MAXIME CHATTAM ARCANA (Les Arcanes Du Chaos, 2006) Se per caso volete concedervi il piacere di dare a queste parole un tocco d'emozione in più, vi propongo le colonne sonore dei film che mi hanno accompagnato durante la stesura di quest'opera: - House of Sand and Fog (La casa di sabbia e nebbia), di James Horner. - Un long dimanche de fiançailles (Una lunga domenica di passioni), di Angelo Badalamenti. - Existenz, di Howard Shore. - Batman Begins, di Hans Zimmer e James Newton Howard. - The Forgotten, di James Horner. Mi auguro che possano portarvi lontano, così come hanno fatto con me. Edgecombe, 20 ottobre 2005 www.maximechattam.com PROLOGO Estratto del blog di Kamel Nasir, 12 settembre Questa è una storia vera. La affido al computer nel silenzio di questa stanza, sperando che la memoria collettiva possa accedervi presto. Ma non si gratta mai subito una ferita, bisogna attendere che si cicatrizzi. Per trovare il coraggio di rimettere in discussione un passato doloroso, occorre del tempo. Io ho fatto del mio meglio per non tralasciare nulla. Ho cercato il essere il più obiettivo possibile nel redigere questa testimonianza. Mi sono basato essenzialmente su documenti che potrete procurarvi senza difficoltà. È tutto vero. Voi che leggete queste righe non sapete ancora ciò che vi aspetta. Lo choc di una verità svelata. Di un susseguirsi di piccoli fatti inquietanti, appena intravisti con la coda dell'occhio, che presto acquisteranno un senso. Possiate essere in molti a interrogarvi. A non dimenticare. E soprattutto, in molti a riunirvi. Altrimenti, loro ci inghiottiranno. Hanno già cominciato. Loro sono potenti. Feroci. Yael non ci credeva. Lei e Thomas sono passati dall'altra parte. La prossima volta, potrebbe toccare a voi. Perché tutto può precipitare in un istante. È successo ai miei amici. Chi sarà il prossimo, o la prossima? PRIMA PARTE Il mondo delle ombre 1 Era un giovedì. Yael si stava rilassando nella vasca da bagno, la schiuma che produceva una sorta di lieve crepitio mentre le sue mani sbucavano dalla superficie untuosa reggendo la penna e la rivista. La giovane donna aveva raccolto i capelli riccioluti sopra la nuca, formando un groviglio di stelle filanti brune. Una volta tanto, il test di Cosmopolitan non era troppo sdolcinato. Ma, se per questo, nemmeno intelligente! «Fate il bilancio della vostra vita attuale in 10 domande.» Tutto un programma. Yael decise di rispondere con la massima franchezza, circolettando le risposte che corrispondevano al suo profilo. 1. In amore, sei del tipo: A. Single di lungo respiro. B. Seguace forzata dello speed-dating. C. Incline a legami di breve durata. D. Uno il mercoledì, uno il sabato e un altro la domenica, se è carino. E. Perbene e accasata. Yael esitò. Aveva avuto la sua fase C, e al momento oscillava tra A e B: un amante occasionale intervallato da lunghi periodi di solitudine. Vada per B. 2. Dal punto di vista professionale, sei: A. In periodo di apprendistato, piena di interrogativi. B. Disoccupata o casalinga. C. Attiva malinconica. D. Studentessa che sa ciò che vuole. E. Attiva-passiva. Abbinare «disoccupata» a «casalinga» la diceva lunga su una certa mentalità, anche femminile... Yael si stupì pure di non vedere da nessuna parte la casella «attiva felice». Di bene in meglio. Nel suo caso, comunque, la risposta non poneva alcun dilemma: C. 3. Di aspetto fisico, ti trovi: A. Domanda successiva. B. Ma sì, può andare, perché? C. Mi dicono che sono ricca di fascino. D. Piuttosto attraente, ma che fatica! E. Quando passo, la gente si volta. Yael alzò gli occhi al soffitto. Che domanda idiota. Sospirò. La risposta B le si addiceva. Era modesta: a detta delle sue amiche, lei piaceva ai ragazzi. La C poteva essere realistica, benché sottintendesse un «affascinante ma racchia» che non le andava a genio. Forza, bando alla falsa modestia: D. Non controllava rigorosamente la linea e non faceva palestra per niente. 