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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZA POLITICA PDF

320 Pages·2010·2.94 MB·Italian
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Preview Alma Mater Studiorum – Università di Bologna DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZA POLITICA

AAllmmaa MMaatteerr SSttuuddiioorruumm –– UUnniivveerrssiittàà ddii BBoollooggnnaa DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZA POLITICA Ciclo XXII Settore scientifico-disciplinare di afferenza: SPS/04 TITOLO della TESI DA ALLEATI VITTORIOSI AD ACERRIMI RIVALI: I PROCESSI DI RI-ALLINEAMENTO DOPO I CONFLITTI EGEMONICI. Teorie a confronto e studio di casi. Presentata da: Simone Pasquazzi Coordinatore Dottorato Relatore Giliberto Capano Vittorio Emanuele Parsi Esame finale anno 2010 Indice Premessa: l’oggetto della ricerca……………………………………………………………..4 Ringraziamenti……………………………………………………………………………………9 PARTE PRIMA – DA ALLEATI A RIVALI: DUE APPROCCI TEORICI A CONFRONTO I. Cornici teoriche di riferimento e ipotesi…………………………………………………11 1. Un approccio neorealista…………………………………………………………………..12 2. Un approccio liberale……………………………………………………………………....35 II. Metodo……………………………………………………………………………………….60 1. Casi di studio………………………………………………………………………………60 2. Variabili, fonti, modalità d’analisi………………………………………………………62 PARTE SECONDA – DUE CASI DI RI-ALLINEAMENTO III. Il processo di riallineamento dopo la Grande Guerra Francese, 1815-1840…….72 1. I rapporti fra le potenze europee nell’età della Restaurazione: 1815-1831………….76 2. I nuovi allineamenti: 1832-1840………………………………………………………...86 3. Analisi……………………………………………………………………………………..95 3.1 La distribuzione della potenza in Europa, 1816-1840………………………………...98 3.2 Verifica delle ipotesi neorealiste……………………………………………………..110 3.3 Struttura interna e politica estera delle potenze europee, 1816-1840……………….119 3.4 Verifica delle ipotesi liberali………………………………………………………….156 2 IV. Il processo di riallineamento in Europa dopo la Prima Guerra Mondiale, 1919-1932……………………………………………........................................................167 1. I rapporti fra le grandi potenze dal 1919 al 1925………………………………….....169 2. I rapporti fra le grandi potenze dal 1926 ai primi anni ‘30……………………….....176 3. Analisi……………………………………………………………………………………185 3.1 La distribuzione internazionale del potere, 1919-1932………………………………...192 3.2 Verifica delle ipotesi neorealiste………………………………………………………..200 3.3 Struttura domestica e politica estera delle potenze, 1919-1932…………………………206 3.4 Verifica delle ipotesi liberali…………………………………………………………….253 Conclusioni……………………………………………………………………….....................264 Appendice………………………………………………………………………………………277 Bibliografia. ……………………………………………………………………………………284 3 Premessa: l’oggetto della ricerca. Comprendere perché gli stati cooperano o competono è una delle questioni più dibattute fra gli studiosi di relazioni internazionali. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti, dato che a tali dinamiche sono associate le origini di alcuni dei fenomeni di maggiore interesse per la scienza politica internazionalista, a cominciare dalla pace e dalla guerra. Questo studio vuole offrire un contributo utile alla spiegazione della cooperazione e della competizione fra le nazioni in ambito politico-militare, interrogandosi in particolare sul perché, dopo i conflitti egemonici, alcuni alleati vittoriosi continuano a cooperare, mentre altri, viceversa, entrano in competizione e divengono rivali1. Tale tendenza è una delle più ricorrenti manifestazioni delle relazioni interstatali: se consideriamo ad esempio le coalizioni vincenti delle guerre mondiali del XX secolo, in entrambi i casi riscontriamo alcuni attori alleati durante le ostilità e negli anni successivi, altri schierati dalla stessa parte nel corso del conflitto, ma non dopo di esso. Così, per limitarci all’esempio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna sviluppano una significativa cooperazione sia prima sia dopo la disfatta tedesca, mentre gli USA e l’URSS sono alleate prima della sconfitta nazista, ma si trovano su fronti contrapposti pochi anni dopo. Capire le ragioni alla base dei ri-allineamenti dopo i conflitti globali sembra un fertile interrogativo di ricerca non solo