fette di pane con olive nere, aglio e olio erano sul punto di soccombere e lo stesso si poteva dire del vino nella borraccia. "Hai finito?" chiese Pippo. "Mi manca il ruttino", rispose Giosuè con un sorrisetto d'intesa. Pippo rimase di vedetta pregustando il momento in cui avrebbe attinto dal borsone in pelle stipato sin dalla sera prima. Era sovrappeso e felice di esserlo, la guerra non aveva interferito con le abitudini alimentari della sua famiglia. Il padre possedeva aranceti, vigneti, campi di grano, allevamenti di maiali, ma il colpo di fortuna erano diventati il mulino e il trappeto, gli unici in quei mesi a servire Biancavilla, Adrano e i dintorni. Pippo aveva portato una forma di pane fresco - a casa sua impastavano il martedì e il venerdì -, pecorino con il pepe, salame, una bottiglia di vino e in più il dolce: due fette di sanguinaccio, una era per Giosuè. Il quale Giosuè se la prendeva comoda, ora si stava stiracchiando. Pippo decise che conigli e uccelli potevano continuare a spassarsela, lui avrebbe mangiato. Nell'aria immota del mattino il silenzio fu scalfito da un fruscio lento e regolare. Pippo e Giosuè si guardarono smarriti: vuoi vedere che ci hanno visti, ci hanno seguiti e stanno venendo a prenderci? Circondati e catturati dal regio esercito. Non solo la confisca dei fucili, ma anche gli sfottò degli amici, dei conoscenti, dell'intero Circolo Castriota, che raccoglieva la buona società di Biancavilla. Di morire dalla vergogna per i prossimi sei mesi, maledizione agli esami di licenza liceale e a chi li aveva annullati... Probabilmente furono la rabbia, la frustrazione, il senso d'impotenza a indurre Pippo a puntare il fucile verso il fruscio lento e regolare in avvicinamento sulla salitella sfociante sul poggio. Gli occhi di Pippo e di Giosuè vi si erano fissati in attesa del peggio, nemmeno badarono alle tre beccacce in transito a volo radente sulla spianata. Dapprima scorsero la mola, poi la ruota e il manubrio, infine un tipo di città, che per lo stupore di trovarsi a dieci metri da un fucile spianato si piantò all'istante. Stava irrigidito accanto alla bicicletta nel suo doppiopetto di lana autarchica e grigiolina. Portava una camicia bianca, cravatta fantasia, sandali a buon mercato e calzini beige. "Amici?" chiese il tipo di città. " Ma voi siete davvero un arrotino? "Giosuè stentava a capacitarsi di ciò che vedeva. Il tipo di città esibì una sciolta parlantina: certo che era un arrotino, girava per campagne e paesi, aveva fatto Centuripe e Adrano, era diretto a Biancavilla e Licodia, tagliava attraverso i campi per evitare brutti incontri e nella speranza di trovare clienti nelle masserie. I carusi potevano garantirgli che si trovava nella direzione giusta verso Biancavilla? Pippo non capiva. Non capiva che cosa ci facesse un arrotino alle otto della mattina dove Dio aveva perso le scarpe. Non capiva perché un arrotino se ne andasse in giro agghindato come un damerino. E poi non capiva quel dialetto che all'apparenza era il loro, però aveva termini e suoni forestieri, un'inflessione che gli ricordava quella di Turidduzzu, il figlio del notaio di Enna suo compagno in terza elementare al collegio Capizzi di Bronte. Di modo che più Pippo non capiva, più non abbassava le canne sovrapposte del fucile, alle quali il tipo di città continuava a lanciare sguardi preoccupati. Tranquillizzato da Giosuè, l'arrotino ridiscese il dolce pendio del poggio e s'avviò sulla trazzera che dalle Vigne conduceva allo stradone prima dell'abbeveratoio di Biancavilla. Lo seguirono con i fucili in braccio finché non fu inghiottito da una macchia di arbusti. L'incontro mandò di traverso la giornata. Giosuè e Pippo tornarono in paese sicuri di avere incontrato un impostore, che tutto era fuorché ciò che diceva di essere. Domandarono al pizzicagnolo e al