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Alla ricerca di Marcel Proust PDF

292 Pages·1974·11.39 MB·Italian
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Maurois alla ricerca di Marcel Proust NEWTON COMPTON ITALIANA I sauri 3 Titolo originale A la recherche de Marcel Proust © Librairie Hachette, Paris Prima edizione: maggio 1974 €) 1974 Newton Compton Editori s.r.l. Casella postale 6214, Roma Stampato nel maggio 1974 presso la Tipografia Ronda, Milano André Maurois Alla ricerca di Marcel Proust Introduzione di Jacques de Lacretelk Traduzione e note di Lucio Chiavarelli Newton Compton Italiana 3 m Avvertenza Le note tra parentesi quadra sono del traduttore. Nella versione dei brani inediti di Proust (spesso allo stato di appunto) si è cercato di non « correggere » mai l'autore, mantenendo anacoluti e ripetizioni. PROUST E MAUROIS Dicembre 1914- Gelido inverno, opprimente stato d'allar- me. La Francia è salva ma la vittoria si sta allontanando. A Pa- rigi, nelle strade male illuminate e tra i comunicati-rebus della censura, la gente sì pone a bassa voce domande senza risposta. Feci la conoscenza di Proust in una di queste cupe giornate. Qualche mese prima, Du coté de chez Swann era stato per me una rivelazione davvero importante tanto più che la lus- sureggiante ricchezza dell'opera, e anche la sua insolita scrit- tura, avevano dovuto abbattere inizialmente i miei pregiudizi letterari. A che scopo quelle frasi difficili? E come riuscire ad aprirsi una strada attraverso quella aggrovigliata composizione? Bisogna notare d'altra parte che il libro, pubblicato nel 1913, per tutto un anno non sembrava aver suscitato molto interesse. Forse era necessario il crollo d'una società e una vio- lenta rottura nel nostro modo di vedere le cose per imporci con una forza irrefutabile quella nuova prospettiva e quella realtà quotidiana gravata da tanta angoscia. Proprio nel momento in cui il nostro mondo cominciava a scricchiolare sinistramente, un romanzo riusciva a proietta- re una luce sotterranea sulle nostre azioni. Di colpo il panora- ma letterario ne era sconvolto. Combray cancellava un romanzo come Petit Pierre di Anatole France, la consorteria dei Guer- mantes detronizzava l'aristocrazia di Paul Bourget, e il pian dei Verdurin faceva apparire i borghesi costruiti «a tutto tondo» da Abel Hermant semplici figurini intellettualistici. « Vuoi che ti presenti a Proust? », mi chiese un amico a cui avevo confidato la mia ammirazione per Swann. « Ti av- viso subito, però, che tutto è subordinato allo stato della sua salute e che, in ogni modo, non ci potrà ricevere prima delle 0 JACQUES DE LACRETELLE dieci di sera ». La cosa non aveva importanza. Quell'incerto appuntamento fu presto fissato. Con quanta chiarezza ricordo quella prima visita a Proust! Abitava allora al numero 102 del boulevard Haussmann, di fronte alla Cappella espiatoria dedicata a Luigi XVI. Il fab- bricato (che è oggi sede d'una banca) doveva essere stato co- struito negli anni '90 e ne recava i segni: un ingresso solenne, mura rivestite di marmo rosso cupo, la gabbia dell'ascensore racchiusa da ferri battuti fin de siècle. A tanta freddezza impersonate succedeva un'impressione totalmente diversa appena s'entrava, al secondo piano, nell'ap- partamento occupato da Proust. Finestre felpate con cura, lampade velate, spessì tappeti, pe- santi portiere, una pendola silenziosa, tutto dava al visitatore la sensazione che stava entrando in un reame addormentato. 1 mobili, quasi tutti in legno scuro, parevano come depositati in magazzino, accatastati provvisoriamente da poche ore e per- sino senza alcuna immediata utilità. Eppure da loro si poteva prendere l'avvio per una oppressiva ricostruzione della vita intima d'una famiglia. Un ritratto su cavalletto, appena in- travisto nella penombra, era quello del professor Proust, il padre di Marcel e di Robert, raffigurato sotto una toga rossa bordata d'ermellino, alla maniera di un Holbein. Venni a sa- pere più tardi che l'autore del quadro era Lecomte de Nouy, a cui si deve Les Porteurs de mauvaises nouvelles, una grande tela di composizione che colpiva tanto le anime sensibili in visita al Musée du Luxembourg. Procedevo con un passo incerto in quel magazzino per mo- bili dedicato alla ricerca del tempo perduto. Tutti quegli og- getti domestici avevano un loro segreto e lo stavano rivelando per merito d'un intermediario geniale. La persona che mi guidava in quest'assopita rappresen- tazione fiabesca era partecipe di quella resurrezione d'ombre. Celeste Albaret, già da qualche mese al servizio di Marcel Proust, aveva accettato con la cortesia un po' professionale del- l'infermiera la reclusione volontaria