per comprendere le dinamiche competitive (e cooperative) fra le grandi potenze, ma anche perché ai 1 Con la dizione «guerra egemonica» vengono indicati in letteratura i conflitti di portata globale, dove pressoché tutti i principali attori di un dato sistema internazionale partecipano, combattuti con dispiegamento di uomini e mezzi illimitato e, più o meno consapevolmente, per il conseguimento di posizioni di dominio all’interno del medesimo sistema, dunque per obiettivi che vanno oltre quelli legati alle cause immediate della loro origine. Tali conflitti si configurano spesso come scontri ad un tempo politici, economici e militari. Fra questi si possono citare la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta (431-404 a.C.), la guerra dei trent’anni (1618-1648), le guerre di Luigi XIV (1667- 1713), le guerre della Francia rivoluzionaria e napoleonica (1792-1815), le due guerre mondiali del XX secolo (1914- 1918, 1939-1945). Alcuni autori hanno poi sostenuto che tali conflitti siano innescati proprio dalle reazioni generate dai tentativi di singole potenze in ascesa di conquistare l’egemonia su scala globale o regionale a danno di «potenze leader» o stati egemoni eventualmente in declino. Di qui si comprende anche l’attenzione per i conflitti egemonici non solo all’interno dei war studies ma, più in generale, nell’ambito delle teorie sull’egemonia e sui cicli egemonici, dove essi divengono uno dei più tipici veicoli di mutamento internazionale. Sul concetto di guerra egemonica, le sue definizioni e le elaborazioni teoriche ad esso collegate cfr. Aron (1964, 359) e Gilpin (1989a, 15-37); per una disamina degli autori che hanno affrontato il tema del conflitto egemonico soprattutto nella seconda prospettiva cfr. Cashman (2000, 254- 257) e Parsi (2007, 81-105, spec. 92-95). Certi studiosi, volgendo lo sguardo a sistemi internazionali o periodi storici diversi da quelli dei conflitti menzionati (soprattutto se orientati da concezioni regionali piuttosto che mondiali della guerra egemonica), hanno considerato «egemoniche» la seconda guerra punica (Moscati 1994; Gilpin 1989b, 276), le guerre combattute nell’antico sistema cinese degli Stati Combattenti (403-221 a.C.) (Sawyer 1996), le guerre di Carlo V (1522-1559) (Mowat 1979), le guerre d’indipendenza olandese (Toynbee e Modelski, citt. in Parsi 2007, 93). Altri autori, infine, hanno reputato «egemonica» la guerra fredda: in effetti, salvo che per l’assenza di scontri bellici diretti fra le due superpotenze o globali tra i due blocchi, il conflitto in questione sembra aver presentato tutte le proprietà distintive di un conflitto egemonico -d’altra parte essa è stata accostata a tali guerre (anche) per aver espresso una contrapposizione bipolare simile a quella che fece da sfondo alla guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene (es. Gilpin 1991, Copeland 2000), per quanto vi siano autori che non ritengano propriamente bipolare il sistema greco del V sec. a.C. (cfr. es. Aron 1970, 177-186, il quale sembra considerarlo più simile a quello multipolare bipolarizzato che si formò in Europa negli anni che precedettero l’inizio della prima guerra mondiale). L’orientamento prevalente in letteratura tende però a considerare egemoniche solo il primo blocco di guerre citate (su questo punto si veda Parsi 2007, pp. 92-93). 4 processi di riallineamento dopo le guerre egemoniche sono generalmente associati, come evidenziato da illustre letteratura, mutamenti estremamente significativi rispetto ai princìpi che definiscono l’ordine e il funzionamento dei sistemi internazionali2. Inoltre, tale quesito sembra molto attuale alla luce del recente sviluppo, nell’ambito disciplinare delle Relazioni internazionali, di uno specifico filone di studi sulle international rivalries3. Gli studi sul tema proposto non sono molti. Se infatti la letteratura offre alcuni contributi sulla dinamica delle alleanze alla fine dei conflitti, essa sembra carente di lavori sull’intero ciclo del riallineamento. Detto altrimenti, non mancano riflessioni su quali effetti produca la fine di una guerra sulla coalizione vincente; il principale obiettivo di queste analisi è di valutare la plausibilità di una delle più classiche argomentazioni realiste sulle alleanze, cioè