4. Per te, il week-end significa: A. Davanti al televisore. B. Letture e passeggiate. C. Serate tranquille tra amiche. D. Si va in disco, baby! E. Sotto il piumone con il mio uomo. Yael fece un segno accanto ad A, B e C. Insomma, una zitellona, è così? Alla fine, optò per la B, che si avvicinava di più alle sue abitudini. Gironzolare per Parigi e divorare fumetti erano i suoi passatempi preferiti, come anche diventare la regina del telecomando nei giorni di pioggia. Diede una rapida scorsa alle domande seguenti, fece il computo delle lettere e andò alla sintesi che si supponeva descrivesse la sua situazione presente. Se hai ottenuto una maggioranza di C: «Sei un tipo che ama star chiuso nel suo bozzolo nel weekend, non proprio felice del suo lavoro e piuttosto incline a considerare Cenerentola una sgualdrina perché ha trovato il Principe Azzurro. Consolati, non sei la sola! È il male della nostra epoca! Ma eccoti una buona notizia: si può curare! A forza di serate con le amiche, di uscite per cui stavolta dovrai automotivarti, perché è così che ti ossigenerai, in tutti i sensi possibili del termine... Fai il punto sul tuo lavoro; se è così insoddisfacente, inizia a cercartene uno nuovo! Dai sapore alla tua esistenza trovando l'occupazione che più ti si addice. Nulla di irrealizzabile, basta eliminare un po' di pigrizia e inquietudine dalla tua testa. «Quanto a quel pizzico di odio che nutri verso più o meno tutto ciò che ti circonda: società, politica, persino la gente... be', qui bisogna fare uno sforzo... Coraggio, una seduta di massaggi agli oli essenziali, un incontro con i bei volontari di Greenpeace e una serata tra amiche per commentare il nuovo calendario del XV di Francia,* e vedrai: vivere insieme ha i suoi lati positivi!» Yael gettò la rivista sul tappeto del bagno. Per la centesima volta giurò a se stessa di non perdere più tempo con quel genere di stupidaggini... A ventisette anni, forse era ora di consolarsi in un altro modo. Yael afferrò il rasoio Bic posato sul bordo della vasca e lo fece scivolare lungo le gambe, poi si rialzò in piedi. Il vapore condensato nascondeva la sua figura slanciata, impedendole di riflettersi nello specchio sopra il lavabo. Lei vi diede una passata con un asciugamano, e apparvero le sue spalle quadrate, ricordo degli anni di atletica, della sua adolescenza, i seni rotondi, generosi, il ventre che cominciava a essere un po' meno sodo... Si pizzicò la pelle sotto l'ombelico. Niente di che, per adesso, ma se non ci sto attenta... Yael si guardò dritta negli occhi. Occhi grigio-bianchi. Quasi troppo chiari. Lo sguardo di un husky, come diceva sua madre. Un contrasto sorprendente con il nero dei capelli. Qualche neo sul viso - dei punti di riferimento per le carezze, gli aveva sussurrato il suo primo grande amore. Il naso sottile, e quelle labbra che detestava... Troppo grandi e carnose. Attiravano gli uomini, questo le aveva insegnato l'esperienza. Ma Yael non ne era compiaciuta. Non era mai riuscita ad accettare il rapporto tra la sua plastica sensualità e il desiderio sessuale che suscitava. Una ciocca le scendeva davanti all'orecchio, attorcigliata, fluttuante... Succedeva tutte le volte che si legava i capelli. Le somigliava un po', quasi il prolungamento esterno di quello che lei era interiormente. Quella sua incapacità di piegarsi a ciò che le veniva imposto. La spingeva