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Ammazzate quel fascista!: vita intrepida di Ettore Muti PDF

110 Pages·2003·0.42 MB·Italian
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Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA! Vita intrèpida di Ettore Muti. MONDADORI. 2002 Arnoldo Mondadori Editore S p A, Milano. Prima edizione ottobre 2002. INDICE. Quella notte a Fregene. Un fascista perfetto. L'avventura fiumana. L'incontro con Mussolini. Due colpi di pistola. La beffa di Addis Abeba. Dalla guerra di Spagna al vertice del partito. E' arrivato il castigamatti. La ricomparsa di Ara. La stagione degli inganni. Un cadavere ingombrante. Sette anni dopo. AMMAZZATE QUEL FASCISTA! La storia ammira i saggi ma esalta i coraggiosi EDMUND MORRIS, Theodor Rex. 1. QUELLA NOTTE A FREGENE. Ecco, Muti abita qui disse il brigadiere Barolat ai tre uo- mini in borghese che lo seguivano guardinghi con il mitra in pugno. La villetta bianca a un piano, situata al centro di un piccolo giardino circondato da una semplice rete metal- lica, era nascosta fra i pini e immersa nel buio e nel silenzio. Era infatti notte fonda. La notte fra il 23 e il 24 agosto 1943, e Fregene, benché si trovi a pochi chilometri da Roma, era ancora un lembo di costa allo stato naturale, solitario e sel- vaggio. Nessuna lottizzazione, nessun impianto turistico o balneare. Alla spiaggia si accedeva attraverso intricati sen- tieri che si incrociavano nella boscaglia, mentre l'abitato era costituito dalle baracche di legno di un villaggio di pe- scatori e da una manciata di modeste villette sparse nel- l'immensa pineta. "Di sicuro dormono tutti" soggiunse ancora, sottovoce, il brigadiere Barolat. Aveva il tono un po' risentito di chi non è troppo convinto di quello che sta facendo, e avrebbe continuato a brontolare se un "Ssst!" imperioso sibilato dal più autorèvole dei tre uomini non lo avesse fatto ammuto- lire. ll giovane sottufficiale, cui era affidato il comando del posto fisso dei carabinieri di Fregene, si era infatti rasse- gnato di malavoglia a fare da guida a quei misteriosi perso- naggi che appena mezz'ora prima lo avevano tirato giù dal letto. Era da poco passata la mezzanotte quando il pianto- ne di servizio l'aveva destato con uno strattone: "Sveglia, brigadiere! Ci sono dei tizi in borghese che chiedono di voi". E lui si era vestito alla meglio per andare a vedere co- sa diavolo volessero a quell'ora di notte. I "tizi" facevano parte della squadra di un commando speciale predisposto frettolosamente dal governo Bado- glio. Era infatti impiegato per assolvere compiti particolari Pagina 1 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt nel quadro delle operazioni riservate rèsesi necessarie do- po il colpo di Stato che aveva provocato la caduta del regi- me fascista. Li comandava il tenente dei carabinieri Ezio Taddei, un ex ufficiale dei Granatieri di Sardegna arruolato dai servizi segreti e quindi trasferito nell'Arma. Egli aveva lasciato Roma con i suoi uomini poche ore prima, alla testa di una piccola autocolonna uscita dalla porta laterale del- l'Autocentro del ministero dell'Interno di via Tommaso Campanella. Taddei e due suoi accompagnatori, tutti ar- mati, ma in borghese, viaggiavano su una 1100 nera targata RE (Regio esercito). Erano seguiti da un'altra 1100, con a bordo i marescialli dell'Arma Alarico Ricci, Osvaldo Anti- chi e Pietro Loreti, da un autocarro con dodici carabinieri in uniforme e quindi da un'autoambulanza vuota guidata dall'agente di PS Mario Cella. Si trattava della stessa au- toambulanza che meno di un mese prima, nel pomeriggio di domenica 26 luglio 1943, era stata utilizzata per trasferi- re l'ex Duce da Villa Savoia alla caserma degli allievi cara- binieri di via Gallonio, dopo il drammatico colloquio con Vittorio Emanuele Terzo che aveva preceduto il suo arresto. Anche i tre sottufficiali della squadra avevano partecipato a quella delicata operazione e il maresciallo Antichi era ap- pena rientrato da Ponza, dove aveva accompagnato Mus- solini prigioniero. Procedendo con i fari oscurati, come prescrivevano le norme del tempo di guerra, i quattro veicoli incolonnati avevano percorso le vie della capitale, rese deserte dal co- prifuoco, per poi avviarsi lungo la via Aurelia. Poco pri- ma della mezzanotte, il gruppo si era fermato davanti alla stazione dei carabinieri di Maccarese, e Taddei, documen- ti alla mano, si era qualificato al comandante, maresciallo Paolo Murittu, come un ufficiale dei servizi. Poi aveva presentato soltanto uno dei due uomini che lo accompa- gnavano, il maresciallo Ricci, qualificandolo semplice- mente come "un sottufficiale della squadra presidiaria". Dell'altro non aveva fatto cenno: come se non esistesse. Costui