se la sconfitta dei nemici sia sufficiente a determinare la fine della coalizione e, in caso contrario, a capire quali fattori possano spiegarne la sopravvivenza4. Tuttavia, non sembra vi siano ricerche specifiche e di ampio respiro volte a spiegare il «riallineamento», cioè quel processo di durata variabile che vede i membri di una coalizione vittoriosa continuare a cooperare o entrare in competizione, eventualmente schierandosi 2 Ci si riferisce a quelli che Robert Gilpin definisce mutamenti «sistemici», cioè profondi cambiamenti nella distribuzione internazionale del potere, nella gerarchia del prestigio, nelle norme e nei diritti del sistema o, in altri termini, ai cambiamenti che G. John Ikenberry associa ai reordering moments, cioè alle fasi di grande riordinamento politico-istituzionale dei sistemi internazionali dopo i conflitti fra grandi potenze. Cfr., rispettivamente, Gilpin (1989b, 82-94; tit. orig. 1981); Ikenberry (2001, 7-10). 3 Del resto, se gli studi sulle alleanze vantano una lunga e consolidata tradizione all’interno della disciplina -ne presentano una visione d’insieme, fra gli altri, Colombo (2001, 25-100), Cesa (1995), Donelan (1990) e Ward (1982), quelli sulle rivalità internazionali sembrano essersi sviluppati in modo significativo solo a partire dagli anni ’90, secondo due approcci: «statico», tipico degli studi statistico-quantitativi «a largo N» (cfr. es. Goertz e Diehl, 2000); «dinamico-evolutivo», d’impostazione storico-comparata (es. Thompson 1999), adottato anche in questa sede. Sulle differenze fra i due approcci torneremo nel cap. II, par. 2. 4 Esempi dell’argomentazione realista in Wolfers (1968, 268-271); Riker (1962, 71); Aron (1962, trad. ingl. 1967, 44), secondo cui, in sostanza, gli stati smetterebbero di cooperare perché in un contesto anarchico e altamente competitivo come quello internazionale, l’assenza di una minaccia comune indurrebbe gli alleati a non fidarsi più l’uno dell’altro, ad entrare in contrasto sui dividendi della vittoria e, in ultima analisi, a rompere l’alleanza. Alcuni lavori hanno sostenuto la plausibilità dell’argomento realista in un’ottica funzionalista, affermando che ogni alleanza non può sopravvivere, per definizione, al venir meno della funzione stessa per cui viene creata (cfr. es. Rosen 1970). Altri contributi «non realisti» arrivano tuttavia a conclusioni diverse. Wallander e Kehohane (1996 e 1999), riflettendo sulla sopravvivenza della NATO dopo la dissoluzione del blocco orientale, e sulle molteplici ed eterogenee attività di sicurezza da essa svolte negli anni ’90, sostengono, secondo una logica neo-liberale, che le alleanze possono sopravvivere alla caduta dei loro nemici se espressione di un complesso istituzionale in grado di garantire la sicurezza degli alleati andando oltre il classico contenimento militare di stati avversari, originari o potenziali. Argomentazioni simili, sempre con particolare riferimento alla NATO, sono state avanzate da Risse-Kappen (1995, spec. 218-226). Altri autori, guardando (anche) alle strutture domestiche dei membri delle coalizioni belliche, hanno riscontrato che queste, sconfitto uno o più nemici comuni, hanno meno probabilità di collasso quando i loro membri non subiscono processi rivoluzionari e mutamenti di regime (es. Bueno de Mesquita et al., 1992). Altri studiosi ancora hanno affermato che una delle cause della fine delle alleanze vincenti possa essere l’eterogeneità ideologica dei loro membri (Frankel 1979, 130; Dawson e Rosecrance 1966, 21-51; Holsti 1970, 93-103). Robert Jervis (1986) ha invece identificato la fine di diverse coalizioni vincenti nel disaccordo esistente fra gli alleati sul tipo di «framework normativo» da conferire ai diversi sistemi internazionali post- bellici. Davies (1998) ha infine dimostrato come non poche delle coalizioni belliche formatesi in Europa fra le guerre napoleoniche e la seconda guerra mondiale siano sopravvissute per molti anni dopo la sconfitta nemica. Tali risultanze, in netto contrasto con l’argomentazione realista tradizionale sulla fine delle alleanze, vengono non solo di frequente richiamate da studiosi non realisti, ma sono state evidenziate, in anni recenti, anche da autori d’impostazione realista intenti a riflettere sulle cause della scomparsa (o della sopravvivenza) delle coalizioni (es. Walt 1997, Colombo 2001, 43-48). Ciò nonostante, come vedremo nel primo capitolo, l’idea secondo cui la sconfitta avversaria porterebbe le coalizioni a scomparire, o quanto meno ad entrare in crisi e subire defezioni, sembra ancora piuttosto diffusa nella letteratura sulle alleanze, soprattutto in ambito neorealista (Cesa 2007, 32). 