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Alvin L'Apprendista PDF

326 Pages·1989·1.28 MB·Italian
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ORSON SCOTT CARD ALVIN L'APPRENDISTA (Prentice Alvin, 1989) Per tutti i miei buoni maestri, in particolare: Fran Schroeder, quarta elementare, scuola elementare Millikin, Santa Clara, California, per cui scrissi le mie prime poesie. Ida Huber, docente d'inglese, seconda superiore, Mesa High School, Arizona, che credeva nel mio futuro più di me. Charles Whitman, docente di drammaturgia, Brigham Young University, che riusciva a rendere i miei copioni migliori di quello che erano. Norman Council, docente di letteratura, University of Utah, per Spenser e Milton, vivi e presenti. Edward Vasta, docente di letteratura, University of Notre Dame, per Chaucer e per la nostra amicizia. E sempre François. I IL SORVEGLIANTE Permettetemi d'incominciare la storia di Alvin l'apprendista dal momen- to in cui le cose cominciarono a mettersi per il verso sbagliato. Il fatto av- venne molto più a sud, e riguardava un uomo che Alvin non avrebbe mai visto in vita sua. Eppure fu quest'ultimo a mettere in moto la catena di av- venimenti che avrebbe portato Alvin a commettere ciò che la legge defini- va «omicidio»... lo stesso giorno in cui terminò il suo apprendistato e poté a buon diritto dirsi un uomo. Il fatto cui mi riferisco avvenne in una località del territorio degli Appa- lachi, nel 1811, prima che gli Appalachi firmassero il Trattato sugli Schia- vi Fuggiaschi ed entrassero a far parte degli Stati Uniti. Avvenne presso il confine tra gli Appalachi e le Colonie della Corona, dove non c'era Bianco che non aspirasse a possedere uno stuolo di schiavi neri che faticassero al posto suo. Per quel tipo di Bianco la schiavitù era una specie di alchimia, o così almeno egli se l'immaginava. Escogitava perciò ogni possibile maniera per trasformare ogni goccia di sudore caduta dalla fronte di un Nero in oro sonante, e ogni gemito di disperazione uscito dalla gola di una Nera nel dolce, limpido suono di una moneta d'argento sul banco del cambiavalute. In quei luoghi le anime erano in libera vendita. Eppure non uno di quei Bianchi capiva quale fosse veramente il prezzo che pagava per possedere altri esseri umani. Ascoltatemi bene, e vi narrerò come appariva il mondo visto dall'interno del cuore di Cavil Planter.* Ma prima assicuratevi che i bambini siano andati a letto; questa infatti è una parte del mio racconto che i bambini non devono ascoltare, poiché tratta di appetiti che essi ancora non sono in gra- do di comprendere, e non è il caso che ne vengano a conoscenza proprio da me. Cavil Planter era un uomo devoto, un uomo di chiesa, un uomo che pa- gava regolarmente le decime. Tutti i suoi schiavi, lui li battezzava dando loro un nome cristiano non appena avevano imparato l'inglese abbastanza da comprendere la parola del Vangelo. Vietava loro di praticare qualsiasi arte segreta... anzi, non permetteva loro di uccidere neanche una gallina, per timore che trasformassero un atto così innocente in un sacrificio a qualche divinità mostruosa. Cavil Planter insomma serviva il Signore me- glio che poteva. Ma quale fu la ricompensa per tanta rettitudine? Sua moglie, Dolores, cominciò a essere afflitta da atroci dolori, e dita e polsi le si deformarono come quelli di una vecchia. A venticinque anni, quasi ogni notte si addor- mentava piangendo, e Cavil non sopportava di dividere la camera con lei. Cercò di aiutarla con impacchi d'acqua fredda, bagni in acqua calda, polveri e pozioni, spendendo più di quanto avrebbe potuto permettersi per una serie di ciarlatani