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Archeologia dell'acqua: La cultura idraulica nel mondo classico PDF

282 Pages·1993·14.393 MB·Italian
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ARCHEOLOGIA DELL'ACQUA LA CULTURA IDRAULICA NEL MONDO CLASSICO di RENATE TOLLE-KASTENBEIN PREFAZIONE DI MARIO TORELLI CENTOVENTIDUE ILLUSTRAZIONI L O N G A N E SI & C. MILANO PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Longanesi & C., © 1993 - 20122 Milano, corso Italia, 13 ISBN 88-304-1165-S Traduzione dall'originale tedesco Antike Wasserkultur di Lydia Salerno Revisione e consulenza di Lelia di Loreto Copyright© 1990 by C .H. Beck' sche Ver/agsbuchhandlung (Oscar Beck), Miinchen Archeologia dell'acqua Seguono adesso i benefici terapeutici derivati dalle acque, poiché la Natura creatrice non si ferma mai e sprigiona le sue potenti energie nelle onde e nei flutti, nelle alterne maree, nel rapido scorrere dei fiumi, e, se vogliamo dire la verità, lo fa con un'immane potenza che non ha mai esercitato altrove, perché questo elemento si impone su tutti gli altri. te acque divorano la terra, estin guono il fuoco, si alzano e conquistano anche il cielo e, con un velo di nuvole, soffocano il soffio vitale che provoca Io scoppio dei fulmini quando il mondo è in conflitto con se stesso. Esiste forse qualcosa di più stupefacente delle acque che sono nel cielo? E come se fosse poco riuscire a tanto, trascinano con sé branchi di pesci, spesso anche pietre, e ascendono cariche di pesi a loro estra nei. Quando tornano di nuovo, permettono di nascere a tutti i prodotti della ter ra - è un meraviglioso potere della Natura, se ci si sofferma a pensare che le acque salgono in cielo affinché il grano possa crescere e vivano gli alberi e le piante,. e che di lì donino alle erbe il soffio vitale: dobbiamo dunque ammettere che tutte le energie della terra non sono altro che un dono dell'acqua. Perciò, pnma di qualsiasi altra cosa, forniremo degli esempi del loro potere. Chi dei mortali potrebbe enumerarli tutti? PLINIO, Naturalis historia XXXI l Prefazione alt'e dizione italiana NoN è frequente che un libro « serio >> si legga con facilità e con piacere. Un grandissimo archeologo e storico dell'arte antica, Ra nuccio Bianchi Bandinelli, ricordava divertito che la migliore re censione al suo bellissimo libro L 'arte romana al centro del pote re, pubblicato nella collezione diretta da André Malraux « L'uni vers des formes »,era stata quella di un suo mediocre avversario, il quale, pensando di stroncare l'opera, aveva affermato che il li bro di Bianchi Bandinelli non era da studiare, ma da leggere. For se lo stesso, anche se in una chiave diversa, come diverso è l'argo mento dei due libri, si può dire di questo elegante, quanto raro prodotto della divulgazione archeologica, Antike Wasserkultur dì Renate Tolle-Kastenbein, che ora esce in traduzione italiana. Il la voro rappresenta un vero e proprio piccolo manuale di idraulica antica: il lettore interessato al mondo classico, affascinato da grandiosi manufatti monumentali romani come gli acquedotti che popolano il suburbio di Roma o da gioielli architettonici come la Peirene di Corinto, troverà ampia soddisfazione alle proprie cu riosità nelle pagine che seguono. Tutti gli aspetti del pensiero, del la pratica idraulica, della riflessione scientifica, del diritto, del l'architettura, in qualche modo collegati con l'acqua, hanno tro vato nel libro della Tolle-Kastenbein una trattazione o quanto me no un cenno, con precisi rinvii ad altra documentazione speciali stica per quanti avessero desiderio di maggiori informazioni. Se lavori del genere esistono nella letteratura anglosassone e tedesca, nella nostra tradizione di ricerca e di alta divulgazione finora non è apparsa un'opera da mettere accanto adAntike Wasserkultur, ciò che rende particolarmente utile questa traduzione anche alle molte centinaia di archeologi che si occupano della ricerca sul terreno. Ma questo libro suscita senz'altro molte altre riflessioni, che, apparentemente marginali, sono in realtà di notevole interesse per le ragioni stesse di questa collana e per l'occasione di questa tra duzione. Come è ben noto, la divulgazione scientifica in generale, e quella relativa al mondo classico in particolare, sono state e con tinuano a essere gloria e vanto della cultura anglosassone, che, co me grande civiltà di dilettanti (come si chiamò con tipico under statement britannico una gloriosa society di archeologi del Sette cento), ha sviluppato per il diletto della lettura da parte del com moner un linguaggio, una letteratura e un'editoria che sin dalla