5 al fianco dei perdenti per contrapporsi agli ex-alleati5. Una parziale ed originale eccezione, verso cui lo studio proposto è debitore di parte della sua ispirazione, è Wolf (2002), che tenta di comprendere se i rapporti di rivalità maturati fra gli alleati vincenti di alcune guerre dell’epoca contemporanea possano essere spiegati meglio da una logica strutturale o da una sottosistemica. Questo lavoro risente tuttavia di alcuni limiti importanti, sia per una certa opinabilità delle integrazioni teoriche che realizza per sviluppare le ipotesi di partenza, sia perché propone dei test empirici non del tutto coerenti. Infine, esso legge le evidenze raggiunte soprattutto in termini di policy prescriptions, restando pressoché muto sulle loro possibili implicazioni teoriche6. D’altro canto, i modelli dei già citati Gilpin (1989b) e Ikenberry (2001), sebbene possano fornire diversi spunti per comprendere i riallineamenti fra le potenze dopo le guerre egemoniche, sono stati concepiti per spiegare fenomeni distinti e più ampi, cioè, rispettivamente, il rapporto fra grandi conflitti e mutamento internazionale e i (diversi) livelli di istituzionalizzazione del sistema internazionale dopo i primi -fenomeni che per loro natura implicano analisi delle relazioni internazionali non limitate ai soli rapporti fra le principali potenze di un dato sistema, che è invece l’aspetto su cui la nostra ricerca vuole concentrarsi in modo precipuo. Una produzione non molto più ampia sul tema è quella della storia diplomatica, che però, in quanto tale, presenta impostazioni prevalentemente descrittive, al più orientate da «schemi o modelli interpretativi», ma non da precisi ed espliciti quadri teorici (né, tanto meno, da alcuna finalità nomotetica o prescrittiva). In questo ambito si segnala ad esempio Nicolson (1934), che 5 Non necessariamente stringendo un formale patto di alleanza militare con gli ex-nemici, ma, più generalmente, allineandosi con essi dal punto di vista politico-diplomatico, sebbene, in taluni casi, cooperandovi sul piano militare pure in assenza di trattati formali che lo prevedano (come farà, si vedrà più avanti, la Gran Bretagna con la Francia ad alcuni anni di distanza dalla sconfitta napoleonica); in modo analogo, è importante sottolineare come non sempre, dopo la disfatta nemica, gli alleati che non entreranno in competizione resteranno formalmente tali: essi potranno continuare a cooperare in ambito politico e militare per proteggersi da altri stati al di fuori di specifici trattati di alleanza stipulati prima o dopo le ostilità, rimanendo quanto meno allineati o, in altre circostanze, assumendo rapporti neutri, ambigui, difficilmente decifrabili, cioè divenendo non allineati. Sulle distinzioni fra allineamento, non allineamento, alleanza (e rivalità) torneremo con dettaglio nel cap. II, par. 2. 6 In Wolf (2002), un articolo di rivista i cui obiettivi avrebbero meritato gli spazi di un volume monografico, appare discutibile, sul piano teorico, la sostanziale integrazione della teoria sull’overexpansion di Jack Snyder (1991), di matrice realista, in un framework d’impostazione liberale –v. infra nota pp. 46-47; sul piano dell’analisi storico- empirica, concentrandosi esclusivamente sui rapporti fra alleati vincitori, l’autore tende a trascurare il ruolo degli stati sconfitti anche quando questi non vengono eliminati dal sistema dopo la loro disfatta, rimanendo a tutti gli effetti delle potenze di primo piano, seppure indebolite rispetto al periodo bellico. Questo, ad esempio, porta lo studioso a controllare la plausibilità dell’ipotesi di equilibrio di potenza in Europa negli anni successivi alla sconfitta napoleonica non tenendo conto della Francia. E se a un certo momento la inserisce nell’analisi, lo fa solo per il periodo successivo all’inizio degli anni ’30 dell’800, per valutare se nel 1834 