sempre a tentare di liberarsi dai vincoli, quelli dell'attività lavorativa, della vita sentimentale e, naturalmente, della potestà parentale quand'era più giovane. Aveva conosciuto le scuole di ogni grado, i collegi... e le scappatelle. Una madre comprensiva ma antiquata, un padre autoritario... Un percorso quasi banale, aveva constatato crescendo. Lei che immaginava di essere unica nel suo genere, si era allora resa conto della banalità della sua storia, e anche del divorzio dei suoi genitori, cinque anni prima. La loro instabilità, i loro scontri, le loro riconciliazioni, poi di nuovo i loro litigi. E la gestione dell'appartamento. Invece di rivendere la casa al momento della separazione, suo padre aveva proposto a sua madre di giungere a un accomodamento economico e di andarsene entrambi lasciando l'appartamento alla figlia. Tutti erano stati contenti. Tutti eccetto Yael, a cui nessuno aveva chiesto un parere. A ventidue anni si era ritrovata sola dalla sera al mattino. Sola in quel grande appartamento. In seguito, il padre si era messo in testa di scrivere il romanzo della propria vita, quello di cui parlava da un paio di decenni, e per farlo si era esiliato nell'adorata Bretagna, il manoscritto che si allungava alla velocità del sedimentare degli anni. La madre invece si era rifatta una vita con un restauratore del Sud-ovest, trascorrendo in sua compagnia un lustro felice fino al 13 aprile, quattro mesi prima, il giorno funesto in cui la coppia era morta carbonizzata in un incidente automobilistico. Un venerdì 13. Un po' troppo alcool in corpo dopo una serata tra amici, una velocità troppo elevata sulle stradine di campagna costeggiate da faggi, e nell'uscita di una curva il veicolo era andato ad accartocciarsi contro un tronco. Yael, prostrata dal dolore, era caduta in una profonda depressione, prima che il tempo, questo rimedio universale, a poco a poco le curasse l'anima. La madre era stata tutta la sua famiglia. Yael non si era mai sentita vicina al padre, e quanto ai nonni, avevano lasciato questo mondo dopo una vita discreta. Dei due fratelli della mamma, non aveva notizie. Uno viveva in Inghilterra, l'altro a Marsiglia, senza che lei sapesse nulla di loro. La famiglia Mallan non aveva mai avuto il culto della genealogia, piuttosto quello del silenzio e dell'«ognuno per sé». Il padre di Yael aveva perduto il proprio all'età di un anno, durante la guerra. Si considerava un orfano a metà, allevato da una madre taciturna e autoritaria che non aveva nemmeno pianto alla morte del marito. Yael prese a tremare. Le goccioline d'acqua tinta d'olio le creavano sulla pelle un manto di madreperla. Abbrancò un asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Una volta asciutta, si infilò i pantaloni della tuta che prediligeva quando stava a casa la sera, e una maglietta senza maniche. Quindi si accinse a uscire dal bagno, la mano posata sull'interruttore. Fu in quel preciso momento che si verificò il fenomeno. Alla periferia del suo campo visivo. Un movimento fugace. Così leggero che Yael credette a un gioco di ombre con la porta che si apriva. Ed era proprio quello: un'ombra. Che si muoveva nello specchio. Poi il buio tornò nella stanza. * La nazionale francese di rugby. [N.d.T.] 2 Venerdì era il giorno dello Shoggoth. Yael adorava lo Shoggoth. Era un nome che trovava appropriato. Ricordo di una delle creature dei giochi di ruolo che praticava in collegio, lo Shoggoth era un mostro gelatinoso con centinaia di occhi un po' dappertutto. Esattamente come il suo cliente del venerdì. Un tipo obeso, avvolto in un soprabito che decorava con decine di globi oculari appuntati sul tessuto