era il più anziano dei tre: un tipo taciturno, basso, stempiato, sulla quarantina, che indossava una tuta kaki da meccanico e portava il mitra di traverso sul petto. "Devo eseguire un mandato di cattura nei confronti del tenente colonnello Ettore Muti" aveva spiegato Taddei a Murittu. "So che abita da queste parti. Dovete farmi ac- compagnare da lui." Ettore Muti, ex segretario del PNF, il partito nazionale fa- scista, nonché eroe di guerra superdecorato, era ben noto al maresciallo Murittu, non certo sorpreso dell'accaduto mal- grado l'alzataccia notturna. In quei giorni turbinosi seguiti alla caduta del regime, molti gerarchi erano stati fermati per i consueti accertamenti, e quindi richieste del genere non erano per lui inconsuete. Ma Muti non risiedeva nella sua giurisdizione, aveva spiegato Murittu al tenente Tad- dei, bensì nella vicina Fregene e di lui si era sempre occupa- to il brigadiere Franco Barolat, comandante del posto fisso dell'Arma situato in quella frazione. Poi, ben lieto di passa- re ad altri quella che il suo fiuto di vecchio carabiniere gli garantiva essere una patata bollente, aveva messo a dispo- sizione di Taddei i carabinieri Antonio Contiero e Salvatore Frau affinché gli facessero strada in bicicletta ponendosi in testa alla colonna. Prima di muoversi, il tenente Taddei ave- va ordinato all'agente Cella di sostare con l'autoambulanza nella borgata in attesa di istruzioni, poi il convoglio si era avviato a fari spenti dietro le due guide in bicicletta. Un quarto d'ora dopo giungevano a destinazione. A differenza di Murittu, il brigadiere Barolat, quando fu informato dei fatti, non nascose la propria sorpresa: quel- lo schieramento di forze gli pareva francamente esagera- to. "Sua Eccellenza Muti non ha mai dato problemi" os- servò un po' risentito. "Basta mandarlo a chiamare e lui Pagina 2 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt viene... L'ho già fatto altre volte, anche se a un'ora più de- cente..." Ma Taddei non aveva tempo da perdere. "Rispar- mia il fiato e fai strada" tagliò corto e Barolat capì che non era il caso di insistere. Si avviò borbottando nel buio, ag- giustandosi alla meglio l'uniforme che aveva frettolosa- mente indossato, mentre il tenente Taddei ordinava a bas- sa voce agli uomini appiedati che lo seguivano di non parlare, di non accendere sigarette e di tenere le armi pronte all'impiego. Giunti davanti alla villetta silenziosa, dopo il percorso di poche centinaia di metri che li separava dal numero ci- vico 12 di via Palombina, Taddei predispose i suoi uomini attorno alla casa con le armi in pugno, sibilando i suoi or- dini come se si accingesse ad assaltare un fortilizio nemi- co. Poi ordinò al brigadiere, che aveva assistito a quelle manovre precauzionali con malcelata perplessità, di bus- sare alla porta e di farsi riconoscere. Erano le due di notte del 24 agosto 1943. Per qualche minuto nessuno rispose. Poi una luce si ac- cese nell'ingresso. "Chi è?" urlò una voce assonnata. "Sono il brigadiere Barolat" rispose il sottufficiale. "Aprite per favore. L'attendente di Muti, l'aviere Giovanni Marracco, detto "Masaniello" , spalancò l'uscio senza un attimo di esitazio- ne. Conosceva da tempo Barolat e non poteva avere sospet- ti. "Ti sembra l'ora di svegliare la gente? protestò amiche- volmente, ma subito dovette farsi da parte sotto la spinta dei tre uomini che entrarono in casa armi alla mano. "Ho un mandato di cattura per il colonnello Muti" an- nunciò Taddei. "Vallo a chiamare". Muti intanto si era svegliato. Comparve sull'ingresso della sua camera a torso nudo, con indosso soltanto i pan- taloni azzurri del pigiama. Era sorpreso, ma non spaven- tato. "Che cazzo succede? imprecò in dialetto romagnolo osservando gli uomini armati. Poi riconobbe Barolat e gli sorrise: "Brigadiere, le sembra questa l'ora di svegliare i cristiani? . La risposta gli giunse dal tenente Taddei che gli si parò davanti esibendo la tessera di riconoscimento: "Sono un tenente dell'Arma. Ho l'ordine di arrestarvi". Muti lo guardò sbalordito, ma trovò anche la forza di fare dello spirito: "Da quando in qua si manda un tenente ad arrestare un ufficiale superiore? osservò con un mezzo sorriso. La norma, infatti, avrebbe previsto quantomeno l'impiego di un parigrado. Forse Muti avrebbe voluto chiedere altre spiegazioni, ma dopo essérsi reso conto che quegli uomini armati e minacciosi stavano facendo sul se- rio, si rassegnò con una scrollata di spalle: "Va bene. Verrò con voi. Datemi il tempo di vestirmi. Egli era ancora calmo e sicuro di sé: in quegli ultimi gior- ni, molti gerarchi fascisti più compromessi di lui erano stati fermati e poi rilasciati dopo una banale dichiarazione di lealtà verso il nuovo governo. Non