vi fosse equilibrio dei poteri fra la Quadruplice Alleanza iberica tra Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e Francia e la «coalizione di Berlino» fra Austria, Russia e Prussia. Ma è a questo punto che emergono altri limiti nel lavoro di Wolf, che non solo non fornisce alcuna giustificazione teorica del perché l’ipotesi d’equilibrio debba essere controllata (anche) in riferimento ad un sotto-sistema del teatro europeo e tenendo conto della Francia e di due «potenze minori» prima escluse dall’analisi, ma che incorre, inoltre, in un’evidente incoerenza analitica: riscontrato un certo equilibrio fra gli schieramenti in questione, l’autore ne sminuisce portata e significato sostenendo che nessuno dei due si fondava su trattati che prevedessero una clausola di reciproco supporto militare in caso di attacchi da parte di nazioni terze. Peccato che per gli anni precedenti Wolf testi l’ipotesi di equilibrio fra i nuovi allineamenti post-bellici, falsificandola, non tenendo conto dell’eventuale presenza di questo stesso elemento nei loro rapporti -così come fà in tutti gli altri casi trattati (2002, spec. 14-16). 6 esamina però la sola storia della politica estera britannica nel quinquennio successivo alla prima guerra mondiale, seppure con una originale e pionieristica impostazione, a metà fra storia diplomatica e analisi della politica estera. Nonostante questa lacuna tematica, le principali tradizioni teoriche della disciplina offrono costrutti senza dubbio «attrezzati» per l’analisi dei riallineamenti post-bellici e, cosa particolarmente interessante per chi si occupa di relazioni internazionali dal punto di vista politologico, lo fanno mettendo a disposizione dello studioso modelli esplicativi fra loro molto diversi. Laddove infatti un approccio di tipo neo-realista7 potrebbe spiegare il fenomeno in questione ponendo l’enfasi su variabili sistemiche come l’anarchia internazionale e la distribuzione del potere fra stati, alcune teorie di matrice liberale potrebbero spiegarlo concentrandosi su variabili domestiche come le distribuzioni del potere e dell’influenza politica all’interno degli stati. In altri termini, se nel primo caso ci riferiamo a elaborazioni di teorici dell’equilibrio di potenza come, inter alia, Kenneth Waltz e John Mearsheimer, nel secondo guardiamo ad una variante dell’approccio liberale che cerca di integrare il liberalismo pluralista (es. Milgron e Roberts 1990), quello repubblicano ispirato a Kant (cfr. es. Russett & Oneal 2001), quello commerciale derivato da Smith e Schumpeter (es. Mueller 1989) e la versione wilsoniana del liberalismo. Tale prospettiva teorica studia la politica internazionale a partire dalle diverse caratteristiche interne degli stati - distinguendosi in questo dall’istituzionalismo neo-liberale, soprattutto da quello di matrice rational erede della tradizione di pensiero regolativo-legalistica di John Locke e Jeremy Bentham, che condivide invece con il neorealismo l’attenzione per l’ambiente esterno come determinante principale del comportamento delle nazioni -sebbene con differenze importanti e arrivando a predizioni diverse (cfr. Duffield 2001). Fra gli autori contemporanei più rappresentativi di tale orientamento vi sono Andrew Moravcsik ed Helen Milner, alle cui elaborazioni questo lavoro farà 7 Originatosi alla fine degli anni Settanta, soprattutto grazie a Kenneth N. Waltz, tale costrutto si differenzia dal realismo di «classici» come Niebuhr (1932), Carr (1939), Morgenthau (1948), Aron (1962) e Kissinger (1957) in quanto tenta di sistematizzare i princìpi del realismo politico in un rigoroso sistema teorico deduttivo che attribuisce alla struttura del sistema, e in particolare al suo principio ordinatore, cioè l’anarchia, il ruolo di variabile chiave nel determinare i fenomeni più ricorrenti nelle relazioni internazionali. L’approccio «sistemico» di Waltz ambisce dunque a distinguersi in modo significativo da quelli «riduzionisti», che spiegano la politica internazionale tramite variabili collocate a livello nazionale e sub-nazionale, compresi quelli elaborati da quanti prima di lui (R. Rosecrance, S. Hoffmann, M. Kaplan) avevano incentrato le proprie elaborazioni sul concetto di «sistema» senza però attribuire alla struttura