macellaio se si fosse presentato un arrotino. Mai visto. Non l'aveva visto don Peppino, che teneva le cassette di frutta e verdura dinanzi a casa, e neppure zia Concettina di postazione dall'alba al tramonto sulla sedia impagliata all'inizio di corso Vittorio Emanuele. Nei giorni a seguire, nell'andirivieni in calesse fra casa e scuola, l'enigmatica figura dell'arrotino occupò un posto fisso nelle elucubrazioni, e soprattutto nei rimpianti, di Giosuè e di Pippo. Rimpiangevano di non averlo perquisito, sicuri che avrebbero rinvenuto armi e mappe, rimpiangevano di non averlo trascinato fino alla caserma dei carabinieri, rimpiangevano di non averne scoperto la vera identità. Magari era un americano... A quella parola venivano trasportati in un mondo sconosciuto fatto di sigarette, di libertà, di grandi incontri con femmine meravigliose e con uomini ricchissimi come non se ne vedevano neanche a Catania. La rabbia di essersi fatti infinocchiare sfumava nel disappunto di aver mancato l'occasione di parlare con un americano autentico, non come quelli che erano rientrati a Biancavilla tra il '40 e il '41, incapaci persino di pronunciare good morning nonostante vent'anni di Brooklyn. Giosuè e Pippo conservarono nitido il ricordo dell'arrotino mentre l'euforia per l'abolizione degli esami di licenza si trasformava in angoscia per l'invasione dell'isola, data per imminente. In giugno s'aggravarono i problemi dei rifornimenti e dei collegamenti con il resto del Paese, s'intensificarono i bombardamenti su Palermo, Catania e le altre città siciliane. Su Biancavilla cadde una sola bomba: centrò l'unica banca e mettendola fuori uso mise in ambasce i quindicimila abitanti, impossibilitati ad attingere ai depositi e di conseguenza senza il denaro necessario per procacciarsi al mercato nero il tanto che era sparito dalle tessere annonarie. Lo sbarco del 10 luglio, preceduto da un terrificante bombardamento di Catania - di cui a Biancavilla, distante oltre 30 chilometri, si udivano gli scoppi e si vedevano le colonne di fumo delle esplosioni e degli incendi -, riversò nelle campagne una marea di sfollati. Biancavilla fu abbandonata il 12 luglio. Pippo ebbe assegnato dal padre il compito di garantire che il mulino e il trappeto non interrompessero la produzione. Lui provvedeva muovendosi a cavallo: la qual cosa significava una totale indipendenza in tempi di generale costrizione. Nei rari posti di blocco soldati e carabinieri chiudevano un occhio dato che le pagnotte del rancio dipendevano dal mulino di don Alfio. In breve tempo Pippo fu a conoscenza di ogni segreto: in quale solaio si era rifugiato il gerarchetto con l'amante e in quale ovile stavano i tre aviatori inglesi abbattuti dalla contraerea di Paterno; sapeva che nel boschetto di Montalto erano accampati un pugno di marinai scappati da Augusta e che nella caverna della Pomici gli aderenti al MIS (Movimento per l'indipendenza della Sicilia) avevano nascosto moschetti, pistole e bombe a mano. Pippo visse settimane indimenticabili, la sua stessa esistenza ne fu segnata. Durante una galoppata per rifornire di farina alcuni amici s'imbattè in una ragazza identica a Norma Shearer, la protagonista con Leslie Howard di un'acclamata trasposizione cinematografica di Romeo e Giulietta: sarebbe diventata sua moglie, la madre dei suoi figli, e con lei avrebbe trascorso più di mezzo secolo. L'arrivo ad Adrano di un battaglione della divisione Goering aggiunse il brivido del pericolo. I tedeschi prima sparavano poi s'informavano, avevano voglia di razziare ed erano portati ad assimilare ogni civile a una spia degli inglesi, impegnati sul fiume Simeto a sfondare l'ultima resistenza prima di Messina. Catania cadde il 5 agosto, le avanguardie della 51a divisione britannica raggiunsero Biancavilla il 6, la popolazione fece rientro