aveva quindi nulla da temere. D'altra parte, anche il suo amico Carmine Senise, nuovo capo della polizia, gli aveva detto di stare tranquillo, che nessuno ce l'aveva con lui. Appena due o tre giorni pri- ma, lo stesso maresciallo Badoglio, nuovo capo del gover- no, l'aveva rassicurato e intrattenuto molto cordialmente. Prima di salutarlo gli aveva persino sfiorato la guancia con un buffetto affettuoso. Quando Muti si mosse per rientrare nella sua camera, Taddei fece l'atto di seguirlo, sempre con il mitra imbrac- ciato. L'altro cercò di fermarlo. "Vi prego" disse con tono spazientito. "Nel mio letto c'è una signora... Il tenente fu irremovibile. "Mi dispiace" replicò "ma ho l'ordine di non perdervi di vista. Muti gli lanciò un'oc- chiata seccata: il tono arrogante di quel giovane ufficiale lo stava innervosendo. "Tenente, non dimenticatevi che Pagina 3 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt state parlando a un colonnello protestò, ma tutto fu inu- tile e Taddei lo seguì nell'interno. Seduta sul letto, avvolta in una camicia di seta, c'era una giovane donna spaventata e bellissima (che sarà in seguito identificata come la cittadina cecoslovacca Edith Fische- rowa, nata a Banska Bistrizce il 4 maggio 1921), la quale, sotto il nome d'arte di Dana Havlowa, aveva riscosso in Italia un grande successo di pubblico quale soubrette del- l'applaudita compagnia di riviste di Odoardo Spadaro. Rassegnato all'indesiderata presenza dell'intruso, Etto- re Muti si rinfrescò il viso con dell'acqua di colonia e, dopo essersi pettinato con cura, tolse dall'armadio la sua unifor- me estiva di tenente colonnello della Regia aeronautica. Sul petto della giubba spiccavano quattro file di decorazio- ni. Taddei intervenne con un gesto di disapprovazione. Sarebbe più consigliabile l'abito borghese" osservò. Muti ribatté con una scrollata di spalle: "Io mi vesto co- me mi pare , poi si calò i pantaloni del pigiama per indos- sare l'uniforme. Anche gli altri di casa si erano nel frattempo svegliati e sull'ingresso erano comparsi la cameriera Concettina Ve- rità e l'imprenditore romagnolo Roberto Rivalta, uno sca- polone quarantenne, coetaneo di Muti, da sempre suo ami- co fraterno e compagno di avventure e di baldorie. Pochi minuti dopo riapparve anche Muti che ordinò a Concettina di preparargli il nécessaire per radersi. Poi, dopo averle consegnato alcuni biglietti da cento lire per le spese dome- stiche, scrisse su una scatola di cerini il numero telefonico del colonnello Aliprandi, suo amico e capo di gabinetto al ministero della Marina. "Telèfonagli appena fa giorno" or- dinò alla donna "e infòrmalo di quanto è accaduto." Poi si rivolse a Taddei: "Ora sono pronto. Possiamo andare". Quel giovane ufficiale arrogante e i suoi due silenziosi accompagnatori non l'avevano turbato più di tanto. Nella sua vita spericolata di moderno soldato di ventura Muti aveva affrontato situazioni assai più difficili. Prima di av- viarsi verso la porta salutò con un sorriso l'amico Rivalta, baciò sulla guancia la giovane amante, si calcò in testa il berretto inclinandolo sulla sinistra per assumere la consue- ta aria spavalda e uscì nel buio seguito dalla sua taciturna scorta. Aveva fretta di risolvere quella strana faccenda. 2. UN FASCISTA PERFETTO. Ettore Muti aveva tutte le caratteristiche del "fascista per- fetto" idealizzato dalla retorica del regime. Se Mussolini avesse potuto indicarne l'archètipo, certamente lo avrebbe scelto come modello. Muti infatti era bello, robusto, corag- gioso, violento, sciovinista e spaccone. Di cultura modesta, più del libro amava il moschetto; le sfide con la morte lo affascinavano e la virilità senza aggettivi era la sua religio- ne. Ruvido e cameratesco con gli uomini, si mostrava ga- lante, rapace e irresistibile con le donne. Votato all'avven- tura per l'avventura senza pregiudizi ideologici o freni morali, era sempre pronto a correre dove bisognava menar le mani, e infatti non si perse mai una guerra, una rivoluzio- ne o una semplice bravata. D'altronde, "vivere pericolosa- mente" era stato il suo motto ancora prima che Mussolini lo scegliesse come viatico dell'homo NOVUS che il regime inten- deva forgiare. Di temperamento ribelle, trasgressivo e anti- conformista, Muti disprezzava la vita còmoda e il panciafi- chismo borghese. Uomo d'azione e non di pensiero, non sopportava le scartoffie, i contraddittori, i bizantinismi, i sottintesi, le manovre sottobanco, il carrierismo e soprat- tutto i cacadubbi. Per lui non esistevano zone grigie: se una cosa non era bianca doveva per forza essere nera. Insomma, Pagina 4 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt un uomo con molto fegato e poco cervello, come scriverà di lui Galeazzo Ciano, sconcertato