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Ama il tuo nemico: Nelson Mandela e la partita di rugby che ha fatto nascere una nazione PDF

208 Pages·2012·2.49 MB·Italian
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Preview Ama il tuo nemico: Nelson Mandela e la partita di rugby che ha fatto nascere una nazione

Il libro L’entusiasmante resoconto di una delle sfide più affascinanti della storia – la decennale campagna condotta da Nelson Mandela per unire un popolo, iniziata dalla cella della sua prigione e culminata in una partita di rugby. «Un libro magnifico… Ci sono scene che vi emozioneranno fino alle lacrime.» The New York Times Uscito dal carcere, dopo ben ventisette anni, Nelson Mandela ha ancora di fronte a sé il nemico contro cui ha speso tutta la vita: l’apartheid. Il carismatico leader deve giocare la più difficile delle sfide politiche: unire ciò che la storia ha diviso e fare del suo Paese una vera nazione. Nel 1994 si tengono le prime elezioni a suffragio universale del Sudafrica, e Mandela trionfa. Ma se il Sudafrica è fatto, restano da fare i sudafricani. Così il genio politico del prigioniero n° 46664 si inventa la più audace e improbabile delle scommesse: usare il rugby, lo sport dei bianchi, per unire una volta per tutte i sudafricani. Fino a quel giorno gli Springboks, gli alfieri della palla ovale, sono stati l’orgoglio della minoranza afrikaner e la dannazione della maggioranza nera, che si interessa alla nazionale soltanto per tifare contro. Mandela intuisce ciò che nessun altro è in grado di vedere: «Se non potete parlare alle loro menti, parlate ai loro cuori». Così il Sudafrica ottiene l’organizzazione della coppa del mondo del 1995, e inizia il miracolo. Gli Springboks collezionano vittorie, e il Paese intero si innamora. Il 24 giugno i giocatori scendono in campo per disputare la finale contro i temibili All Blacks, la squadra neozelandese considerata la più forte del mondo. Mandela siede in tribuna, mentre sessantaduemila tifosi, per la maggior parte bianchi, lo acclamano. E al coro si uniscono davanti alla tivù i milioni di neri delle township. Contro ogni pronostico quel giorno gli Springboks realizzano il punto decisivo e coronano il sogno del loro presidente: quarantadue milioni di sudafricani sono finalmente uniti dalla stessa passione. Un ritratto inedito di «Madiba», forse il più grande uomo politico della storia recente. Un racconto di sport, umanità e politica da cui è stato tratto il film Invictus - L’invincibile, girato dalla sapiente mano di Clint Eastwood. L’autore John Carlin ha collaborato con prestigiose testate come The New York Times, Wired, Spin, The Observer e The Independent, di cui è stato corrispondente in Sudafrica dal 1989 al 1995. Oggi scrive per El País. In Italia alcuni dei suoi articoli sono comparsi su Internazionale. www.johncarlin.eu JOHN CARLIN AMA IL TUO NEMICO A mio figlio, James Nelson «Non parlate alle loro menti. Parlate ai loro cuori.» NELSON MANDELA Introduzione LA prima persona a cui proposi questo libro fu Nelson Mandela. Ci incontrammo nel soggiorno di casa sua a Johannesburg nell’agosto 2001, due anni dopo il suo ritiro dalla presidenza del Sudafrica. Dopo qualche simpatica battuta – gli riuscivano molto bene – e dopo avere condiviso alcuni ricordi sui difficili tempi della transizione democratica in Sudafrica, che io avevo seguito per conto di un quotidiano britannico, venne il mio turno di parlare. Cominciai a esporgli i temi generali del libro, spiegando che a mio avviso tutte le società umane, che ne fossero consapevoli o meno, aspiravano a una sorta di utopia: i politici fanno leva sulle speranze del popolo, facendogli credere che il paradiso in Terra sia possibile, ma dato che non lo è, le vite delle nazioni, come quelle degli individui, sono caratterizzate da un perpetuo rincorrere i sogni. Nel caso di Mandela, il sogno che l’aveva sostenuto nei ventisette anni di prigionia era stato lo stesso di Martin Luther King: vedere, un giorno, il suo popolo venire giudicato per la propria natura interiore e non per il colore della pelle. Mentre parlavo, Mandela sedeva imperscrutabile come una sfinge. Faceva sempre così quando la conversazione diventava seria, e non eri mai sicuro se stesse ascoltando