l'8, domenica. Una settimana dopo - era ferragosto, ma nessuno ci badò - venne celebrata a mezzogiorno una messa solenne di ringraziamento. La Matrice era stracolma di fedeli. Pippo e Giosuè stavano seduti sui gradini a godersi il sole. Una pattuglia di soldati scozzesi in assetto di combattimento vigilava dall'estremità occidentale della grande piazza. L'eccitazione di alcuni bambini annunciò l'arrivo di una jeep americana. Il conducente frenò di colpo in una nube di polvere, il passeggero che gli stava a fianco con un salto superò lo sportello. Indossava la divisa di capitano dell'esercito USA. Giosuè attirò l'attenzione di Pippo: era l'arrotino. Anche lui li aveva riconosciuti. "Come va, carusi?" disse con un bel sorriso. Giosuè e Pippo s'alzarono in piedi e farfugliarono qualcosa d'incomprensibile. "Tu", disse ancora l'ufficiale indicando Pippo, "quel giorno morivi dalla voglia di usare il tuo fucile. E avresti fatto male perché ti saresti giocato questo..." Un pacchetto intonso di Lucky Strike venne lanciato con noncuranza e afferrato al volo da Giosuè. "Adesso che siamo amici, me la date un'informazione?" Giosuè e Pippo non chiedevano di meglio. "Mi sapete dire dove posso trovare padre Nino Arcidiacono?" Era il sacerdote che si occupava dei giovani dell'Azione Cattolica e che in quei giorni aveva chiesto a Pippo e al suo amico Nino se volevano partecipare alle riunioni preparatorie per la rinascita del partito cattolico, che si sarebbe chiamato Democrazia Cristiana. Il fervore e l'ascendente di padre Arcidiacono derivavano dall'esser stato fra i segretari di don Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare. Negli infuocati anni Venti padre Nino lo aveva rappresentato nella Sicilia orientale e dopo l'esilio a Londra imposto dal Vaticano ne aveva continuato l'opera politica. Padre Arcidiacono era rientrato nella natia Biancavilla ad attendere che la Storia facesse il suo corso. Il filo con don Sturzo non si era mai spezzato, neppure quando fra i due ci si era messo di mezzo l'oceano Atlantico. Nel '41 l'ostinato sacerdote di Caltagirone - discendente di Giuseppe Sturdza, un barone moldavo rifugiatosi a Odessa a metà del XVI secolo e da qui trasmigrato a Catania - viveva a New York ed era entrato in contatto con gli ambienti dell'amministrazione Roosevelt. La sera in cui padre Arcidiacono aveva sussurrato ai ragazzi che don Luigi (Sturzo) stava con gli americani parecchie braccia si erano levate al cielo. Già nel '42 molti siciliani, soprattutto tra quelli nati dopo la Grande Guerra, sentivano i cowboy molto più prossimi dei polentoni, che non erano semplicemente gli abitanti del Norditalia, bensì quelli del Nord diventati fascisti. Giosuè spiegò al capitano che padre Arcidiacono era uno degli officianti la messa solenne, quindi bisognava avere pazienza. "Vabbe', nell'attesa vado a dare un'occhiata." "Capitano", chiese Pippo, "anche quel giorno cercavate padre Arcidiacono?" "L'amico tuo è un po' curioso, no?... Un po' troppo..." Giosuè, cui era stata rivolta la domanda, non seppe che cosa rispondere. "Paisà", disse il capitano a Pippo, "lascia stare, è una storia lunga." Infatti era cominciata più di dieci anni prima. 2. Tutti per Roosevelt. L'Hotel Drake di Chicago assomigliava alla sua clientela: di buon livello, ma senza fronzoli. Essendo luglio, i democratici avevano strappato un ottimo sconto per tenervi la convenzione incaricata di nominare il candidato alle elezioni presidenziali del 1932. Era la solita estate di Chicago, umida e afosa, i delegati sbuffavano per il caldo, puzzavano di sudore e agognavano il momento in cui si sarebbero tolti da quella fornace. La scelta, però, si presentava lunga e problematica tra i due candidati che avevano svettato nelle primarie, Albert Smith e Franklin Delano Roosevelt. Dopo dodici anni di dominio