impermeabile. Perché Yael vendeva occhi. Tra le altre cose. E anche animali morti. Lavorava da Deslandes, la casa parigina specializzata in tassidermia celebre da oltre un secolo e mezzo. Vi era entrata l'estate di due anni prima, per guadagnare un po' di soldi. Il lavoro era interessante, originale. E così l'impiego temporaneo era divenuto stabile, ancorando la giovane a una vita professionale lontana dalla sua formazione e dai suoi titoli di studio. Il cammino scolastico di Yael era stato difficoltoso. Una volta conseguito il diploma di maturità a diciannove anni, non sapendo cosa fare aveva scelto di frequentare la facoltà di Lettere moderne. Una laurea strappata in quattro anni, e partiva per effettuare un anno di studio supplementare... negli Stati Uniti. Con una decisione improvvisa, dopo aver letto un opuscolo, aveva fatto di tutto per completare il dossier per il programma di scambio che aveva come tema «La letteratura e l'espansione delle frontiere del linguaggio». Aveva trascorso un anno a Portland, in Oregon. Ma non si era sentita a proprio agio, laggiù, ed era tornata in patria mentre un serial killer imperversava nella città e nella regione circostante, diffondendo una psicosi dello straniero che rendeva il clima insopportabile. Per un altro anno aveva tentato invano di aggrapparsi al progetto di ottenere un master, continuando nel frattempo a svolgere lavoretti saltuari, cameriera di sera o commessa in un negozio di abbigliamento, finché un mattino di luglio non era passata davanti alla vetrina di quella strana bottega. Un cartello fissato con lo scotch al vetro annunciava che cercavano qualcuno per l'estate... E due anni dopo, abbandonate le velleità accademiche, era ancora lì. Era un lavoro vario. Riceveva i clienti, li consigliava, catalogava i nuovi arrivi di minerali e insetti secchi, procedeva all'essiccazione delle farfalle, di cui venivano sempre consegnate intere casse... In compenso, nei suoi compiti non rientrava l'imbalsamazione. Era Lionel, il collega, a occuparsene. Svuotare i cani delle anziane signore per imbottirli di stoppa non l'allettava per niente. Tutti i giovedì sera, Yael verificava la consegna degli stock di occhi di vetro che servivano a sostituire quelli degli animali impagliati. Ciascun paio era unico; il fornitore aveva l'esigenza di non fabbricare mai un occhio uguale all'altro. E ogni venerdì, da quattro mesi a quella parte, lo Shoggoth si presentava immancabilmente per esaminare la gamma di sguardi che Yael poteva proporgli. Con gli occhi nuovi creava dei gioielli, inserendovi una spilla per aggiungerli a tutti gli altri sul suo impermeabile, o incastonandoli per farne degli anelli che gli ricoprivano le dita grassocce. Lo Shoggoth ispezionava i globi di vetro inclinando la testa di lato e manifestando una tenerezza poco consona alla circostanza. La nuca coperta di capelli fini e dritti si corrugava, scavando dei solchi nel grasso del collo. Sfiorava gli oggetti del suo desiderio con la punta dell'indice, umettandosi le labbra, poi scuoteva su e giù il capo in segno di approvazione. E se ne andava con le preziose reliquie. Malgrado il comportamento e il look ributtante, Yael aveva finito per provare affetto nei suoi confronti. Lui almeno era divertente e inoffensivo, a differenza di qualche altro cliente. La peggiore era la signora Caucherine, una vecchia bisbetica che si presentava ogni tre mesi con un cane nuovo, esigendo sistematicamente che lo impagliassero. La prima volta, Yael non aveva ben capito e si era sforzata di spiegare che l'operazione sarebbe stata eseguita con la massima cura quando la povera bestiola fosse passata a miglior