prima metà del secolo scorso sono stati capaci di far penetrare in 2 un pubblico vasto e civile gli orientamenti più moderni del sapere. La tradizione ovviamente non è frutto di una curiosità di matrice tutta etnica, ma del ruolo stesso della cultura in una società bor ghese ancorata a una robustissima gentry; questa società ha saputo trapiantare in un contesto democratico nato da una rivoluzione l'i deale rinascimentale dell'uomo come microcosmo. Questo idea le, cosa notissima a tutti, era nato all'interno di un'altra società, anch'essa dominata da un'antica borghesia, quella italiana del pri mo Rinascimento. Qui tuttavia, per il precoce emergere dei go verni autoritari dei signori e per la generale rifeudalizzazione del paese, all'intellettuale sono stati riservati soltanto due ruoli: quel lo di intellettuale aristocratico autoreferenziato, oppure quello di intellettuale di corte. A costoro la diffusione del sapere coltivato non solo era vietata dal medesimo contesto autoritario in cui essi operavano, ma addirittura non interessava, dal momento che que sti intellettuali dovevano il proprio sostentamento alla corte oppu re a un sistema produttivo, quello dell'aristocrazia terriera, il cui sistema di potere si basava, fra le altre cose, anche sul modello ideologico della teologica distanza tra profanum vulgus e domi nus, tra masse non alfabetizzate .del contado e nobiltà depositaria esclusiva del sapere. I due modelli di intellettuale - quello aristocratico autoreferen ziato e soprattutto quello dell'intellettuale di corte -, per le ben note vicende della storia politica e culturale tra xv e xvm secolo, hanno finito per prevalere nel continente europeo e hanno costitui to fino a pochi anni fa le forme dominanti cui consciamente o in consciamente gli uomini di cultura si sono ispirati nel loro agire sia come scienziati e organizzatori della cultura sia come politici. Se vogliamo restare nel campo dell'archeologia, basterà che chi desideri verificare questa realtà ancor oggi entri in un museo, per scoprire che gli oggetti sono pensati come capaci di comunicare << da soli »: le vetrine gremite di cocci contengono spessissimo solo la laconica indicazione, supponiamo, « Pieve di Sotto, tomba n. 2 >>, che nei casi di maggior loquacità si colora di un'audace nota cronologica, « Prima metà del vn secolo a.C. >>,dove risulta evi dente l'intenzione dell'allestitore di rivolgersi ai suoi ideali inter locutori, il cui numero, come è ovvio, è inteso essere e restare in finitamente più piccolo dei venticinque lettori di manzoniana me moria. Ricordo anzi che una quindicina di anni or sono, presen tando un audiovisivo sulle origini di Roma, approntato per l 'Enci clopedia Italiana a cura di un valente storico antico, di uno psico linguista e di chi scrive, fui aggredito da un collega, che ora illu- 3 stra una cattedra di discipline archeologiche in una prestigiosa università del nostro paese, perché a suo dire i concetti dell'audio visivo sarebbero stati « troppo difficili >>; risposi allora alla sor prendente obiezione che la banalizzazione della sostanza storica era nella forma mera condiscendenza e di fatto un'operazione rea zionaria, e cercai perciò di dimostrare che, se il tono dell'audiovi sivo era'' alto », il lessico e i concetti da questo sostanziali erano piani e accessibili. Poco persuaso che il collega capisse, volli chiarire il mio pensiero e perciò aggiunsi ai miei argomenti un aneddoto. Raccontai infatti che qualche tempo prima, nelle sale di una grande e costosa mostra (quella intitolata Civiltà del Lazio pri mitivo, tenuta a Roma nel 1976), alla quale il mio interlocutore aveva partecipato con qualche responsabilità scientifica, avevo in contrato una mia conoscente, apprezzata insegnante nelle scuole medie, la quale, smarrita, mi aveva richiesto cosa fossero mai le « fusarole >> di cui si discettava nelle didascalie e nel catalogo: ri velando di colpo i propri fondamenti di politica culturale, il mio dotto avversario sbottò gridando che la mostra « era stata fatta per i colleghi ». Ecco, dunque: le mostre, i musei, i libri si fanno « per i colle ghi>>, l'entropia è la norma, il pubblico un accidente imbarazzan te. Di qui il sincero fastidio di una parte cospicua dell'accademia per la divulgazione di qualità, un fastidio che si perpetua talora an che nelle giovani generazioni. Anche qui un aneddoto potrà meglio illustrare questa perversa trasmissione dei valori vetero-accademi ci persino in coloro, i giovani, che dovrebbero esserne per natura esenti. A una mia laureata molto intelligente avevo tempo addietro proposto di pubblicare, opportunamente