repubblicano, con Wall Street al minimo della sua storia a tre anni dal crollo borsistico (l'indice Dow Jones era precipitato da 500 punti a 50), gli adepti del partito dell'asinello sentivano di essere a una svolta: toccava a loro prendere per mano gli Stati Uniti e avviarli verso la ripresa. Ma chi era l'uomo giusto dal quale farsi indicare la strada? Nelle frenetiche ore della vigilia, nei convulsi e repentini passaggi di campo delle delegazioni, due frequentatori dell'hotel Drake sembravano non avere dubbi benché non si trovassero a Chicago per votare, per fare lobbing o per dare consigli. Erano lì per concludere un buon affare. Gli amici li chiamavano Charlie Lucky Luciano e Frank Costello; all'anagrafe il primo faceva Salvatore Lucania, il secondo Francesco Castiglia. Nati entrambi in Italia, erano giunti negli Stati Uniti da bambini. Incarnavano alla perfezione il sogno americano. Salvatore Lucania proveniva da Lercara Friddi, un piccolo paese in provincia di Palermo che nel 1897 aveva dato i natali a lui e a Pietro Scaglione, il procuratore di Palermo ucciso dai corleonesi nel 1971. Salvatore era il terzo dei cinque figli di Antonio Lucania, emigrato nel 1904 a New York, dove la famiglia, capeggiata dalla moglie Rosa, l'aveva seguito l'anno successivo. Papà Antonio impersonava l'altra faccia del sogno americano: dodici ore di lavoro giornaliero in una fabbrica di bronzine, sempre ligio alle regole, mai un problema con i capi e con la giustizia. Il premio era stato la cittadinanza americana conferitagli nel 1929. Nell'ottobre di quell'anno Salvatore, già diventato Charlie Luciano, era sopravvissuto all'atroce morte lenta comminatagli da una banda rivale nello spaccio degli stupefacenti: l'avevano appeso con un gancio da macellaio, che gli trapassava la gola e il mento, alla trave di un magazzino abbandonato di Staten Island. I suoi aguzzini ritenevano che sarebbe spirato dopo terribili sofferenze; invece il peso del corpo, benché Charlie fosse mingherlino, l'aveva fatto precipitare in terra: malridotto, ma vivo. In quell'occasione i compari l'avevano soprannominato Lucky (fortunato) e lui ci aveva aggiunto il tatuaggio di un ferro di cavallo sul braccio. Luciano deteneva già una posizione di preminenza nella "famiglia" di Joe Masseria, il boss di Castellammare del Golfo che dopo decenni di confusione e di guerre feroci aveva unificato le bande della mafia a quelle della camorra e della 'ndrangheta: in parole povere, le aveva sottomesse. Luciano aveva la responsabilità dell'East Side, il quartiere in cui viveva dal giorno dello sbarco e in cui vivevano i suoi genitori, le sue sorelle, i suoi fratelli, tutti cittadini rispettosissimi della legge. Lucky invece aveva cominciato molto presto a violarla. La prima condanna, per il possesso di mezzo grammo di eroina, risaliva al 1916: sei mesi di carcere. Uscito dal penitenziario di Blackwell, il ventenne emigrante, che masticava ancora male l'inglese, aveva provato a farsi spazio nelle attività più remunerative, che erano perciò le più affollate: droga, prostituzione, gioco d'azzardo, estorsione. Non era soltanto il più spregiudicato e il più abile, già allora era il più fortunato. Nella sua ombra si muovevano quattro amici d'infanzia assieme ai quali aveva frequentato l'università della strada sui marciapiedi della First Avenue. Erano un ebreo mezzo russo e mezzo polacco, Meyer Lansky; un ebreo tedesco Benjamin Siegel, detto Bugsy - il futuro ideatore di Las Vegas che finirà con una pallottola in testa per ordine dei soci indispettiti dalle spese eccessive -; un bel guaglione di Avellino, Giuseppe Doto, chiamato Joe Adonis per l'avvenenza, e infine Frank Costello, il taciturno ragazzino calabrese di Soverato arrivato nel 1897 al seguito della madre per ricongiungersi al padre e ai tre fratelli maggiori. A differenza