con laurea in medicina dell'Università di Camelot, e conducendo da lei una processione di predicatori con le loro interminabili preghiere e di preti con i loro fantasiosi incantesimi. Tutto ciò non aveva sortito il minimo effetto. Ogni notte doveva restarsene lì disteso ascoltan- dola piangere finché il pianto non si mutava in una sorta di gemito, e poi gemere finché il respiro non si faceva regolare, con un lieve uggiolio quando espirava, una traccia appena accennata di dolore. Mesi di quella vita fecero quasi impazzire Cavil di pietà, rabbia e dispe- razione. Gli pareva di non chiudere mai occhio. Tutto il giorno a lavorare nei campi, e poi restare sveglio tutta la notte implorando il Signore perché gli concedesse un po' di requie. Se non per lei, almeno per sé. Fu la stessa Dolores a concedergli sonni tranquilli. «Devi lavorare ogni giorno, Cavil, e se non dormi non puoi farlo. Io non riesco a stare zitta, e tu non riesci a sopportarlo. Ti prego... va' a dormire in un'altra stanza.» Cavil si offrì di restare comunque. «Sono tuo marito, il mio posto è qui accanto a te...» così disse, ma lei seppe vedere nel suo cuore. «Vai» disse. Alzò addirittura la voce: «Vai!» Così Cavil se ne andò, vergognandosi del sollievo che provava. Quella notte fece tutto un sonno, cinque ore filate sino all'alba, dormì bene per la prima volta da mesi, forse da anni... e al mattino si alzò consumato dal rimorso per non essere rimasto al fianco di sua moglie. Coll'andar del tempo, tuttavia, Cavil Planter si abituò a dormire da solo. Andava spesso a trovare sua moglie, di giorno e di notte. I pasti li consu- mavano insieme in camera di lei, Cavil seduto su una sedia davanti al tavo- lino apparecchiato, Dolores a letto con le mani aperte sul lenzuolo come granchi morti mentre una Nera la imboccava gentilmente. Anche se dormiva in un'altra stanza, Cavil non era immune dai tormenti. Non avrebbero potuto avere bambini. Né maschi che una volta diventati adulti potessero prendere nelle loro mani la prospera piantagione di Cavil, né femmine da concedere a qualche buon partito con una splendida ceri- monia nuziale. La sala da ballo al pianterreno... Quando aveva condotto Dolores nella splendida villa che aveva costruito per lei, le aveva detto: «In questa sala da ballo le nostre figlie incontreranno i loro futuri mariti e per la prima volta le loro mani si sfioreranno così come ci accadde a casa di tuo padre». Adesso Dolores non entrava mai in quella sala. Scendeva al pianterreno solo la domenica per andare in chiesa e quelle rare volte che Cavil comprava qualche nuovo schiavo e questi veniva battezzato. In simili occasioni tutti la vedevano, e ammiravano sia lei sia Cavil per il loro coraggio e la fede che dimostravano a fronte di tante avversità. Ma l'ammirazione dei vicini era di poca consolazione per Cavil, quando con- templava le rovine dei suoi sogni. Tutto ciò per cui aveva pregato... Era come se il Signore ne avesse fatto l'elenco su un foglio di carta, e poi aves- se scritto «no, no, no» a margine di ogni voce. Quelle delusioni avrebbero forse amareggiato un uomo di minor fede. Ma Cavil era un uomo giusto e timorato di Dio, e ogni volta che gli capita- va di pensare che il Signore potesse trattarlo ingiustamente, smetteva di fare qualsiasi cosa stesse facendo, tirava fuori di tasca un piccolo salterio, e recitava le parole del saggio: In Te, o Signore, ripongo la mia fede; porgimi il Tuo orecchio, sii la mia rocca incrollabile. Nel pronunciare quelle parole si concentrava strenuamente, e dubbi e ri- sentimenti scomparivano come neve al sole. Il Signore era con Cavil Plan- ter, anche nelle sue