del suo padrone e l'inver- sione dei suoi orari. Con le spalle coperte da uno scialletto nero che m-etteva in rilievo per contrasto il colorito diafano del suo volto, conosceva bene l'arte di aprire le porte senza farle ci- golare e di sollevare le portiere evitando qualsiasi brusca cor- rente. PROUST E MAUllOIS 8 Era necessario attraversare due salotti e percorrere corridoi per giungere alla camera, lontana da qualsiasi rumore, in cui viveva Proust. Sollevata l'ultima cortina, lo scorsi in fondo alla stanza, già coricato nel letto. E dopo quella lenta marcia nel buio, la potente lampada sistemata sul comodino rendeva ancor più impressionante questa apparizione. Aveva le spalle e il petto ricoperti da una sciarpa a maglia, marrone, macchiata e bruciacchiata dalle fumigazioni, che era solito fare contro l'asma. La barba lunga, spettinato, o meglio con i capelli neri — dove spiccavano pochi fili bianchi — che cadevano sulla fronte come una frangia. Continuò a stringere tra le mani pallide la penna con cui stava scrivendo, come se non volesse interrompere gli itinerari del suo pensiero, men- tre cominciava a parlare. E tuttavia sentivo i suoi occhi osser- varmi, di tra le plumbee palpebre, i suoi occhi meravigliosi, cerchiati, indagatori, d'un nero vellutato e luminoso come se ne vedono qualche volta in Oriente. Questa strana apparizione, questo personaggio evanescen- te, veniva subito cancellato appena cominciava a parlare. Ave- va una voce dal timbro musicale; la sua allegria cordiale pos- sedeva il timbro della sincerità. Nessuna civetteria verbale, nes- suna preoccupazione di primeggiare nelle domande che mi po- neva. Desiderava divertire quel giovane sconosciuto per cui il suo libro era stato una rivelazione e che glielo diceva con una timida ammirazione in cui si mescolavano timore e sorpresa. Questo duplice sentimento aveva un preciso motivo. Sino ad allora io non avevo ancora scritto niente e Proust era il prim-o « autore » con cui t>arlavo. E in chi m'ero imbattuto? In una specie di fachiro che cercava di rintracciare le proprie memorie stt quaderni neri, da scolaretto. In seguito ho riflettuto, quando ho acquisito maggiore espe- rienza, sul fatto che la malattia era stata molto utile a Proust. Innanzi tutto aveva interrotto la sum attività mondana e l'ave- va costretto a ripiegare su se stesso. Non era più le petit Mar- cel, incapace di resistere al richiamo d'un salotto prestigio- so. La solitudine e gli attacchi febbrili hanno dato un'altra di- mensione, un doppio fondo ai suoi pensieri. Ha scoperto in sé risorse sconosciute. Insomma egli ha certamente acuito le sue capacità di recezione e di osservazione nel corso della malattia e attraverso il faticoso esercizio della sua sensibilità. Questa morbosità, queste ansie, che hanno tanto arricchi- to la sua opera, avevano portato nella sua vita pratica compii- 10 JACQUES DE LACRETELLE cazioni e manie di ogni genere. Le conosciamo ormai. Il ter- rore dei rumori esterni che si amplificavano nel suo cervello sino a diventare intollerabili martellamenti, il disgusto per qual- siasi profumo, l'orrore del freddo: ecco solo qualcuna delle fo- bìe di cui era preda. Ma, a intervalli, questa nervosa irritabilità spariva comple- tamente. Erano per lui attimi di tregua o di svago. Nessuna posa, nessuna affettazione. Non voleva essere il modello del proprio personaggio, come fanno tanti letterati, alcuni volon- tariamente, altri senza rendersene conto. Le lunghe frasi dispo- ste come in un labirinto che nei romanzi avviluppano la real- tà per esprimerne ogni contenuto, gli incisi e le parentesi che intessono nelle lettere attorno ai corrispondenti una finissima tela di ragno fatta di complimenti, esitazioni, d'un reale biso- gno di comunicare e d'una prudente preoccupazione di sfug- gire..., niente di tutto ciò era presente nella sua conversazione. Era semplice, naturalissima. Vuntava in direzione dello spirito, dell'humour, come una fonte segue la sua china. Sin da quella.prima sera, domandai a Proust, con notevole indiscrezione, informazioni sulle persone che erano state i mo- delli dei suoi personaggi. Pensavo (e sono ancora dì- questa opinione) d'avere riconosciuto qualche tratto del clan dei Ver- durin nel salotto di mia zia. Aline Menard-Dorian, che Proust e Reynaldo Habn avevano frequentato qualche anno prima. Proust negò di aver copiato questo o quel personaggio del- la vita reale. E io capii che quella risposta non era ispirata dalla prudenza o dalla cortesia. Era del parere che un narratore il quale tragga la propria ispirazione dalla realtà in modo trop- po diretto firmi la propria condanna a costruire un'opera tut- t'altro che duratura. Egli deve, invece, mirare