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Andrea Comotti L'organigramma PDF

240 Pages·2011·4.1 MB·Italian
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Sans papier Andrea Comotti L’organigramma El largo adiós vibrisselibri Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta. © 2006 by Andrea Comotti e vibrisselibri La nostra casa sul Web è: www.vibrisselibri.net Il lavoro di redazione per questo libro è stato svolto da: Margherita Trotta Il lavoro di revisione per questo libro è stato svolto da: Monica Golfari L’impaginazione è stata curata da: Antonio Brancaccio, Gaja Cenciarelli, Margherita Trotta L’immagine di copertina dal titolo Torri incomplete è stata gentilmente fornita da: Giuseppe Braga Il progetto grafico di copertina è stato realizzato da: Borean Design L’organigramma El largo adiós Uno Era fatta. Dio se lo era. Dal piccolo pontile a piloni e traversine di legno, come il dio dei laghi e dei pontili comanda, o almeno comandava – che il legno scarseggia e i pontili altrettanto, e quasi quasi anche i laghi, enfisemati come i polmoni di un succhiatore di pallmall –, Nicotrain si crogiolava nel colpo d’occhio della casa dei suoi sogni. Proprio così aveva imbonito l’annuncio: “Villetta da sogno con orto e giardino, terrazzo con pergola, in riva del Lago del Segrino. Pontile privato”. I dati dell’imbonimento erano più che sufficienti a titillare anima e subanima. Da quant’era che si baloccava con l’idea a occhi aperti di sentirsi cigolare sotto i piedi, alla fine di un tappeto erboso che andava dritto a pucciarsi nell’acqua, un suo personale pontile, con barchetta regolarmente imbittata, da cui (pontile) o su cui (barchetta) all’alba e al tramonto fare a braccio di ferro o a morra cinese con cavedani e lucci? Ma c’era di più, ben molto assai di più. La telefonata all’agenzia distillò il vangelo: la villetta che Morfeo si teneva sotto l’ala era a Longone al Segrino! Longone, il carcere paradisiaco dove aveva sgambettato in braghette corte e aveva poi biciclettato coi calzoni alla zuava della gioventù e quelli ermenegildozegnati della maturità nientedimeno che Carlo Emilio Gadda, Carlos El Grande, l’imperatore della parola – anche se lui si coronava soltanto duca di Sant’Aquila –, semplicemente e galatticamente l’autore da sempre circolante sovrano nelle vene e nei visceri di Nicotrain come e più di un assolo di John, di Miles, di Eric in ensemble, l’unico autore con la a maiuscola e la elle e l’apostrofo anche. La coincidenza era fatale, l’effervescenza rasentava il fuorigiri, la felicità snobbava il settimo cielo, guardato dall’alto come un qualsiasi pianterreno. Rinunciare un delitto, tentennare peggio, una viltà da Celestino V. Insalare la coda del fato invece un imperativo categorico e repentino, da meno che quattro e quattr’otto. La lira era l’ultimo dei problemi, graziaddio. Ormai rimossi in un’altra vita i tempi grami della cinghia all’ultimo buco. A quale medioevo geologico rimontava la sua travettata schiavitù al servizio ginocchioni della real casa editrice Spantégala & C., specialità grandi cose di pessimo gusto, a buon intenditor brodini di dado allungati per bocche più che buone? Adesso per mettere sotto contratto la sua penna gli editori facevano anticamera, e anche harakiri magari, ma per le scale e per strada – il parquet era degno dell’immacolata –, congedati con una pugnetta al moscato. Il primo parto era stato cesareo, nel travaglio stilistico e nel trionfo pecuniario: Exapatao. L’enigma della margherita greca. Con quel romanzo aveva smesso la biro anonima da redattore per brandire timidamente la montblanc diplomatique del neoconsacrato giallista. Metaforicamente, s’intende, perché era ormai dal paleoinformatico superiore che la visibilità nerobianca alla pagina la davano i tasti del mac, condannando alla cantina anche la gloriosa olivetti in ghisa anni trenta, quella dal 7 design ispirato all’altare della patria, per capirci, dai tasti morbidi e inanellati che tanta fluidità infondevano al circuito meningi-polpastrelli. Il romanzo non vesuviò dalle fondamenta il botteghino planetario degli incassi, era vero, scilindrò comunque la non disprezzabile magia di piedigrottare il neoautore a cavallo di una cometa technicolor imbizzarrita e in legittimo sospetto di overdose. Un melange di equilibrata simbiosi tra potenza e atto, un bouquet ineffabile di traguardo traguardato, uno striscione auroallorato sotto cui far processionare le catenelle appagate di un dna ambizioso anzichenò. Una sovramoderata felicità, insomma, che non durò che il classico prosaico attimino, qualcosa come sette giorni in cui né neuroni né polmoni né talloni si sentirono più in dovere di assecondare la volgare legge della gravità. Alla fine l’apoteosi fantasmagorica di mille e mille faville, scintille, febbrille si buconerò salutarmente nel caldo e fisico riassaporamento di quello che Herr Sigmund prescriveva inderogabilmente a vecchi e piccini, artisti e imbianchini d’entrambi i sessi: il sano principio di realtà, stare e voler stare con gli alluci ben piccicati per terra. Come dire guarda, figliolo, negli occhi la realtà, fissala e rifissala, correndo magari il rischio dell’ipnosi, tua o magari sua. Rischio concreto, perché la realtà finallora accattona si era fatta un bel bagno di metempsicosi uscendone lustra lustrenta con le fattezze di una bella vagonata di grana, tanto bella e tanto tanta e tanto vogliosa di reiterarsi in altrettanta da non poter, proprio