tribolazioni. Fino al mattino in cui, leggendo la Genesi, giunse ai primi due versetti del capitolo 16. Sara, moglie di Abramo, non poteva aver figli, ma aveva una serva egi- ziana di nome Agar. Ora, Sara disse ad Abramo: «Vedi, il Signore mi ha impedito di dare alla luce dei figli; va', ti prego, dalla mia serva; forse potrò aver prole da lei». E in quel momento gli attraversò la mente un pensiero. Abramo era un uomo giusto, e anch'io lo sono. La sposa di Abramo non poteva dargli dei figli, e nemmeno dalla mia posso sperarlo. Nella loro casa vi era una schiava africana, e ve ne sono anche nella mia. Perché non potrei fare co- me Abramo, e avere dei figli da una di queste donne? Non appena ebbe concepito questo pensiero, rabbrividì d'orrore. Aveva udito vociferare di spagnoli, francesi e portoghesi che vivevano nelle isole calde del Meridione, e che pur essendo Bianchi convivevano apertamente con donne Nere... indubbiamente si trattava dei più infimi rappresentanti della razza umana, alla pari di chi si accoppiava con le bestie. E poi, anche se avesse avuto un figlio da una Nera, come avrebbe potuto farne il suo erede? Per un ragazzo di sangue misto sarebbe stato più facile imparare a volare che entrare in possesso di una piantagione nello Stato degli Appala- chi. Cavil scacciò quel pensiero dalla propria mente. Ma, mentre sedeva a far colazione in camera di sua moglie, quel pensie- ro fece nuovamente capolino. Cavil si scoprì a osservare la Nera che im- boccava sua moglie. Quella donna era egiziana proprio come Agar, no? Notò come il torso si piegasse agilmente sulla vita ogni volta che portava il cucchiaio dal vassoio alla bocca. Notò che quando si chinava in avanti per avvicinare la tazza alle labbra dell'inferma, il seno della serva oscillava in avanti premendo contro la stoffa del vestito. Notò la delicatezza con cui le sue dita toglievano briciole e gocce dalle labbra di Dolores. Immaginò che quelle dita toccassero lui e avvertì un leggero fremito. Ma dentro di lui fu come un terremoto. Uscì a precipizio dalla stanza senza dire una parola. Una volta fuori di casa, strinse convulsamente il suo salterio. Purificami dalla mia iniquità e liberami da ogni peccato. Giacché riconosco le mie trasgressioni: e il mio peccato è sempre dinanzi a me. Eppure, anche mormorando queste parole, alzò lo sguardo e vide le don- ne di ritorno dai campi che si lavavano all'abbeveratoio. Tra loro c'era la ragazzina che aveva comprato solo qualche giorno prima, pagandola ben seicento dollari anche se era ancora giovanissima, perché probabilmente sarebbe stata una buona fattrice. Fresca di nave com'era, non aveva ancora imparato un'oncia di pudicizia cristiana. Se ne stava lì, nuda come un ver- me, china sull'abbeveratoio, e si versava ciotole d'acqua sulla testa e sul dorso. Cavil restò a guardarla come paralizzato. Quella che in camera di sua moglie era stata solo una fuggevole tentazione, adesso divenne un silen- zioso parossismo di desiderio. Non aveva mai visto niente di più aggrazia- to di quelle cosce di un nero bluastro che si strofinavano una contro l'altra, non meno invitanti del brivido che la percorreva mentre l'acqua le ruscel- lava sul corpo. Era forse questa la risposta alla sua invocazione? Il Signore gli stava for- se dicendo che anche lui doveva comportarsi come Abramo? Molto probabile invece che sotto ci fosse qualche stregoneria. Chi pote- va sapere quali arti segrete possedessero quelle Nere appena arrivate dal- l'Africa? La ragazzina sapeva che Cavil la stava guardando, e cercava d'in- durlo in tentazione. Quelle Nere dovevano essere veramente la progenie del diavolo, per suscitare in