dei suoi coetanei, spesso vestiti di stracci, Ciccillo aveva affrontato i dieci giorni di viaggio sul piroscafo con una elegantissima divisa da marinaretto: era stato il precoce esordio del futuro bon vivant. Luciano, Lansky, Costello, Adonis, Siegel costituivano una squadra affiatatissima, sempre in grado di far pesare la forza del numero e delle entrature che ciascuno possedeva: Meyer e Siegel avevano preziosi agganci nella malavita ebrea, Adonis conosceva quelli della camorra, Costello quelli della 'ndrangheta. Proprio Adonis aveva introdotto nella comitiva un tozzo diciottenne di Risigliano (Napoli), Vito Genovese, che il padre nel 1913 aveva fatto giungere a Brooklyn. Agli occhi del mondo Luciano comandava la combriccola, mentre in realtà era un primus interpares, cioè Lansky e Costello. Anzi, Lansky era la vera testa pensante, con una capacità strabiliante di guardare avanti. Il legame tra lui e il sicilianuzzo ricoperto di cicatrici e di sfregi fu indissolubile. Assieme costituirono una coppia imbattibile, il Mazzarino e il Richelieu del crimine mondiale: se nel 1998 Luciano è stato definito dal Times il più grande fuorilegge del XX secolo, degno di figurare accanto a giganti del Novecento come Roosevelt ed Einstein, metà del merito è di quell'ebreo dagli occhi scuri come la notte, il quale, fino al giorno in cui fu espulso dagli USA per indegnità, aveva rimediato una sola condanna (settembre 1918) consistente in due dollari di ammenda per comportamento antisociale. Dunque Lansky meditava e suggeriva, Luciano decideva, Costello si dedicava alle pubbliche relazioni, Siegel era l'uomo di mano, Adonis fungeva da ambasciatore personale di Luciano, Genovese si accontentava di fare l'autista degli amiconi. Il periodo spensierato aveva avuto durata breve. Sulla scena si era affacciato un pezzo da novanta, Salvatore Maranzano, anch'egli di Castellammare del Golfo. L'aveva dovuta abbandonare nel 1929 per sfuggire ai rigurgiti della normalizzazione mafiosa seguita alla defenestrazione del prefetto Mori. Maranzano era della stessa pasta di Masseria, violenta e chiassosa, però aveva uso di mondo: dagli studi compiuti in seminario provenivano la perfetta conoscenza del latino, l'ammirazione per Giulio Cesare, di cui si considerava uno dei massimi esperti, la facoltà d'impadronirsi velocemente dell'inglese e del francese. Quindi poteva trattare senza bisogno d'intermediari con politici e affaristi, con avvocati e poliziotti. Maranzano aveva portato dalla Sicilia una dote di conoscenze e di presentazioni che in breve tempo gli aveva permesso di aggregare al proprio carro altri emigranti di Castellammare: Giuseppe Bonanno alias Joe Bananas, Stefano Maggaddino, Joseph Profaci, Joseph Aiello. Erano giovani di belle e spavalde speranze pronti a ogni ribalderia pur di sedere sulla vetta del "Vulcano", il termine usato da Bonanno nell'autobiografia per indicare il vertice di Cosa Nostra. Per le strade di New York era divampata quella che i giornali avevano definito la "guerra castellammarese": i selciati si erano riempiti di cadaveri; le vetrine dei negozi e le lamiere delle auto venivano traforate dalle raffiche dei primi esemplari di fucili mitragliatori; giudici e poliziotti sembravano incapaci di ristabilire l'ordine. Era l'identico problema che avevano Masseria e Maranzano e che turbava la mente sopraffina di Lansky: a suo giudizio l'inutile faida di quei siciliani incazzosi distoglieva uomini e mezzi dal lucroso contrabbando degli alcolici e rendeva più costosa la complicità dei rappresentanti della legge. Insomma, anziché badare agli affari d'oro garantiti dal proibizionismo, i picciotti perdevano tempo e denaro con le loro beghe da paese. Bisognava escogitare una soluzione. Se n'era fatto carico Luciano. La fama del ristorante Nuova Villa Tamaro di Coney Island