dalla sua ingenuità, dal- la sua avventatezza, ma anche dalla sua specchiata onestà. Un tipo siffatto era ovviamente destinato a diventare fascista, ma da ragazzo, quando il fascismo non esisteva ancora e il giovane Mussolini, suo conterraneo e suo futu- ro idolo, predicava la rivoluzione socialista, l'indisciplina- to studente Ettore Muti veniva semplicemente considera- to un simpatico lavativo che tutti avrebbero voluto avere come compagno, ma nessuno come figlio o come marito della propria figlia. Nato a Ravenna il 22 aprile 1902, già dalla scelta del suo nome si poteva intravederne il destino: mamma Celestina Ghepardi, donna ambiziosa, di nobili natali e animata da sacro fuoco patriottico, gli aveva imposto quello di Ettore, ispirandosi non al malinconico figlio di Priamo ma all'eroi- co Fieramosca, trasformato dalla retorica risorgimentale in un paladino dell'italianità. Il padre di Ettore era invece di pasta diversa, non si occupava di politica e non coltivava sogni ambiziosi per il suo unico figlio maschio: un "posto fisso" al servizio dello Stato era per lui il traguardo più ambito. Si chiamava Cesare ed era un impiegato comunale modesto e incolore. Dominato dalla forte personalità della moglie, non eserciterà alcuna influenza sull'educazione del ragazzo, interamente affidato alle cure della madre e delle sorelle maggiori Linda e Maria. Coccolato da tre don- ne adoranti, Ettore crebbe come un piccolo dèspota cui tut- to era perdonato, accentrando l'attenzione, l'amore e le speranze del piccolo e mediocre mondo femminile che lo circondava. Gli esperti di psicologia sono soliti sostenere che un ra- gazzo allevato fra sole donne è destinato a sviluppare un carattere debole ed effeminato, ma se questo teorema può forse essere valido per altri, certamente non lo fu per Muti. A tredici anni, quando frequentava le scuole tecniche di via Baccarini, era già un maschiaccio che primeggiava nelle ba- ruffe e scarseggiava negli studi. A scuola infatti era il classi- co alunno dell'ultimo banco inviso agli insegnanti, ma am- mirato dai compagni e dalle ragazzine. Alto, robusto e bello più del normale, a mano a mano che cresceva assomigliava sempre più a quei divi messi in voga dal cinema muto e ri- spondenti all'atletico modello del "ragazzone americano" dalle spalle quadre, dal sorriso spavaldo e dallo sguardo te- nebroso. La sua bellezza aveva soltanto una pecca. Gli inci- sivi superiorl gli erano cresciuti stranamente distanziati e rendevano meno gradevole il suo sorriso. In seguito, quan- do i mezzi glielo permetteranno, Muti si farà costruire da un abile odontotecnico un piccolo apparecchio per nascon- dere questo difetto. Si trattava in pratica di due denti finti, inseriti fra quelli veri, che gli consentivano di scherzarci so- pra e di vantarsi di avere in bocca trentaquattro denti inve- ce dei normali trentadue. Prima ancora di modificare il proprio aspetto con la prò- tesi dentaria, Muti aveva subìto un altro curioso cambia- mento, di natura anagrafica. Il suo vero cognome infatti non era Muti, ma Muty, e quella "y" finale, così poco italia- na, era stata a lungo un cruccio per mamma Celestina, in- fervorata di patriottismo e di irredentismo. Per papà Cesa- re non era stato comunque troppo difficile accontentare l'irrequieta consorte. Essendo impiegato presso l'ufficio a- nagrafe del comune di Ravenna, aveva provveduto lui stesso, senza ricorrere alle complicate autorizzazioni giu- diziarie, a cancellare l'esotica "y" per sostituirla con una italianissima "i". Questa singolare iniziativa si rivelò utile molti anni dopo, quando Ettore Muti, diventato un potente gerarca fascista, cominciò a essere assediato da presunti "parenti", che spuntarono come funghi da ogni parte d'Ita- lia per postulare favori e raccomandazioni. In quell'occa- Pagina 5 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt sione, infatti, si trincerò dietro l'originaria "y" finale man- dando via a mani vuote tutti i Muti che finivano in "i". D'altra parte, Ettore non peccò mai di nepotismo e ri- fiutò sempre le piaggerie. Si infischiava delle tradizioni familiari e così pure dei tentativi di nobilitare la sua stir- pe, che invece mamma Celestina non si stancava di inco- raggiare. Una volta, per esempio, uno storico locale scovò negli archivi ravennati un canonico di nome Muty ucciso nel 1825 da un colpo di fucile destinato al cardinale Ago- stino Rivarola, il famigerato legato pontificio che aveva messo a ferro e fuoco la Romagna papalina al tempo dei primi moti risorgimentali. Fiero della sua scoperta, lo sto- rico non esitò a segnalarla a Ettore Muti dimostrando che quel prete era un suo prozio. Questi però non apprezzò la segnalazione. "Ma che canonico d'Egitto!" commentò con