vita, che avrebbe dovuto portarla da loro entro ventiquattro ore dal decesso, conservandola nel frigo dentro un panno. Era la procedura che continuava a ripetere senza mai riuscire a capacitarsi che quelle parole uscissero dalla sua bocca. La signora Caucherine però aveva scosso la testa, indispettita: voleva che il suo cane venisse impagliato subito. Gli era piuttosto affezionata, ma iniziava a diventare molesto adesso che abbaiava troppo di frequente. Lei non desiderava altro che vivere con il suo ricordo, che sarebbe stato «più che sufficiente, ormai». Yael l'aveva riaccompagnata alla porta insistendo sull'impossibilità di un tale modo di procedere e aggiungendo che non ci si poteva separare da un cane simile. Tre mesi più tardi, l'anziana signora era ricomparsa davanti al bancone del negozio, con un cane diverso ma la medesima richiesta. Yael aveva avvertito la polizia, che aveva trovato la storia molto divertente. Il caso era allora passato alla protezione animali. Inutilmente, perché la signora Caucherine ritornava tre o quattro volte l'anno, sempre con un cane nuovo e la stessa intenzione di ammazzarlo per farlo impagliare. Altezzosa e sprezzante, ricordava la Crudelia della Carica dei 101. E Yael, tra le teste di cervo e di daino appese alle pareti, aveva finito per sognare di vederne una nuova: quella della signora Caucherine. Era una professione in cui ti imbattevi in un sacco di tipi strambi, ma facevi anche degli incontri toccanti A volte bisognava stare a consolare un cliente per mezz'ora. Per alcune persone, soprattutto di età avanzata, perdere il proprio cane o gatto significava perdere l'ultimo, affettuoso compagno. Venivano a piangere lì, come al funerale di un parente. Con il tempo, Yael aveva imparato a non giudicare quelli che venivano a far impagliare i loro animali domestici. Alcuni desideravano fare del loro micio un tappetino per continuare a dormire con lui, altri volevano avere la testa del proprio cane sulla mensola del camino per potergli ancora grattare il muso. Dietro la maggior parte di queste singolari richieste, lugubri, aveva pensato Yael all'inizio, si nascondeva una sofferenza, un vuoto profondo. Si impagliava l'essere amato per non perderlo. Erano stati tutti questi incontri, tutte queste vite così differenti, così particolari, che l'avevano indotta a restare, mese dopo mese, a credere che Deslandes fosse una sorta di club formato da membri l'uno più stravagante dell'altro. Non appena arrivato, lo Shoggoth si inchinò per salutare Yael e si affrettò a chiedere: «Ne sono arrivati di nuovi?» Yael mormorò la domanda all'unisono con lui. Sempre la stessa, e sempre la stessa risposta. «Sì, come al solito.» Si abbassò per aprire uno degli stipi sotto il banco e allineò i due espositori di velluto davanti all'omone. «La lascio guardare», aggiunse. L'altro deglutì sfregandosi le mani ed esaminò tutte quelle pupille che lo fissavano. I suoi occhi ardevano di cupidigia. Yael rimase a osservarlo, appoggiata agli alti armadi che ospitavano decine e decine di sottili cassetti. La sala in cui si trovavano emanava una serenità rassicurante. Lei si era sempre interrogata sull'origine di quell'atmosfera di pace. Dipendeva dall'architettura stessa del luogo - un antico palazzo privato degli inizi del Diciottesimo secolo - o dal silenzio di tutti quegli animali estinti? C'era un'alchimia paradossale tra la loro condizione e ciò che ispiravano. Quel pelame morbido, quelle teste serafiche sembravano magnificare la morte. Dimostrare che non poteva distruggere tutto, portare via ogni cosa. Lo Shoggoth scosse freneticamente il capoccione; aveva scelto. «Prenderò questi due. L'azzurrognolo