si legava ai piatti di pasta a base di pesce. Alla ricerca dei sapori di casa, gli italo-americani ne avevano decretato il successo. In questa culla di delizie gastronomiche il 15 aprile 1931 Joe Masseria aveva riunito il gabinetto di guerra per studiare il colpo risolutore a quel prete spogliato di Maranzano. Erano in sette e, dato che il capo aveva la faccia lunga, anche gli altri si erano uniformati. Ma l'antipasto di aragoste e gli spaghetti alle vongole avevano contribuito a distendere i nervi e i lineamenti del boss e degli amici; poi le abbondanti libagioni di vino rosso prodotto in Toscana e le barzellette di Luciano avevano riempito di buonumore la tavolata. A ogni sorso non esisteva problema che non apparisse superabile, si beveva ormai alla morte di Maranzano. Erano apparse le carte per una mano di zecchinetta, al cui confronto il poker è un gioco da smidollati. Intorno alle 16 Luciano aveva avuto bisogno di andare alla toilette. Nessuno ci aveva badato, neppure Masseria, così preso dall'azzardo del 6 e del 7 da non prestare attenzione a due nuovi clienti comparsi all'improvviso nella sala che si era svuotata. Costoro con passi rapidi avevano raggiunto il tavolo e svuotato i caricatori delle rivoltelle su quello che era stato Joe the Boss. Tra le dita del cadavere avevano infilato l'asso di picche, che non è sinonimo di buona sorte. Al ritorno dal bagno, Luciano si era ritrovato solo. Aveva atteso la polizia per spiegare che cos'era accaduto al povero Joe. In mancanza di testimoni, gli sbirri erano stati costretti a prendere per buona la versione della loro vecchia conoscenza, dimostratasi una volta di più Lucky. In una grande sala di Washington Avenue, nel Bronx, Salvatore Maranzano aveva assaporato il trionfo. Erano accorsi da tutto il Nordest ad acclamare il primo capo dei capi. Come atto d'inizio aveva stabilito la nuova struttura e le nuove leggi dell'organizzazione. Maranzano non aveva fatto altro che ricopiare quanto già avveniva in Sicilia. Nascevano così ufficialmente le "famiglie" con i loro capi, sottocapi, capidecine, consigliori e soldati; venivano spartite le zone di competenza e definita la rigida scala gerarchica, che ognuno doveva rispettare nei rapporti interpersonali (un soldato, a esempio, poteva rivolgersi soltanto al proprio capodecina, un capodecina al sottocapo). Ma la vera sorpresa era stata un'altra: finiva l'anarchia, non venivano più ammessi colpi di testa, decisioni autonome. Ogni iniziativa, persino la vendetta per motivi d'onore, doveva ricevere il beneplacito della commissione formata dai capifamiglia. Maranzano non mirava soltanto al controllo assoluto degli affiliati, desiderava che i suoi, dopo anni di sparatorie indiscriminate e di esecuzioni sanguinarie, tenessero il profilo basso onde ripristinare un minimo di dialogo con le autorità. Perciò vietava d'infrangere la legge per quelli che lui definiva futili motivi, dall'eccesso di velocità allo stupro. Il contentino era rappresentato dalla nomina dei capi e deisottocapi. A New York venivano designati Bonanno, Profaci, Vincent Mangano, Tom Gagliano e Luciano, il cui vice era Genovese con la benedizione di Meyer e di Costello. Permaneva comunque un'atmosfera di ambiguità: impossibile cancellare le ammazzatine precedenti, impossibile dimenticare che a comandare su migliaia di uomini e su un bel mucchio di dollari era uno scappato dalla Sicilia appena due anni prima e, soprattutto, impossibile fidarsi dei castellammaresi. La svolta era stata determinata da Genovese. A fine agosto aveva raccontato a Luciano che Maranzano in una riunione ristretta aveva parlato della necessità di sopprimere entrambi. La resa dei conti era avvenuta il 10 settembre. Superato lo sbarramento degli angeli custodi di Maranzano, quattro uomini in divisa di poliziotti erano entrati nel