un'alzata di spalle. "Io non ho preti in famiglia." Era infat- ti un romagnolo rivoluzionario e mangiapreti degno delle migliori tradizioni locali. La famiglia Muti abitava in corso Garibaldi, davanti alla caserma di cavalleria di Santa Maria della Porta, e il piccolo Ettore spesso scappava di casa per assistere alle esercitazio- ni dei soldati. Gli squilli di tromba, l'alzabandiera e gli altri riti militareschi lo affascinavano. Nutriva una vera passio- ne per le uniformi e il suo gioco preferito era quello della guerra. Con gli altri amici del quartiere aveva formato una piccola banda di tipo militare che si ispirava nelle azioni e nei gesti alle imprese eroiche dei protagonisti di uno dei più diffusi giornaletti dell'epoca. Si trattava del settimanale "L'Esploratore", il cui eroe più popolare era un ragazzo di nome Gim, sempre al centro di episodi avventurosi che si concludevano immancabilmente col trionfo del tricolore. Muti, che ne era un assiduo lettore, pretese di essere chia- mato "Gim" da tutti i suoi compagni, e quel soprannome lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Così come in famiglia, il ragazzo primeggiava anche fra i compagni. Più alto e più robusto dei suoi coetanei, Gim era immancabilmente il capobanda e non esitava a fare a botte con chi osava contestarne la supremazia. Voleva che tutti lo imitassero nell'ardimento e imponeva alla sua cric- ca "prove di coraggio esagerate, per non dire criminali. Una volta, a un ragazzo che voleva entrare nel suo grup- po, disse: "Per dimostrare il tuo coraggio tira forte con le dita la pelle del collo, te la trapasserò con la mia carabina Flobert". Il poveretto obbedì e l'altro sparò sul serio. Il medico che curò il ferito non riuscì a capire come avesse fatto il piccolo proiettile a perforargli in due punti il collo senza lèdere organi vitali. Più tardi, chiamati dal padre del ferito, intervennero anche i carabinieri, i quali, consi- derata l'età del giovane delinquente, si limitarono a se- questrargli la carabina. Di solito, comunque, Gim amava scherzare e buttare in gioco anche gli episodi più seri. Dopo le baruffe non porta- va rancore e spesso gli bastava un sorriso, una battuta di spirito o un abbraccio per farsi perdonare. Sapeva prendere tutti per il verso giusto giocando sul suo innegabile fascino e sulla simpatia che emanava la sua persona. Anche in casa era così: una risata, una trovata, una spavalderia, impedi- vano sempre, al momento buono, di intervenire contro di lui col giusto rigore. D'estate la famiglia Muti trascorreva la villeggiatura a Piangipane, un paesino della Romagna dove abitavano i nonni materni e dove il ragazzo si scatenava fino a diven- tare la disperazione dei contadini. Armato del suo insepa- rabile fucile Flobert, gironzolava per i campi dando la cac- cia a tutto ciò che si muoveva: lucertole, passerotti, bisce, ratti e galline. Queste ultime, dopo averle catturate, le portava in un solaio dove aveva allestito una sorta di sala di tortura e si divertiva a spennarle vive o a impiccarle Pagina 6 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt mettendo in opera un complicato congegno. Crudele co- me tutti i ragazzi, si divertiva ad assistere alla loro agonìa. Nonostante le sgridate, Ettore era molto affezionato al nonno, un ex garibaldino dal quale si faceva cantare sino all'esaurimento tutte le canzoni di guerra di sua cono- scenza. Ma, pur amandolo, non mancava di combinargli scherzi atroci. Come quando, approfittando dei suoi mo- menti di distrazione, segò di un centimetro al giorno il ba- stone sul quale si appoggiava, ridendo poi a crepapelle quando il povero vecchio perdeva l'equilibrio senza ca- pirne la ragione. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, l'incor- reggibile dìscolo cominciò ben presto a far parlare di sé an- che nella sonnolenta Ravenna, rendendosi protagonista di fatti e di episodi che, visti oggi, diventano addirittura signi- ficativi. A quel tempo la situazione dei lavoratori della terra delle campagne romagnole, già esplosiva, ancora non si ri- percuoteva nel centro cittadino dove la vita scorreva tran- quilla. I partiti di sinistra (il partito socialista e quello re- pubblicano, il primo votato dai braccianti, il secondo dai mezzadri e dai piccoli proprietari) che egemonizzavano la vita politica, essendosi da tempo inseriti nel governo loca- le, si erano istituzionalizzati ed esercitavano di conseguen- za una funzione conservatrice. Il "ribellismo" fermentava più nelle file della destra, dove studenti, giovani borghesi e figli di papà movimentavano l'ambiente con dimostrazioni patriottiche che con l'avvicinarsi della guerra diventarono sempre più rumorose. Anche in Romagna, come nel resto dell'Italia, stava infatti