o se fosse perso nei suoi pensieri. Ma appena citai King, Mandela annuì, serrando le labbra e abbassando il mento verso il basso. Incoraggiato, spiegai che volevo scrivere un libro sulla pacifica transizione avvenuta in Sudafrica dal dominio bianco al governo di maggioranza, dall’apartheid alla democrazia; che il racconto avrebbe abbracciato un periodo di dieci anni, a partire dai primi contatti da lui avuti in prigione con il governo sudafricano nel 1985 (e qui accennò un altro segno di approvazione). L’argomento, dissi, era rilevante per fare luce su quei conflitti scaturiti da incomprensione e diffidenza, che andavano di pari passo con il congenito tribalismo delle specie. Intendevo «tribalismo» nel senso più ampio del termine, cioè applicabile ai concetti di razza, religione, nazionalismo e politica. George Orwell definì il nazionalismo come «l’abitudine di accettare il fatto che gli esseri umani possano essere classificati alla stregua di insetti e che milioni e milioni di persone siano presuntuosamente etichettate come ‘buone’ o ‘cattive’».1 Dalla caduta del nazismo, in nessun luogo al mondo quest’abitudine crudele e disumana era stata istituzionalizzata in maniera così profonda come in Sudafrica. Mandela stesso aveva descritto l’apartheid come un «genocidio morale»: niente campi di concentramento, ma il subdolo sterminio della dignità di un popolo. Per quel motivo l’apartheid sudafricano era stato l’unico sistema politico al mondo che, in piena guerra fredda, svariati Paesi (fra cui Stati Uniti, Unione Sovietica, Albania, Cina, Francia, Corea del Nord, Spagna, Cuba) concordavano nel definire «un crimine contro l’umanità», secondo la formula delle Nazioni Unite. Eppure, da quell’enorme ingiustizia il mondo aveva visto emergere una riconciliazione di proporzioni epiche. Feci notare a Mandela che nel mio lavoro di giornalista avevo incontrato diverse persone che si adoperavano per la pace in Medio Oriente, America Latina, Africa e Asia, e che per tutti loro il Sudafrica era un ideale a cui aspirare. Nel settore «risoluzione dei conflitti» (in rapida crescita dalla fine della guerra fredda, quando un po’ ovunque erano scoppiate guerre regionali) l’esempio da seguire per chi voleva raggiungere la pace con mezzi politici era la «rivoluzione negoziata del Sudafrica», come la definì qualcuno. Nessun Paese era mai stato traghettato con maggiore abilità e umanità dalla tirannia alla democrazia. Molto era stato scritto, ammisi, sui particolari tecnici del «miracolo sudafricano», ma ciò che secondo me mancava era un libro che parlasse del fattore umano, della «miracolosità» del miracolo. Immaginavo una storia spudoratamente positiva che ritraesse l’animale umano al suo meglio. Un racconto incentrato su un eroe in carne e ossa, e su un Paese in cui la maggioranza nera avrebbe dovuto gridare vendetta, ma che invece, seguendo l’esempio del suo leader, aveva dato al mondo intero una sublime lezione di perdono. Ci sarebbe stata anche un’ampia gamma di personaggi, sia neri sia bianchi, le cui storie avrebbero tratteggiato l’immagine vivente della grande cerimonia di redenzione sudafricana. Inoltre, in un’epoca in cui il panorama internazionale non offriva che leader «nani» dal punto di vista etico (non reagì in alcun modo a questa affermazione), il mio libro sarebbe stato su di lui, Nelson Mandela. Non una biografia, ma una storia sul suo genio politico, su quel talento che gli aveva permesso di conquistare i nemici facendo appello alle loro migliori qualità; facendo cioè emergere, per dirla con Abraham Lincoln, gli angeli migliori della loro natura. Spiegai che intendevo mettere al centro dell’opera un particolare evento sportivo. Lo sport era un mezzo potentissimo per suscitare emozioni di massa e formare percezioni politiche (qui mi concesse un altro rapido cenno). Riportai l’esempio delle olimpiadi di Berlino del 1936, che Hitler sfruttò per promuovere l’idea della superiorità della razza ariana, sebbene l’atleta nero Jesse Owens l’avesse presto insabbiata vincendo quattro medaglie d’oro; e quello di Jackie Robinson, il primo giocatore di baseball nero a militare nella Major League, cosa che contribuì a mettere in moto il cambiamento che sarebbe sfociato nelle grandi riforme sociali