suo ufficio, stanze 925 e 926, al Gran Central Building, tra Park Avenue e la Quarantaseiesima Strada. Quattro proiettili e sei coltellate avevano chiuso la partita. Contemporaneamente, in diverse città degli States circa cinquanta rappresentanti del vecchio potere erano caduti sotto il piombo di killer mai individuati. Sulla cima del "Vulcano" ormai sedeva Salvatore Lucania, in arte Charlie Lucky Luciano. Attorno a lui gli amici d'infanzia, i compagni dell'East Side. Il più prezioso ancora una volta si era rivelato Lansky: aveva dissuaso Luciano dal far parte del commando omicida al Gran Central Building e per evitargli la fine di Maranzano suggeriva di legare la nomina di boss dei boss a una regolare elezione da parte dei capifamiglia. Non sarebbe più occorso un sicario per sostituire il numero uno, sarebbe stata sufficiente una votazione. Consiglio accolto in pieno. Luciano vi aveva aggiunto il divieto perentorio di uccidere poliziotti e uomini della legge per non irritare l'opinione pubblica. Era avvenuta l'attesa spartizione dei pani e dei pesci. Albert Anastasia, un altro calabrese dotato di numerosi fratelli e sottocapo di Vincent Mangano, aveva avuto il fronte del porto e la supervisione dei gruppi di fuoco affidati, insieme con il controllo dei sindacati, a Louis Buchalter, detto Lepke (l'unico a finire, nel 1941, sulla sedia elettrica); Bugsy Siegel si era accaparrato la California e Hollywood con il suo strascico di attrici e di attori; Lansky sovrintendeva agli investimenti e alle scelte strategiche; Joe Adonis, l'elegantone, fungeva da ambasciatore nei migliori salotti di New York; Costello gestiva il contrabbando d'alcol, il gioco d'azzardo e i rapporti con i rappresentanti delle istituzioni: il whisky e i politici erano difatti la prelibatezza del suo locale, il Copacabana, indicato dai giornali come il più esclusivo e il più ambito della città. A se stesso Lucky aveva riservato la prostituzione - teneva una scuderia di quattrocento ragazze - e il crescente mercato dell'eroina. La sua idea fissa era di piazzare una minuscola raffineria in ogni casa amica in modo da annullare i possibili sequestri della polizia. La quale di suo non si sarebbe mai mossa, figurando quasi al gran completo sui libri paga delle "famiglie", ma non poteva rifiutarsi all'eventuale ordine di un procuratore voglioso di mettersi in mostra. Nessun problema, invece, con l'FBI. Per Edgar Hoover, il suo dispotico direttore, la mafia semplicemente non esisteva: una valutazione che nei decenni a venire gli costerà l'accusa di miopia e, addirittura, di complicità prezzolata. Hoover era un accanito frequentatore d'ippodromi e i Bravi Ragazzi, immersi nel giro delle scommesse clandestine, controllavano anche il giro delle corse con annesso ordine d'arrivo. Che cosa meglio di una soffiata su vincenti e piazzati per instaurare rapporti di buon vicinato? Le rare occasioni in cui l'FBI arrestava qualche componente di Cosa Nostra si trattava sempre di uno straniero, come capitò con Lepke, che fu addirittura "consegnato" per consentire a Hoover di trarsi d'impaccio. Predisposto il nuovo governo, insediati i responsabili dei dicasteri, Luciano aveva ordinato una dozzina di doppipetti e si era trasferito al Waldorf Astoria, l'albergo più chic di New York. Con l'identità di Charles Ross aveva preso possesso di una suite, nella quale non mancavano mai champagne e belle figliole. Da lì, nonostante avesse la palpebra destra sfregiata e abbassata, guardava all'intero territorio americano: un'immensa prateria da colonizzare. L'inesorabile mano della Giustizia gli aveva dato una spinta non indifferente. Il 24 ottobre 1931 una corte federale di Chicago aveva condannato Al Capone per evasione fiscale. Era il tramonto del gangster che per sette

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