crescendo una generazione di gio- vani, che poeti e poetastri sciovinisti ubriacavano di retori- ca patriottica esaltando il "mito degli eroi, delle armi in- vitte", degli "acciai rilucenti e così via, alimentando nei loro animi la voglia di potenza, di ardimento, di combatten- tismo e di guerra. Una guerra che veniva invocata come un lavacro purificatore e che invece li porterà a dissanguarsi nelle trincee del Carso e sulle rive del Piave. Ettore Muti era troppo giovane per appartenere a que- sta generazione, ma deve aver orecchiato, sia pure confu- samente, le nuove istanze che si levavano attorno a lui, di cui forse afferrò soltanto l'aspetto più confacente al suo temperamento. Ossia l'esaltazione del gesto distruttivo, dell'eroismo personale, del militarismo, del patriottismo e di tutti quei "sacri ideali" per i quali era giusto morire. Una prova singolare del suo precoce ribellismo e della sua visione del mondo, il dodicenne Ettore la fornì nell'autun- no del 1914 quando, terminato il ciclo delle sei classi ele- mentari, i suoi genitori lo iscrissero alle scuole tecniche. A quell'epoca, la prima guerra mondiale era già scoppiata, ma coinvolgeva soltanto le grandi potenze europee: l'Ita- lia era ancora neutrale, anche se le fibrillazioni delle fazio- ni interventiste già la scuotevano, trovando un fertile ter- reno fra gli studenti delle scuole superiori. Un mattino il suo professore di lettere, un socialista mo- derato e neutralista, dopo aver indottrinato i propri ragaz- zi con un fervorino umanitario e pacifista, assegnò loro il seguente tema: "Lo studente esemplare". Muti si mise al lavoro di buona lena e riempì quattro paginette descriven- do con espressioni appropriate la figura del classico stu- dente che l'insegnante aveva indicato come modello. Ossia disciplinato, studioso, bravissimo in tutte le materie, senza grilli per la testa, voglioso di benmeritare e sordo alle lusin- ghe dei cattivi compagni che marinavano le lezioni per cor- rere in piazza a gridare "Viva la guerra". Ma, terminato lo svolgimento, Muti aggiunse in stampatello un irriverente giudizio finale: "QUESTO PERO' NON E' UN RAGAZZO, MA UN ABORTO DI NATURA". Il tema del giovane ribelle fece scalpore non solo nel- l'ambiente scolastico. Il consiglio dei professori espresse il Pagina 7 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt proprio biàsimo e decretò due giorni di sospensione per il responsabile. Fu convocata anche mamma Celestina la quale, tuttavia, non si dimostrò particolarmente turbata e non nascose una certa fierezza per quel suo ragazzone scanzonato che osava infrangere le regole del perbenismo borghese. Dell'episodio si parlò anche in città e non man- carono le approvazioni degli ambienti nazionalisti che in- terpretarono quel gesto come una patriottica protesta con- tro un sistema scolastico decadente teso a smorzare ogni valore spirituale nell'animo dei giovani. Lo studente "non" esemplare intanto gongolava. I sottin- tesi apprezzamenti lo inorgoglivano e alimentavano in lui quella voglia di mettersi in mostra e di farsi ammirare per le bravate commesse che diventerà in seguito la sua principa- le caratteristica. Tornato a scuola, Muti non modificò affatto il proprio comportamento, e l'obiettivo dei suoi tiri manci- ni continuarono a essere quei compagni che lui considera- va "aborti di natura", ossia i primi della classe e gli sgobbo- ni. Li tormentava a ogni occasione contando sulla propria forza fisica. Una volta ingerì il contenuto del calamaio di un compagno più bravo di lui per impedirgli di portare a ter- mine il compito. Un'altra rubò il registro di classe procu- randosi di nuovo una sospensione dalle lezioni. Il 24 maggio 1915, data in cui l'Italia entrò nel conflitto mondiale, Ettore Muti, tredicenne da poco più di un me- se, era un ragazzo dal fisico robusto che sembrava più adulto della sua età. Come si è detto, la guerra lo entusia- smava; seguiva con attenzione i resoconti dei giornali e non perdeva occasione per disertare le lezioni e correre in piazza a gridare "Abbasso l'Austria" e "Viva Trieste italia- na". A scuola, naturalmente, andava sempre peggio. La computisteria non lo ispirava e passava il tempo a dise- gnare sui quaderni cannoni e mitragliatrici. D'altronde, la gente non parlava che della guerra e la partecipazione dell'Italia al conflitto aveva accentuato la sua irrequietez- za. Quando andava alla stazione a vedere i soldati che partivano per il fronte, in cuor suo li invidiava. D'altra parte, anche Gim, il protagonista del suo giornaletto pre- ferito, aveva indossato il grigioverde e ora combatteva eroicamente contro i "cattivi" che vestivano l'uniforme austriaca. In classe l'atmosfera era mutata. Il combattentismo face- va presa