e quello grosso.» Yael assentì e impacchettò gli occhi con della carta velina prima di incassare gli euro che l'uomo le tendeva. La banconota era umidiccia. Lo Shoggoth aveva caldo, sudava. Scomparve in fondo al lungo corridoio, nell'altra sala, verso la scala che conduceva al pianterreno. La giornata proseguì tranquilla fino all'ora di chiusura. Yael si annodò i capelli sulla nuca con un elastico prima di uscire nella calura del tardo pomeriggio. Adorava Parigi in agosto. Le sue vie dai rilievi argentei, resi affilati come lame dalla mancanza d'aria e dalla temperatura torrida. La giovane si aggiustò gli occhiali scuri per proteggere gli occhi troppo chiari e scese lungo rue du Bac. La sua silhouette danzava ondeggiante nei riflessi delle vetrine. Non incontrò anima viva. Nemmeno un'auto. L'intera città era deserta. Yael camminò fino a Denfert-Rochereau, dove viveva. Una parvenza di traffico scorreva oziosa sull'asfalto molle. Raggiunse rue Dareau in cinque minuti e spinse il pesante portone, attraversò il cortile costeggiando una siepe di arbusti piantati in voluminose fioriere di legno e salì i gradini esterni che portavano al primo piano e all'uscio di casa. L'appartamento in cui avevano abitato i genitori per molti anni era unico nel suo genere, frutto dei deliri architettonici di un urbanista che negli anni Ottanta aveva lavorato per la rete viaria di Parigi. Yael entrò nel vestibolo, depositò la borsa di tela e si liberò dei sandali. Un alto specchio fronteggiava l'ingresso. Il salone, situato al centro dell'abitazione, aveva una superficie di cinquanta metri quadri, con il soffitto che culminava sette metri più su e un mezzanino, servito da una scala a pianerottoli, che occupava due pareti. Il primo pianerottolo era stato sistemato a studio. Spazioso e bizzarro, si estendeva in un'ampia rientranza e dominava il salone a due metri di altezza. Il pianerottolo successivo era un corridoio che circondava l'ambiente centrale e dava accesso alle camere del piano. In alto, a sovrastare l'insieme, il tetto si apriva su un pozzo di luce filtrata da imponenti lucernari. Ma l'originalità del salone stava nel pavimento, di vetro. Gli arredi, alquanto esotici - un canapè decorato con motivi africani, un tavolo che evocava il Maghreb e dei paraventi asiatici -, poggiavano su un'immensa lastra di vetro nero che contrastava con la tinta beige delle pareti. Il sole irrompeva dal soffitto e accendeva le calde stoffe delle poltrone, i parati appesi qua e là. Curiosamente, i raggi dorati precipitavano sul pavimento senza infrangersi: ci passavano attraverso. Sotto lo spesso strato di cristallo scuro si intuiva un prolungamento sotterraneo; i muri scendevano ancora di parecchi metri, una quindicina in tutto, sempre più indistinti man mano che si perdevano in una densa pozza di tenebre stagnanti. Un abisso. Per riflesso automatico, Yael azionò l'interruttore. I fari incassati nella pietra, dieci metri sotto la lastra di vetro, si risvegliarono. Giù in basso, lontano sotto le strade in superficie, un frammento del ventre di Parigi si offrì alla luce. Due collettori d'acqua emersero l'uno di fronte all'altro sopra una cisterna collegata alla rete fognaria cittadina. L'architetto aveva voluto svelare una parte di quei sotterranei che assorbivano le acque di scolo degli abitanti della capitale. Aveva praticato un'incisione nella crosta protettiva - «dissimulatrice», amava ripetere - in modo da esporre questa rete complessa, asportando uno spesso quadrato di quella pelle grigia per costruirvi sopra la sua casa. Quando pioveva, era possibile vedere, in trasparenza, i due collettori scaricare torrenti