statunitensi. Menzionai anche l’inaspettata vittoria di hockey su ghiaccio degli Stati Uniti contro l’Unione Sovietica alle olimpiadi invernali del 1980, un successo tanto più soddisfacente perché ottenuto in patria. Ricordai a Mandela una frase da lui usata un anno o due prima, quando aveva consegnato un premio alla carriera al calciatore Pelé. Lessi dagli appunti che avevo portato con me: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone come poche altre cose. […] È più potente dei governi nell’abbattere le barriere razziali». Infine arrivai al dunque e gli svelai il cuore narrativo del libro, spiegando perché avessi bisogno del suo sostegno. Dissi che c’era stata un’altra occasione sportiva che superava gli esempi appena riportati e che abbracciava tutti i temi a cui avevo accennato. Un evento che aveva magicamente evocato la «sinfonia di fratellanza» del sogno di Martin Luther King, e in cui era converso tutto ciò per cui Mandela si era battuto e per cui aveva sofferto una vita intera. Improvvisamente, capì a che cosa mi stavo riferendo e il suo sorriso illuminò la stanza. Poi, congiungendo le grandi mani in segno di comprensione, disse con gioia: «La coppa del mondo di rugby del 1995!» Il mio sorriso confermò le sue parole. Dopodiché esclamò a gran voce: «Sì, sì, certo! Ho capito benissimo che libro ha in mente!» come se d’un tratto avesse avuto quarant’anni di meno. «John, ha la mia benedizione. Di tutto cuore», concluse, e fu per me un enorme incoraggiamento. Entrambi felicissimi, ci salutammo con una stretta di mano e ci accordammo per un altro incontro di lì a breve. Durante quella seconda intervista, questa volta con il registratore acceso, Mandela disse di avere compreso il potere politico dello sport quando era ancora in prigione. Raccontò di come avesse usato la coppa del mondo di rugby per raggiungere il grande obiettivo che si era prefissato quando era diventato il primo presidente democraticamente eletto del Sudafrica: riconciliare bianchi e neri e creare le condizioni per una pace durevole in un Paese che solo cinque anni prima, quando lui era stato scarcerato, mostrava tutti i segni di una nazione sull’orlo della guerra civile. Con il sorriso sulle labbra, mi spiegò quanto era stato difficile persuadere i suoi fedeli a sostenere la nazionale di rugby sudafricana, gli Springboks, e parlò con stima e affetto del capitano, Francois Pienaar, il grande biondo figlio dell’apartheid, e del direttore di squadra Morné du Plessis, un altro colosso afrikaner che Mandela definì, con lo stile cortese di un britannico vecchia maniera, «un bravo ragazzo». Dopo la «benedizione» di Mandela, tutti accettarono di farsi intervistare per il mio libro. Avevo già accumulato molto materiale durante i sei, memorabili anni – dal 1989 al 1995 – in cui avevo lavorato in Sudafrica come corrispondente capo per l’Independent, e anche nei dieci anni successivi come inviato. Tuttavia, cominciai a fare interviste per questo lavoro solo dopo l’incontro con Mandela. La prima fu con una stella del rugby, Hennie le Roux. Non mi sarei mai aspettato di uscire emozionato da una chiacchierata con un rugbista, ma quella volta Le Roux si commosse parlando di Mandela e della parte che lui, un modesto afrikaner a digiuno di politica, si era ritrovato ad avere nella storia della sua nazione. Trascorremmo insieme circa due ore in un ufficio vuoto, mentre il sole tramontava, e ogni tanto Le Roux doveva interrompere la frase per soffocare i singhiozzi. Quella prima intervista diede il tono alle decine di altre che seguirono. Spesso gli occhi di chi avevo di fronte si inumidivano, specialmente se era qualcuno legato al mondo del rugby. In ogni caso, che fosse l’arcivescovo Desmond Tutu o il generale nazionalista di estrema destra Constand Viljoen, oppure suo fratello gemello Braam, di simpatie sinistroidi, tutti rammentavano con estrema gioia, se non con euforia, gli eventi di cui tratta questo libro. Più di una volta gli intervistati mi hanno fatto notare che quella che mi accingevo a scrivere sembrava una favola, o una parabola, ed era strano sentirselo dire dai protagonisti. Il fatto che fosse ambientata in Africa e parlasse di una partita di rugby era

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