sull'animo dei ragazzi, ma un po' meno su quello degli insegnanti. Gli scontri fra pacifisti e interventisti era- no frequenti e fu proprio in seguito a uno di questi inciden- ti che il nostro Gim si giocò l'anno scolastico. Non è del tut- to chiaro come siano andate le cose e la versione originale dei fatti sarà in seguito sommersa dalla leggenda secondo la quale il ragazzo Muti sarebbe insorto per contestare cer- te affermazioni disfattiste del suo insegnante. Il fatto è che il ragazzo ebbe uno scontro col professore. Questi impu- gnò minacciosamente la classica bacchetta (a quell'epoca le punizioni corporali non erano proibite), ma Muti fu più ra- pido di lui e lo mise KO con un diretto alla mascella. Il ri- provevole episodio rappresentò la goccia che fa traboccare il vaso: il consiglio dei professori questa volta non diede ascolto alle suppliche di mamma Celestina e decise di li- berarsi definitivamente dell'incorreggibile allievo. Ettore Muti fu infatti espulso da tutte le scuole del regno. Per alcuni mesi lo studente ribelle vagabondò per le vie di Ravenna frequentando compagnie di ragazzi più gran- di e balordi al pari di lui. Di malavoglia seguiva le lezioni private impostegli da papà Cesare che, nel contempo, si affannava a compilare ricorsi con la sua bella calligrafia, nella speranza di veder condonata al proprio ragazzo quella radiazione che minacciava di mettere in forse il suo futuro. Gim, da parte sua, neppure si rendeva conto della gravità della situazione in cui era venuto a trovarsi. La Pagina 8 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt commentava con spavalderia, si atteggiava a vittima di un sopruso e si vantava di quel suo gesto di ribellione che anche mamma Celestina sembrava approvare. Il ragazzo cominciava così a dar prova di un carattere violento che nessuno si era preoccupato di modificare: l'uso della forza iniziava ad apparirgli come l'unico mezzo efficace a sua disposizione per ottenere ciò che voleva. Si avviava in- somma su una strada pericolosa da cui sarebbe stato an- cora possibile distoglierlo, visto che in fondo era generoso e di buon cuore. Ma erano tempi brutti: l'Europa intera annegava in un bagno di sangue, le nazioni cercavano di risolvere con la guerra i loro problemi, la propaganda bel- licista infiammava gli animi, e i giovani dal sangue bol- lente, di qualsiasi idea, e anche quelli come Muti, privi di ogni idea, si sentivano prudere le mani. Il primo anno del conflitto non si era ancora concluso quando il ragazzo mise in atto un progetto che forse colti- vava da tempo. Una notte di dicembre del 1915 scappò di casa "per andare a fare la guerra", come scrisse su un bi- glietto d'addio lasciato alla mamma. Viaggiò con mezzi di fortuna o con le tradotte militari e in pochi giorni raggiun- se la zona di operazioni in Cadore, dove riuscì facilmente a mescolarsi alle truppe fingendo di essere uno dei tanti profughi che si aggiravano nelle retrovie. Rimase con i soldati per alcune settimane prestandosi come garzone nelle caserme e nelle cucine. Aveva architettato di procu- rarsi un'uniforme sottraendola di notte a qualche caduto e di unirsi ai soldati avviati verso il fronte. Ma il suo so- gno guerriero fu infranto dai carabinieri che, insospettiti dai suoi atteggiamenti, lo fermarono nei pressi di Udine e lo condussero a Cormons, dove aveva sede il comando di Stato maggiore, per procedere alla sua identificazione e quindi rispedirlo a casa. Il caso volle che la pattuglia che lo scortava incontrasse per strada il generale Luigi Cador- na, comandante supremo dell'esercito italiano, il quale, incuriositosi, conversò paternamente per alcuni minuti col piccolo prigioniero. Riguardo al loro colloquio la leg- genda ha certamente oscurato la verità. In seguito, infatti, si è raccontato che Cadorna, dopo aver ascoltato commos- so le proteste del ragazzo che voleva andare a fare la guer- ra, avrebbe commentato: "La guerra? Ma se hai appena quattordici anni!" E l'al- tro, pronto: "La piccola vedetta lombarda ne aveva uno meno di me". Molto probabilmente questa versione deamicisiana del- l'episodio è stata inventata da uno dei tanti apologeti del gerarca fascista. E certo comunque che Cadorna, invece di tirargli le orecchie, lo lodò pubblicamente indicandolo co- me esempio agli altri soldati. Ritornato a Ravenna, il fuggiasco non trovò l'accoglien- za che si meritava, né una giusta e appropriata punizione. "Credevo di essere molto in collera con lui," racconterà sua madre molti anni dopo "invece dalle mie labbra non uscì nemmeno un rimprovero e lo abbracciai innumerevo- li volte, singhiozzando di commozione, per la felicità di averlo di nuovo con me. Lui mi raccontò sorridente la sua bella avventura e mi confidò che non