di schiuma verso il serbatoio gorgogliante. Yael alzò la levetta dell'interruttore e l'oscurità degli abissi si proiettò di nuovo verso i suoi piedi, più rapidamente di un geyser sotto pressione. La lastra di vetro si offuscò sino a perdere la trasparenza. Quando Yael riceveva visite, il fenomeno generava un certo malessere negli ospiti: un senso di vertigine, la paura di precipitare in un simile paesaggio infernale. Per lei, al contrario, era una fonte di contemplazione, il suo personalissimo focolare. Poteva restare delle ore senza fare niente, osservando il movimento delle acque che si urtavano nella penombra. Erano le otto di sera passate. All'improvviso, dal mezzanino giunse un miagolio di rimprovero. Un gatto nero, fulvo e marrone corse giù dalla scala, con il pelo arruffato. «Kardec...» mormorò Yael. «Sta' buono. Sono tornata.» Il micio cominciò a strofinarsi contro le sue caviglie, facendo le fusa. Il nome testimoniava una passione adolescenziale di Yael: l'esoterismo. Aveva avuto un periodo «occulto» in cui guardava film di streghe, acquistava «libri di magia» e organizzava sedute tra ragazze per tentare di parlare con i defunti intorno a un tavolo. Poiché il gatto aveva un forte significato simbolico nelle differenti mitologie, il suo nome era stato scelto in omaggio al padre dello spiritismo: Allan Kardec. «Lo so, anche tu mi sei mancato», disse, chinandosi ad accarezzarlo. Lo aveva appena recuperato dopo un soggiorno di due settimane da una vicina mentre lei era in vacanza a Rodi. Yael passò sotto l'arco che separava il grande salone dalla cucina e scese i pochi gradini che portavano a un livello leggermente inferiore. Le tre finestre erano sature di luce, mettendo in risalto gli smalti e il pavimento a piastrelle dai colori vivaci. La giovane si versò un bicchiere colmo di succo di pomodoro fresco e tornò sui propri passi per sistemarsi comodamente su una morbida poltrona. Kardec le saltò subito sulle ginocchia e si distese beato. I suoi occhi si strinsero per la felicità. Yael bevve qualche sorso di succo prima di notare la spia rossa accesa della segreteria telefonica. Allungò il braccio per mettere in funzione l'apparecchio. «È presente un messaggio», annunciò una voce digitale. «Il messaggio è stato registrato alle ore diciassette e venti. Ciao, bella! Sono Tiphaine. Ascolta, sono davvero spiacente, ma stasera non posso venire. Pat mi ha proposto di passare assieme un week- end lungo in un Relais et Châteaux... Scusami, faremo un'uscita tra donne non appena ritorno. Baci. Ah, e... ehm... tu esci lo stesso, non restartene in casa come un'appestata. Siamo in agosto, fa un caldo torrido e le strade sono piene di bei turisti. Forza, approfittane! Ti abbraccio. Fine dei messaggi.» Yael tirò un sospiro sprofondando nella poltrona. Fece scivolare una mano tra le orecchie del gatto. «Dunque, niente venerdì di baldoria», considerò, delusa. «Va bene per te, eh? Significa una serata di carezze e coccole davanti alla tv, il tuo sport preferito.» Squillò il telefono. Yael alzò il ricevitore. «Sì?» Nessuna risposta. «Pronto», insistette. «Non sento niente.» Attese ancora qualche secondo, pensando che si trattasse di un cellulare che prendeva male. Poi udì una specie di scricchiolio. Secco e musicale. Come una lastra di cristallo che si incrina. «Pronto!» Lo scricchiolio si ripeté, più prolungato. Esattamente come del ghiaccio o del vetro che si rompe, ragionò tra sé. Infine, un clic segnalò che all'altro capo della linea avevano riattaccato. Yael fece altrettanto, un po' sorpresa. Pazientò ancora un momento nel caso avessero provato a richiamarla, ma l'appartamento rimase silenzioso.