emendata, la sua tesi e avevo lasciato a lei la scelta se farlo sotto forma di un lungo saggio per una rivista o di uno snello libretto; trascorso qualche mese, la fanciulla tornò a colloquio~ me dicendosi ancora indecisa sul for mato da dare alla riscrittura della sua dissertazione. Per spiegarmi la sua incertezza mi dichiarò di aver preferito istintivamente la for ma del libretto, ma che il colloquio con un giovane dottore di ricer ca di materia affine l'aveva fatta piombare di nuovo nel dubbio: evidentemente echeggiando giudizi circolanti in ambienti accade mici, quel giovane le aveva infatti consigliato di pubblicare un arti colo in una rivista scientifica, perché un libro (e aveva fatto esplici ta allusione a libri della presente collana) '' non avrebbe avuto va lore ai fini della carriera >>. A furia di seguire questa medesima lo gica diventa inevitabile scambiare la forma con il contenuto: per la cultura '' togata >> pubblicare nelle sedi non accademiche appare si- 4 nonimo di divulgazione tout court e dunque motivo di automatica e pregiudiziale censura, non importa se l'opera costituisca o no (co me recita la formula del linguaggio curiale dei giudizi concorsuali) un « contributo originale al progresso della disciplina >>. Si è visto così che in un recente concorso per professore universitario asso ciato la commissione ha escluso dalle prove orali alcuni giovani autori di lavori assai pregevoli pubblicati sempre in questa stessa collana, chiaramente perché ha considerato tali lavori « divulgati vi » e perciò stesso non meritevoli di attenzione. Penso che cosa succederebbe se un nuovo Luigi Bemabò Brea presentasse a un concorso universitario un'altra Sicilia prima dei Greci: per coloro che non lo sapessero ricordiamo che questo libro, che ha cambiato un'intera prospettiva di studio sulla preistoria e protostoria della Sicilia, è stato pubblicato in una sede non accademica, bensì in una collana di « alta divulgazione » come la presente, la celebre « Uo mo e Mito » del Saggiatore, non a caso omologa italiana di una for tunata collana inglese edita da Thames and Hudson. E gli esempi potrebbero continuare. Il libro della Tolle-Kastenbein giunge a confermarci che la Ger mania, afflitta non meno dell'Italia dal grave distacco tra accade mia e consumo di cultura, si sta liberando da questo grave pregiu dizio della cultura europea continentale e mostra di essere in gra do, con la collana pubblicata dalla gloriosa casa editrice monacen se Beck (la stessa, tra l'altro, del celeberrimo e autorevole Hand buch der Archiiologie), di produrre libri gradevoli e nuovi di<< al ta divulgazione »; si potrà molto discutere sulle radici e sul signi ficato di simile fenomeno in Germania, ma non si potrà non con venire che esso si iscrive in un processo di generale << americaniz zazione » della società e della cultura germaniche, che, accanto a molte ombre, presenta anche non poche luci come questa. In Ita lia, l'esperimento già ricordato della collana << Uomo e Mito "• non a caso prodotta da un editore intelligente e colto e sostenuta dall'appoggio e dal consiglio di Ranuccio Bianchi Bandinelli, si è chiuso alla fine degli anni '60. Il limite di quella esperienza era da to dal fatto che tutti i libri, tranne qualche raro caso, erano tradot ti: perfino il libro di Bernabò Brea di cui si è appena detto era ap parso nell'edizione inglese prima di comparire in quella italiana. Il tessuto culturale del paese era insomma debole e perfino trovare qualche archeologo intelligente capace di scrivere un libro di « al t~ divulgazione : era un' ~m presa scoraggiante; la pressoché totale dtpe~de~za dali estero, m sos~anza dali 'Inghilterra, rappresenta la spta dt un vuoto non solo fra 1 produttori di questo genere di cui- 5 tura, ma anche fra i consumatori. Nessuna meraviglia perciò che la collana si sia chiusa in perfetta sintonia con l'esplosione del boom e con l'affacciarsi di nuovi ceti sulla scena politica e cultura le del paese: proprio l'emergere di questi nuovi ceti, il cui lontano retroterra culturale va in genere (anche se non in tutti i casi) ricer cato proprio in quelle classi rurali da secoli escluse dal consumo di cultura, sta alla radice del dilagare di una divulgazione di temi ar cheologici, affidata talora a illustri Accademici dei Lincei sulle pagine dei grandi quotidiani nazionali, che indulge in quelle bana lizzazioni di cui si diceva sopra, ove la platitude sensazionalistica del dato archeologico superficialmente interpretato si mescola con atteggiamenti consolatori del tipo« gli-antichi-erano-come-noi ». A ben vedere siamo di fronte a una sopravvivenza (aggiornata alle nuove esigenze e al nuovo linguaggio) del gusto piccolo-borghese della divulgazione archeologica che aveva avuto negli anni '30 e '40 il suo bardo nella penna tardoromantica di Amedeo Mai uri. Mi sia adesso consentito, senza alcun trionfalismo, ma soltanto per proseguire fino a oggi l'esame iniziato, parlare della collana della Longanesi. Tale collana, con questo libro della Tolle-Ka stenbein, tocca il ventesimo volume, compiendo al tempo stesso il suo dodicesimo anno. Fin qui nessun motivo di particolare com mento, se si eccettuano due considerazioni: tra le non molte del genere, la collana si caratterizza come una delle più longeve e pro lifiche; di molti libri è stata prodotta più di un'edizione. Ma ciò che più mi rallegra è il fatto che di questi venti volumi solo sei sia no opere in traduzione, tre delle quali rappresentano i primi titoli della« Biblioteca », pubblicati nel 1981 e 1982, allo scopo di lan ciare la collana con opere di sicura qualità e al tempo stesso di aver tempo sufficiente perché autori italiani potessero scrivere libri originali per la collana, cosa che è avvenuta (mi piace particolar mente ricordarlo in questa sede e non per indulgere a un femmini smo di maniera) con i lavori di due colleghe, che sono stati assai ben accolti dalla critica e dal pubblico, fino al punto che uno di es si ha guadagnato anche un premio letterario. Dopo i primi tre tito li, tutti e tre (non per caso, ribadisco) inglesi, soltanto La cons truction romaine di Jean-Pierre Adam e The Language of the Goddess di Marija Gimbutas sono stati finora frutto di traduzione, dal momento che i libri di Dav id Ridgway e di Françoise-Hélène Pairault Massa sono stati concepiti e scritti in italiano espressa mente per la « Biblioteca di Archeologia >>. Questa circostanza sembra provare che in Italia siamo forse di fronte ai primi segni di un'inversione di tendenza: come esiste un pubblico per un'alta di- 6 vulgazione diversa o semplicemente parallela alla manualistica universitaria di carattere archeologico (campo in cui operano con grande professionalità, qualità e successo altre importanti case editrici e collane), così, finalmente e pour cause, esistono archeo logi capaci di scrivere libri pregevoli e leggibili da parte del grande pubblico. Tutte queste considerazioni rendono ben conto dell'interesse su scitato in me dalla traduzione del libro della Tolle-Kastenbein. Non fa dunque meraviglia che O lindo Stefanucci, presidente della CESAP, società dell'acquedotto di Perugia, da sempre benemerito della ricerca archeologica finalizzata alle acque (e di ciò fa fede la celere e bella edizione degli atti del convegno Gli Etruschi maestri di idraulica da lui organizzato a Perugia nel febbraio del 1991), abbia voluto sostenere e promuovere la presente traduzione, per dare ampia diffusione a questo piccolo trattato di idraulica antica fra tutti i membri della grande società per acque e acquedotti, la CREA di Milano, di cui è parte anche la CESAP. A O lindo Stefanucci rivolgo il grazie mio più vivo, perché la sua passione per l'antico non solo non è mera evasione o motivo di bizzarra curiosità, ma è espressione di profonda coscienza professionale e di impegno civi le. Il suo interesse per l'idraulica antica, che ha saputo comunicare anche a molti dei suoi tecnici e collaboratori, è per lui soprattutto strumento per affrontare i problemi politici posti oggi dall'acqua, dalla sua ricerca, dalla sua conservazione e dalla sua gestione. Da gli antichi egli ha appreso che l'acqua, come dice Platone (Eutide mo, 304b), è cosa rara e preziosa, anche se è risorsa rinnovabile, e che il suo consumo deve essere improntato ai modelli di parsimo nia e di oculata gestione, di cui tutta l'idraulica antica è impressio nante documento, come mostrano le pagine di Renate Tolle-Ka stenbein. " Proteggere e conservare, utilizzare scrupolosamente le risorse delle fonti, dei fiumi, dei laghi e delle acque piovane »: queste le parole con le quali, introducendo i già ricordati atti del convegno di Perugia Gli Etruschi maestri di idraulica (p. 10), lo stesso Stefanucci ha descritto i termini dell'imperativo che per l'a gire contemporaneo si ricava dalla lezione degli antichi. Anche il fatto che la società civile e il mondo della produzione si stiano sem pre più interessando ali' antichità per trarre dai comportamenti dei nostr~ avi indicazioni per un agire concreto e più in generale per un uso !tspettoso della natura, di cui gli antichi furono maestri, è un mottvo che lascia bene sperare per il futuro del nostro passato. MARIO TORELLI

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