lui pensieri così malvagi. Distolse a forza lo sguardo dalla nuova schiava e si voltò, celando il suo sguardo bruciante nelle parole del libro. Solo che per qualche motivo la pagina non era più la stessa - quando mai l'aveva voltata? - e Cavil si ritro- vò a leggere il Cantico dei Cantici. Le tue mammelle sono come caprioletti gemelli di gazzella, che pascolano tra i gigli. «Signore aiutami» mormorò. «Allontana da me questo incantesimo.» Giorno dopo giorno mormorò la stessa preghiera, eppure giorno dopo giorno si sorprendeva a guardare con desiderio le sue schiave, e in partico- lare la schiavetta recentemente acquistata. Perché sembrava che Dio non gli prestasse ascolto? Non aveva sempre agito rettamente? Non si compor- tava bene con sua moglie? Non conduceva onestamente i suoi affari? Non versava forse le decime e le altre offerte? Non trattava bene i suoi schiavi? Perché il Signore Iddio non lo proteggeva allontanando da lui quell'incan- tesimo pagano? Eppure, nel momento stesso in cui pregava, la sua confessione si tra- sformava in fantasie peccaminose. O Signore, perdonami per aver pensato alla nuova schiavetta in piedi sulla soglia della mia camera da letto, in la- crime per le frustate prese dal sorvegliante. Perdonami per avere immagi- nato di farla distendere sul mio letto, e di alzarle la gonna per spalmarle sulla pelle un unguento così potente che le vesciche sulle cosce e sulle na- tiche spariscono sotto i miei occhi e lei comincia a ridere piano e a dime- narsi lentamente sulle lenzuola e a gettarmi occhiate di sottecchi, sorriden- do, e poi si gira e tende le braccia verso di me e... O Signore, perdonami, salvami dalla dannazione eterna! Ogni volta che gli succedeva, tuttavia, non poteva fare a meno di chie- dersi: perché simili pensieri mi attraversano la mente proprio mentre sto pregando? Forse non sono meno giusto di Abramo; forse è il Signore stes- so a inviarmi questi desideri. La prima volta non è stato forse mentre leg- gevo le Scritture? Il Signore può operare miracoli... che accadrebbe se mi unissi alla nuova schiavetta e lei concepisse, e il Signore operasse un mira- colo e il bambino nascesse Bianco? Tutto è possibile al Signore. Questo pensiero era insieme meraviglioso e terribile. Se solo fosse stato vero! Ma Abramo aveva udito la voce del Signore, e non aveva mai potuto nutrire dubbi riguardo a ciò che il Signore voleva da lui. A Cavil Planter, Dio non aveva mai rivolto la parola. E perché non l'aveva fatto? Perché Dio non glielo diceva a chiare note? Prendi la ragazza, è tua! Oppure: non toccarla, ella ti è interdetta! Signore, fa' soltanto che io possa udire la Tua voce, per sapere che cosa debbo fare! Oh Signore, mia fortezza; a Te levo il mio pianto, non tacere: giacché se tacerai temo di diventare come coloro che precipitano nell'abisso. Un certo giorno del 1810 la sua preghiera venne esaudita. Cavil era inginocchiato sotto la tettoia del tabacco. Il locale era quasi vuoto, visto che il tabacco dell'anno precedente era stato venduto già da tempo, e il raccolto di quell'anno verdeggiava ancora nei campi. Lacerato tra preghiere, confessioni e oscure fantasie, alla fine esclamò: «Non c'è nessuno che possa udire la mia preghiera?» «La sento fin troppo bene» disse una voce severa. Sulle prime Cavil ne restò terrorizzato, nel timore che qualche estraneo - un vicino o magari il suo stesso sorvegliante - avesse udito chissà quale confessione. Ma, quando alzò lo sguardo, vide che non si trattava di nes- suno di sua conoscenza. Eppure capì immediatamente che cosa fosse quel- l'uomo. Dalle braccia nerborute, dal volto bruciato dal sole e dalla camicia aperta - non portava soprabito - dedusse che non si trattava senz'altro di un gentiluomo. Però non era nemmeno un vagabondo bianco, né un venditore ambulante. Quell'espressione severa, la freddezza dello sguardo, la tensio- ne dei muscoli che ricordava la molla compressa di una trappola d'accia- io... Evidentemente era uno di quegli uomini che con la frusta e i ferri san- no mantenere la disciplina tra i Neri che lavorano nei campi. Un sorve- gliante. Solo che era più forte e pericoloso di qualsiasi sorvegliante che Cavil avesse mai visto. Capì all'istante che quel sorvegliante avrebbe spremuto fino all'ultima oncia di lavoro dai pigri scimmioni che cercavano di scansare la fatica dei campi. Capì che qualsiasi piantagione condotta da quel sorvegliante avrebbe sicuramente prosperato. Ma Cavil capì anche che non avrebbe mai osato assumere un uomo del genere, perché quel sor- vegliante era così forte che Cavil avrebbe ben presto dimenticato chi fosse il padrone e chi il sottoposto. «Molti prima di te mi hanno chiamato Padrone» disse lo straniero. «Sa- pevo che mi avresti riconosciuto subito per quello che ero.» Com'era possibile che l'uomo conoscesse le parole che Cavil aveva pen- sato nei più oscuri recessi della sua mente? «Allora sei davvero un sorve- gliante?» «Proprio come una volta è esistito un uomo che non era noto come un maestro, ma semplicemente come il Maestro, così anch'io non sono un sorvegliante, bensì il Sorvegliante.» «Perché sei venuto?» «Perché tu stesso mi hai chiamato.» «E come potevo chiamarti, se non ti ho mai visto prima?» «Quando s'invoca l'invisibile, Cavil Planter, non bisogna stupirsi se ci si trova davanti a qualcosa che non si è mai visto prima.» Solo allora Cavil capì sino in fondo quale sorta di visione si trovasse a contemplare, proprio lì sotto la tettoia del tabacco. Un uomo che molti avevano chiamato Maestro era giunto in risposta alla sua preghiera. «Signore Gesù!» esclamò Cavil. Il Sorvegliante indietreggiò di scatto, sollevando una mano come per proteggersi dalle parole di Cavil. «A nessuno è concesso di rivolgersi a me con quel nome!» gridò. Terrorizzato, Cavil si chinò fino a sfiorare la terra con la fronte. «Perdo- nami, Sorvegliante! Ma se sono indegno di pronunciare il tuo nome, com'è possibile che io possa guardarti in viso? O sono condannato a morire oggi stesso, senza aver potuto far penitenza per i miei peccati?» «Guai a te, stolto» disse il Sorvegliante. «Che cosa ti fa pensare che quello che vedi sia il mio volto?» Cavil alzò la testa e guardò l'uomo. «In questo momento vedo i tuoi oc- chi, che mi guardano.» «Scorgi solo il volto che mi hai attribuito con la tua mente, il corpo che hai evocato con la tua immaginazione. Il tuo debole intelletto non potrebbe mai comprendere ciò che si troverebbe di fronte, se tu mi vedessi come sono realmente. Perciò l'intelletto protegge il proprio equilibrio inventando una maschera da sovrapporre alle mie vere sembianze. Se tu mi vedi come un Sorvegliante, è perché a queste sembianze attribuisci la grandezza e il potere che io possiedo. È la forma che tu ami e temi, la forma che suscita in te venerazione e repulsione. Sono stato chiamato in molti modi. Angelo della Luce e Uomo che Cammina, Estraneo Inaspettato e Ospite Lumino- so, Colui che si Nasconde e Leone di Guerra, Distruttore del Ferro e Porta- tore d'Acqua. Oggi tu mi hai chiamato Sorvegliante, e di conseguenza, per te, questo è il mio nome.» «Potrò mai conoscere il tuo vero nome, o vedere il tuo vero volto, Sor- vegliante?» Il volto del Sorvegliante si fece scuro e spaventoso, ed egli spalancò la

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