no, non essere indotti nella tentazione circeocalipsica e anche un po’ morgana di pensarsi seduta stante un futuro di vita – e di lavoro, che della vita è la zavorra troia – affatto diverso, antipodalmente diverso. Le muse e le pieridi ululavano nel megafono Recidi il cordone, lascia il galeone o meglio la galera, fai rotta su Cuba, su Thule, su Carmina-dant-panem-at-last. Per assecondarle – no, non subito, nel giro di un paio di stagioni di riflessione, ciumbia, come dire d’attesa che il cemento del successo si consolidasse meglio con l’opera seconda – bastarono due righe notarili di congedo alla direzione cartivora del personale e un duplice addio. Il primo, the short goodbye, con il sorriso malcelato, passim trionfante, del fanculo drastico e risolutivo, stile ghigliottina all’acme della sua missione parigina, agli otto noni dei dirigenti – di che?, del traffico? del cazzo?, del traffico del cazzo? – e ai colleghi indifferenti di marciapiede, quelli che ci sono o non ci sono che te n’impipa?, te la tua strada la fai lo stesso. Il secondo, the long goodbye, con l’amaro fronte-retrogusto del pedaggio da pagare in volti e voci depennati dal quotidiano diorama degli affetti, allo zoccolo duro dei compagni-amici di lunga colleganza, quelli che in grande e in piccolo imbastiscono il pedigree della tua vita. Le lire, pur stitiche e meschine nella considerazione algoritmica dei napoleoni della finanza, hanno il discreto vantaggio di passaportarti dappertutto, basta sganciare e sganciarti, sganciarti e sganciare. Dopo il lavoro robespierrato, la seconda doverosa opzione da non dribblare per Nicotrain fu reperirsi un ubiconsistam decoroso. Per lavorarci e per viverci. Già, per viverci... Lo scrittore in carriera ascendeva da un quinquennio in mongolfiera e il sipario calava calispera sul suo matrimonio, lo 8 spettacolo non inscenava più, il copione sapeva di muffa, il suo camerino aveva da svitare la targhetta sulla porta. Già. Chi sopravvivrà vedrà. Bando alle malinconie, c’era da pensare alla ricostruzione, un neopiano marshall con aiuti totalmente autoctoni. Adesso poteva permettersi qualcosina di più del due locali di ringhiera con cesso esterno sovietico in cui si era andato a imbucare appena messo piede a Milano, erano ormai trent’anni e spiccioli. Magari uno studio-piedatterre, un amore di carbona, come direbbe Buzzati. Detto fatto. Fatta una firma cioè, in calce a un assegno, e prima dell’autografo un bruco con molti zeri. Nuovo recapito e nuovo corso a Porta Cicca – come una volta i veri indigeni meneghini chiamavano la Porta Ticinese: a proposito, Ingegnere, Cicca perché? c’entrano in qualche modo i mucci di sigaretta, le ciucciate di tabacco con la voglia di ciccare che residuano o lei pure condivide l’ipotesi classica che tutto origini da quel tale Cicca Berlicca appiccato nel 1350 in piazza Vetra, dove c’erano le forche ufficiali, e sul quale di poi circolava tra i bagai di strada, gli sciuscià milanesi, la filastrocca “Cicca Berlicca, la forca impicca, leùn, sperùn, cul rest, induìna chi l’è quest”? – quasi sotto le colonne di San Lorenzo. Un portoncino di ferro che tagliava fuori traffico e frenesia, un cortiletto con semipatio semicieco che emanava tranquillità monacale, un bell’appartamentino, imboscato al secondo piano, da palinsestare, soppalcare, parquettare nel miglior stile me-ne-fotto-delle-spese, dove installare nell’angolo del trono il fedele mac con tutti gli annessi e connessi e dove darsi, eccome, da fare perché la gloria fregoli non mostrasse tanto presto la sua facciassa piena di rughe. Metamorfosarsi la vita fu la parola d’ordine di Nicotrain, tranne che in un dettaglio geneticamente irrinunciabile: il metodo del fare, il suo way of working, l’essenza connaturata e conquistata del Nicotrain scrittore. Se c’era un credo cui impavesare la propria fedeltà, era un credo ossimorico: la finzione realistica. Sturare sì, sfrenare il bisogno, la smania quasi, di narrare, ma solo ed esclusivamente storie di cui Nicotrain aveva assaporato, dal di dentro, a suo onore e onere, umori e colori e dolori anche. Nella fattispecie giallistica, il suo peculiare e viscerale humus narrativo, le storie sbocciavano dai casi neri e veri in cui sua era stata la mano, quando non il pugno, che s’era presa la briga certosina di incollare i puntini sugl’i e poi il gran punto finale del bandolo trovato. Così era stato Exapatao, così erano poi stati gli altri misteri dolorosi (alfa) e gaudiosi (omega), già da tempo bellamente archiviati dagli inquirenti talpe di Sorrento nel loculo degli affaire inestricabili. Glieli aveva in gran parte contrabbandati – tanto che c’era da perderci? semmai la possibilità di guadagnarci – il commissario capo Checcà, al secolo Vincenzino Esposito, capintesta della mobile milanese e pappa- e-ciccia con Nicotrain ma soprattutto, per questioni di circumvesuviana conterraneità e filiale rispetto, con Don Peppino, al secolo Giuseppe Scognamiglio, maresciallo in pensione della benemerita ma tuttora sulla piazza come finissimo animale da fiuto e gran consigliori di Nicotrain in tutte le sue indagini. Il valentissimo commissario Esposito, fuori del secolo e solo per gli amici e qualche subalterno o collega che 9

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Quanto a somiglianze scordiamoci subito Paul Newman, e non per la stazza. Se proprio un referente artistico lo si vuol trovare, si pensi a un Orso
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