più in alto, per una sorta di premonizione, mirare più lontano nel tempo. So- lo così potrà creare tipi che i posteri riconosceranno come Qualche tempo dopo, tuttavia, egli soddisfece la mia cu- riosità, in una lunga dedica in forma di lettera, nella quale in- dicò alcune delle fonti che ero tanto impaziente di conoscere. Nella sua biografia André Maurois fa un riferimento preciso a questo testo. E poiché è di capitale importanza per i fedeli di Du coté de che2 Swann, m'è parso giusto riportarlo qui nella sua integrità: PROUST E MAUllOIS 11 Caro amico, non esistono chiavi per i personaggi del mio libro, oppure ce ne sono otto o anche dieci per un personaggio solo; allo stesso modo per la chiesa di Combray la mia memoria mi ha "prestato" come "modelli" un bel numero di chiese. Non saprei nemmeno elencargliene tutti i nomi. E non mi ricordo piìi neppure se la pavimentazione deriva da Saint-Pierre-sur-Dives o da Lisieux. Alcune vetrate sono senza dubbio quelle di Evreux, altre della Sainte-Chapelle e di Pont-Audemer. I miei ricordi sono più precisi per la Sonata. Nella misura in cui mi sono servito della realtà (ed è una misura davvero esigua), la piccola frase di questa Sonata, e io non l'ho mai detto a nessuno, è, nella serata Saint-Euverte, la frase maliosa, ma non alata, d'un concerto per giano e violino di Saint-Saens, musicista che non mi piace. (Le indicherò il passaggio esattamente: ritorna parecchie volte e costituiva il trionfo di Jacques Thibaud). Nella stessa serata, un po' piii tardi, sono quasi con- vinto di aver pensato, quando parlavo della stessa piccola frase, all'Incantesimo del Venerdì Santo. E ancora in questa stessa serata, quando pianoforte e vio- lino gemono come due uccelli che vogliono rispondersi, ho pensato alla So- nata di Franck (specie se interpretata da Enesco), il cui Quartetto riappare in una delle parti successive della mia opera. I tremoli che coprono la frase musicale in casa Verdurin mi sono stati suggeriti da uno dei preludi del Lohengrin, ma anche la frase musicale è in quel momento un brano di Schu- bert. Ed è ancora, nel corso della stessa serata dai Verdurin, uno stupendo brano di Fauré. Posso dirle che (nella serata Saint-Euverte) ho pensato per il monocolo del signor de Saint-Candé a quello del signor de Bethmann, non il Tedesco (nonostante lo sia un po' per origine anche lui), ma il parente degli Hottin- guer, per il monocolo del signor de Forestelle a quello di un ufficiale fratello d'un musicista che si chiamava d'Ollone, per quello del generale de Frober- ville al monocolo d'un tizio che s'atteggiava a letterato — ed era un vero ignorante — che incontravo in casa della Principessa de Wagram e di sua sorella, e che si chiamava de Tinseau. Il monocolo del signor de Palancy è quello del povero e caro Louis de Turenne, il quale non si sarebbe mai aspettato che un giorno avrebbe avuto tante cose in comune con Arthur Meyer, almeno se debbo giudicare dalla maniera con cui lo trattò una volta in casa mia. Lo stesso monocolo di Turenne viene assegnato al signor de Bréauté in Le coté des Guermantes, io credo. E finalmente, per quanto ri- guarda la tenerezza di Gilberte agli Champs-Elysées per la neve, ho pensato a una persona che è stata il grande amore della mia vita senza averlo mai saputo (o meglio l'altro grande amore, dato che ce ne sono stati almeno due), la signorina Benardaky, oggi (ma non la rivedo da molti anni) principessa Radzivill. È chiaro tuttavia che i passaggi più scabrosi che riguardano Gil- berte, all'inizio di A l'ombre des ]eunes Filles en fleurs non sono stati ispirati in alcun modo da questa persona, poiché i miei rapporti con lei sono sempre rimasti nei limiti precisi delle buone convenienze. Per un momento solo, durante la passeggiata al Tiro al piccione, ho pensato per la signora Swann a una cocotte dei miei tempi, di straordinaria bellezza, che si chiamava Clomesnil. Posso mostrarle alcune fotografie di costei. Ma la signora Swann le rassomiglia soltanto in quella breve occasione. Le ripeto che tutti i per- sonaggi sono completamente inventati e che non va ricercata nessuna chiave. Perciò nessuno ha alcun rapporto con la signora Verdurin, e meno di tutti la signora de Briey. Eppure entrambe ridono allo stesso modo. Mio caro amico, le sto offrendo una ben goffa testimonianza della mia gratitudine per la sua gentilezza per essersi procurato quel libro e per averlo riempito di tanti ap- punti scritti a mano. Per ciò che lei mi chiede di ricopiare penso che non ci sarebbe posto a sufficienza, ma se lei Io desidera potrei farlo egualmente su fogli staccati che poi lei potrebbe intercalare.

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