di quest’ultimo la preminenza esplicativa riconosciutagli da Waltz. Particolarmente fortunato durante gli anni Ottanta, sarebbe stato sottoposto a diverse critiche, revisioni e rielaborazioni nel corso degli anni successivi, contribuendo notevolmente ad arricchire il dibattito fra gli studiosi della disciplina. L’opera più rappresentativa del neorealismo, che costituirà una delle fonti principali per la parte teorica di questo studio, è ancora Theory of International Politics di Kenneth Waltz, pubblicata la prima volta nel 1979. Per una ricognizione dell’evoluzione della tradizione di pensiero realista, da Tucidide a Rousseau passando per Hobbes e Machiavelli fino ad autori contemporanei come lo stesso Waltz, cfr. Doyle (1997, 41-160). Per una sintesi critica del neorealismo cfr. Roche (1997, trad. it. 2000, 73-86). Un dibattito particolarmente esaustivo su tutto il filone realista e i suoi sviluppi teorici più recenti in Freyberg- Inan, Harrison e James (2009). 7 primario riferimento8. Lungi dall’avere scarsa o nessuna rilevanza nelle fondamentali decisioni di politica estera delle potenze come spesso sostenuto dai fautori degli approcci strutturali (Fearon 1998, 290), o quanto meno nelle relazioni internazionali intese come esiti aggregati delle azioni degli stati (cfr. Waltz 1979, 121 e 1996), la domestic politics può risultare fondamentale non solo rispetto alle singole politiche estere nazionali o nelle relazioni bilaterali in materia economica, ma, più della stessa distribuzione internazionale del potere, anche nel determinare le relazioni politico- militari fra gli stati -un reame dove le teorie (neo-)realiste sembrano prevalenti. Nelle pagine che seguono descriveremo con precisione gli approcci teorici richiamati, al fine di comprenderne tutte le principali differenze esplicative circa il comportamento delle grandi potenze e le loro interazioni, quindi cercheremo di ricavarne ipotesi alternative sugli esiti degli allineamenti dopo le guerre egemoniche (cap. I). In seguito, dopo aver delineato l’impostazione metodologica (cap. II), sottoporremo a verifica le ipotesi per comprendere quale prospettiva teorica possa spiegare meglio gli allineamenti in questione (capp. III e IV). In particolare, le verifiche verranno effettuate comparando il contenuto delle ipotesi con l’evoluzione storica dei rapporti fra: • Austria, Gran Bretagna, Prussia, Russia e Francia dopo le guerre napoleoniche ; • Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania dopo la prima guerra mondiale 9. Nelle conclusioni sintetizzeremo le principali evidenze emerse nei due casi di studio, cercando di trarne tutte le possibili implicazioni teoriche. 8 Sulle diverse versioni della teoria liberale della politica internazionale cfr. Keohane (1990, 165-194); Moravcsik (1992) e (1997, 524-533); Stein (1993, 241-324). Per una rassegna critica sulla genesi e l’evoluzione del pensiero liberale nello studio delle relazioni internazionali si veda Doyle (1997, 205-314). 9 Gli esatti diaframmi temporali sui quali si estenderà l’analisi in ognuno dei casi verranno precisati nel cap. II. Dobbiamo osservare che questa ricerca prevedeva, originariamente, l’analisi di un altro caso di riallineamento post- bellico fra grandi potenze, cioè le relazioni fra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica in Europa dopo la seconda guerra mondiale (o, alternativamente, i rapporti fra Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti in Estremo Oriente dopo la prima guerra mondiale). Limiti di tempo ci impediscono di analizzare in modo adeguato il terzo caso ai fini di questa dissertazione, sebbene ci concederemo qualche riflessione speculativa sulle sue dinamiche esplicative nella parte conclusiva dello studio -comunque ripromettendoci sin d’ora di tornare su di esso con la dovuta attenzione in altra sede. 8 Ringraziamenti Al termine del ciclo dottorale, posso finalmente riconoscere i debiti di gratitudine contratti durante questa ricerca, esentando comunque i miei «creditori» da ogni responsabilità per i miei errori. In primo luogo, vorrei ringraziare Alessandro Politi e Leopoldo Nuti, che mi hanno incoraggiato a concorrere per il dottorato in scienza politica nonostante la mia formazione universitaria fosse prevalentemente