si era mai divertito così tanto in vita sua. Gli piaceva fare il soldato. Il mio Et- tore era nato con la divisa." Con una madre così, vien fatto di pensare, difficile che l'irrequieto Gim non ci riprovasse. E infatti fu quanto ac- cadde poco più di un anno dopo. Questa volta organizzò la sua fuga con maggiore attenzione. Si procurò infatti i docu- menti di un amico più anziano di lui, che aveva deciso di non rispondere alla chiamata alle armi e sulla cui identità Muti mantenne il massimo riserbo per non comprometter- lo (in tempo di guerra i disertori venivano fucilati). Poi, do- po aver falsificato quelle carte in maniera alquanto abbor- Pagina 9 Arrigo Petacco. AMMAZZATE QUEL FASCISTA!.txt racciata, ritornò nel Cadore e si presentò al comando mi- litare situato in zona di operazioni. Arruolarsi non gli fu difficile. Non aveva ancora compiuto quindici anni, ma es- sendo alto e aitante, ne dimostrava almeno diciotto, quanti ne risultavano dai documenti posticci. Comunque nessu- no trovò nulla da ridire: la sua prestanza fisica ingannò gli esaminatori. Per giunta, l'esercito aveva un tale bisogno di uomini che non si guardava troppo per il sottile. Preso in forza nel sesto reggimento di fanteria della brigata Aosta, la recluta fu spedita direttamente al fronte dopo poche settimane di addestramento, e per alcuni mesi il ragazzo-soldato esperimentò con abnegazione ed entusia- smo le durezze della vita militare come fante tra i fanti. Ma non era ancora contento: lui voleva fare la guerra, combat- tere. I servizi di retrovia, i noiosi turni di guardia e il dispo- tismo dei sergenti non si confacevano al suo temperamento ribelle. Così, quando pochi mesi dopo, nella primavera del 1917, il capitano Baseggio costituì i primi reparti d'assalto in cui potevano arruolarsi soldati di ogni arma e di ogni età, fu tra i primi a offrirsi volontario. Il nuovo ambiente in cui il ragazzo venne a ritrovarsi era quello da lui sempre sognato: poca disciplina, tanto entu- siasmo, forte cameratismo tra ufficiali e soldati, razioni spe- ciali di cibo, soprassoldo, alcol e sigarette, oltre a una voglia comune di menar le mani. Essendo tutti volontari, i compo- nenti delle truppe d'assalto erano infatti delle autentiche pellacce pronte ad affrontare qualsiasi rischio e capaci di compiere le azioni più temerarie. Originariamente il repar- to aveva assunto il nome di "Compagnia esploratori della morte", ma in seguito i suoi componenti furono chiamati semplicemente "Arditi". In un primo tempo, essi vennero impiegati per rapidi colpi di mano a raggio limitato o per improvvise scorrerie nelle trincee nemiche. Più tardi, es- sendo aumentati di numero, furono raggruppati in reparti di ordine superiore fino a formare una divisione, e impe- gnati in vere e proprie operazioni offensive ad ampio rag- gio. L'armamento individuale degli Arditi era costituito dal moschetto, dal pugnale e dalle bombe a mano; quello di re- parto disponeva di mitragliatrici Fiat 1914, di pistole mitra- gliatrici, di lanciatorpedini e di lanciafiamme. Tutte armi nuove, pratiche e maneggevoli, che entusiasmavano quei soldati spericolati. Anche l'uniforme distingueva gli Arditi dagli altri fanti: giubba grigioverde aperta sul petto, fiam- me nere come mostrine e ancora fez con nappa, maglione, cravatta e fasce gambiere, pure di colore nero. Un colore che andrà molto di moda di lì a pochi anni... Persino i motti scelti dai vari reparti ("Disperata", "Me ne frego", "Se non son matti non li vogliamo", ecc.) dopo la guerra confluiran- no interamente nel lessico fascista insieme al funebre arma- mentario di teschi, di tibie incrociate e di altri simboli mor- tuari che gli Arditi esibivano nelle loro uniformi fuori ordinanza. Diventato la mascotte del Primo reparto d'assalto, Muti si di- stinse subito per uno straordinario coraggio che rasentava la sventatezza. "Pugnale fra i denti e bombe a mano" , come diceva la canzone degli Arditi, Gim affrontava quasi quoti- dianamente la morte con incosciente spavalderia. Rotto a tutte le astuzie del combattimento, maneggiava ogni tipo di arma con l'abilità di un veterano. Aveva finalmente tro- vato il suo mestiere: la guerra. Gli piaceva il combattimen- to, e al termine di ogni operazione partecipava felice con gli adulti alle colossali bisbocce che i comandi tolleranti con- sentivano e incoraggiavano per mantenere sempre su di gi- ri il morale di quei soldati d'élite. Le imprese compiute dal- l'adolescente Muti (il più giovane in assoluto del reparto) furono veramente innumerevoli, tanto che si conquistò ben presto l'ammirazione dei camerati e dei superiori. Quell'e- roico ragazzone sempre pronto per ogni azione spavalda Pagina 10

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