orientata agli studi storici. Al secondo sono grato anche per aver discusso con me di questa dissertazione, e per avermi fornito suggerimenti bibliografici molto utili per la redazione del terzo capitolo. Vorrei poi ringraziare tutte le biblioteche e gli istituti che mi hanno consentito di consultare libri, documenti o articoli non disponibili in formato elettronico: a Forlì, la Biblioteca Centralizzata «R. Ruffilli», il cui personale è sempre stato molto cortese e disponibile; a Milano, la biblioteca dell’Università Cattolica; a Roma, la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, il Centro Studi Americani, la biblioteca del Ministero degli Affari Esteri, il Dipartimento di Studi Politici dell’Università “La Sapienza”, la Biblioteca statale Antonio Baldini, la Biblioteca Nazionale Centrale e la biblioteca della Libera Università degli Studi San Pio V; presso l’Università di Bologna, il Dipartimento di Scienza Politica; ad Amsterdam, le biblioteche della Faculty of Social and Behavioral Sciences, University of Amsterdam. Diversi colleghi e amici mi hanno offerto spesso l’occasione di discutere con loro dell’andamento di questo lavoro, talvolta suggerendomi consigli e spunti di riflessione. Fra loro, vorrei ricordare Federica Rainaldi, Riccardo Scintu, Anna Maria Pepe e Davide Fiammenghi. Davide, in particolare, ha letto diverse porzioni della ricerca: i suoi commenti mi sono sempre stati molto utili. Simone Busilacchi mi ha invece agevolato nella realizzazione delle parti grafiche. Andrea Carati, in qualità di «discussant», mi ha offerto alcuni importanti suggerimenti durante un panel della Seconda Conferenza italiana dei dottorandi in Scienza Politica, dove ho avuto modo di presentare la parte teorica e i risultati del primo caso-studio. Nella stessa sede ho ricevuto consigli preziosi anche da Andrea Locatelli. Giliberto Capano, Erik Jones, Salvatore Vassallo, Patrizia Pederzoli e Michele Sapignoli sono sempre stati disponibili a discutere e supportarmi nell’affrontare tutte le questioni legate al dottorato, sia di natura intellettuale che burocratica. Marco Cesa ha espresso critiche penetranti sul primo caso-studio, fondamentali perché potessi chiarire meglio alcuni degli argomenti sviluppati nella ricerca. Filippo Andreatta ha seguito il mio percorso dottorale in modo attento e costante, e ha sempre mostrato molto interesse per questo studio, leggendone e commentandone diverse parti in maniera puntuale e costruttiva. Un ringraziamento particolarmente importante lo devo a Vittorio Emanuele Parsi, il quale, con pazienza e disponibilità, ha letto con estrema attenzione l’intera ricerca, fornendomi correzioni, consigli, suggerimenti e, soprattutto, stimoli e incoraggiamenti che mi hanno agevolato non poco nel superare ostacoli e difficoltà. 9 Le ultime pagine sono state scritte presso il Department of Political Science della University of Amsterdam, dove ho potuto trascorrere, anche grazie a Francesco Strazzari, un trimestre nell’ambito del programma di ricerca Marco Polo, usufruendo dei relativi incentivi finanziari. In questa sede ho tratto molto beneficio dalla possibilità di frequentare i seminari di «International Political Economy» organizzati dal dipartimento, e dalle opportunità di confronto e collaborazione che ho avuto con diversi dei suoi membri, tra cui, in particolare, Annette Freyberg-Inan, Brian Burgoon, Paul van Hooft, William Schudel, Mihai Varga e Alex Voicu. I miei familiari hanno pazientemente sopportato i «periodi d’isolamento» che questo studio mi ha imposto, financo in occasione della nascita di mio nipote, Valerio Caio Giulio Massimo. Giulia, la mia compagna, ha saputo gestire in modo impeccabile le mie prolungate assenze, così come i miei sbalzi d’umore: queste pagine sono dedicate a lei, e naturalmente al piccolo Valerio - nell’auspicio che un giorno gli verrà voglia di leggersele. Amsterdam, marzo 2010 S. P. 10

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più incentivati ad intraprendere azioni vantaggiose per la collettività (Mansfield, . e di essere «sfogata» all'esterno dei confini nazionali (Mansfield & Bretagna -dove nel frattempo al vertice degli affari esteri era asceso George.
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