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Alla Ricerca Del Tempo Perduto PDF

3165 Pages·1968·13.83 MB·Italian
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Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto Du côté de chez Swann, “Dalla parte di Swann” À l’ombre des jeunes filles en fleurs, “All’ombra delle fanciulle in fiore” Le côté de Guermantes, “I Guermantes” Sodome et Gomorrhe, “Sodoma e Gomorra” La Prisonnière, “La prigioniera” Albertine disparue, “Albertine scomparsa” Le Temps retrouvé, “Il Tempo ritrovato” Edizione integrale a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso condotta sul testo critico stabilito da Jean–Yves Tadié Introduzione generale di Paolo Pinto Newton Compton Editori Prima ed. ebook: luglio 2011 Edizione elettronica realizzata da Gag srl > Ottimizzazione by Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org < NOTA dei curatori La presente traduzione è condotta sull’edizione curata e stabilita da Jean–Yves Tadié per la «Bibliothèque de la Pléiade», Paris, Gallimard, 1987–1989, in quattro volumi, ultima in data ad aver apportato delle novità filologiche considerevoli, dopo il lavoro svolto a suo tempo da Pierre Clarac e André Ferré. Riguardo ai criteri seguiti, riportiamo alcune significative righe dello stesso Tadié: «La stesura del testo è stata rivista sull’insieme dei documenti depositati alla Bibliothèque nationale: manoscritti, dattiloscritti, prove; l’edizione originale è servita da testo di base per le opere pubblicate prima della morte dell’autore, ma noi le abbiamo corrette dei loro errori grazie agli stadi immediatamente anteriori. Per quelle postume, ha fatto fede l’ultimo stadio rivisto dall’autore: dattiloscritto de La Prisonnière e di Albertine disparue (il dattiloscritto reca proprio questo titolo, e non La Fugitive, che figura soltanto nella corrispondenza), manoscritto di Le temps retrouvé» («L’édition d’À la recherche du temps perdu dans la Bibliothèque de la Pléiade», in Bulletin de la Société des Amis de Marcel Proust, n. 38, 1988, p. 131). Per quanto attiene al vastissimo repertorio delle parole straniere entrate nell’uso quotidiano della lingua italiana, così com’è attestato dai dizionari, queste sono state lasciate in carattere tondo e non declinate; molte altre, che non sono entrate pienamente .nell’impiego della nostra lingua, sono state lasciate in corsivo e, ovviamente, sono state declinate. Intendiamo ringraziare qui Maurizio Grasso per il contributo recato alla stesura della Cronologia, Pietro Bartalini Bigi per la revisione generale delle note e i suggerimenti circa l’uniformità lessicale, Maria Luisa Belleli per le ricerche bibliografiche. P.P.–G.G. 2 INTRODUZIONE GENERALE E il letterato snob scelse l’esilio «Qual è per voi il colmo della sciagura?» – «Essere separato dalla mamma. » Così rispondeva Marcel Proust, tredicenne, alla prima di una serie di domande poste nell’album di una sua amichetta, Antoinette Félix–Faure. Forse si trattava soltanto di un gioco, a quel tempo, ma indubbiamente, quella risposta, Marcel l’avrebbe potuta ripetere molti anni dopo, quando, trentaquattrenne, sperimentò il dolore intollerabile della morte della madre, Jeanne Weil. Era il 26 settembre 1905, e Marcel, ancora sotto molti aspetti adolescente, per la prima volta era solo. Il padre Adrien, medico illustre, professore d’Igiene all’Università di Parigi, spirito positivo, certamente meno propenso ad assecondare la sensibilità estenuata di Marcel, se n ‘era andato due anni prima, il 26 novembre 1903. Scompariva così dall’orizzonte inquieto di quell’eterno adolescente la figura «antagonista» e in qualche modo tirannica. Ma non si trattava di una liberazione, cui forse Marcel nemmeno anelava. Era pur sempre una perdita sotto il profilo degli affetti e, ancor più, sotto quello della sicurezza. Tra il professor Adrien e il figlio l’intesa non era stata mai facile. Troppo diverse erano le loro nature: sicuro ed energico l’uno, quanto l’altro fragile e assente. «Mio padre – confesserà Marcel – aveva per il mio genere d’intelligenza un disprezzo, corretto abbastanza però dalla tenerezza, per cui, nel complesso, il suo sentimento verso quel che facevo era di cieca indulgenza. » Ma nella famiglia Proust regnava una segreta armonia, ben al di là dei caratteri e delle propensioni individuali di ciascuno. «Cercavo – scrive ancora Marcel – non di soddisfarlo, perché mi rendo ben conto che ero io il punto nero della sua vita, ma di testimoniargli la mia tenerezza. E tuttavia v’erano dei giorni in cui mi rivoltavo di fronte alle sue affermazioni, certe e indiscutibili.» La malattia, che già era diventata la compagna di Marcel, lo costringeva a condurre una vita più controllata, a passare più tempo dentro casa. «In questa vita quotidiana, avevo dovuto attenuare 3 – vi sono momenti in cui ho l’illusione retrospettiva di dirmi: sopprimere – i tratti del mio carattere o dell’animo mio che avessero potuto dispiacergli. Di modo che io credo fosse abbastanza soddisfatto di me, ed era questa un’intimità che non si è interrotta un solo giorno, e di cui avverto soprattutto la dolcezza, ora che la vita, fin nelle più piccole manifestazioni, è per me tanto amara e insopportabile.» In ogni caso, Marcel dedicò al padre, da poco scomparso, la traduzione (corredata di commento e note) della Bible of Amiens di John Ruskin. La nonna, certamente la persona più importante nell’infanzia di Marcel, insieme con la madre, quella signora evocata in maniera struggente nella Recherche, tenera e comprensiva, innamorata in egual misura della natura e delle opere di genio e del campanile di Saint–Hilaire, che aveva fatto conoscere al nipotino l’aria del mare e l’amore per la bellezza, a Trouville, a Dieppe, a Cabourg, la signora che «nelle sue idee, nelle sue intenzioni, nei suoi propositi, nei suoi sorrisi, nei suoi sguardi aveva racchiuso il pensiero» del nipotino, era morta già da tempo, il 2 gennaio 1890. Marcel, dunque, era solo. Per la prima volta. Il fanciullo malinconico, fragile e sognante che resisteva dietro l’apparenza dello snob, mondano ed elegante, doveva misurarsi con il mondo. E in condizioni tanto più disagiate e sfavorevoli quanto più crescevano nell’animo suo i complessi di colpa. Aveva cercato con tutte le sue forze di piacere, o almeno di non dispiacere troppo, ma sapeva di aver prodotto delle grandi devastazioni. La forza invincibile delle sue passioni, e una libertà interiore che nasceva dalla consapevolezza di essere andato, nella vita se non nell’arte, ben al di là della superficie opaca delle cose, lo avevano indotto ad allontanarsi dall’alveo delle sicurezze familiari e a deludere, se non a tradire, le attese della madre. Simile al «sopravvissuto» di Guido Gozzano, anche Marcel, nella casa inutilmente vasta di rue de Courcelles, «dalla volta sonora e dalle larghe scalinate», poteva adagiarsi, di fronte al caminetto acceso, «nella bianca tristezza dei ricordi», e rivedere un altro se stesso già così lontano – «un po’ malato... frivolo... mondano...» – , ma ancor più infelice del «reduce» torinese, dal momento che lui non aveva più una mamma a cui promettere, magari sapendo di mentire: «È tempo d’essere il ragazzo più serio, che vagheggiano i parenti». Quel che resta della famiglia – il fratello minore Robert, con il suo matrimonio, il 2 febbraio 1903, ha lasciato la casa di rue de Courcelles – vive nel culto del professor Adrien. In occasione del primo anniversario della scomparsa, Marcel scrive alla madre una lettera straziante e piena d’amore: «Ho l’impressione di 4 pensare a te ancor più teneramente del solito, se è possibile (e non lo è) oggi...». Tutto quel che è stato, dopo quell’evento terribile, gli appare come «un sogno meccanico». Sembra incredibile che siano passati già tanti mesi, «che abbiamo potuto essere infelici per tanto tempo, che avremo ancora tanto tempo per esserlo». Non sarà così. La malattia di Marcel – l’asma, ma anche la nevrosi – stava già prendendo il sopravvento. Lo scrittore, è risaputo, aveva orizzonti incredibilmente vasti. Le sue letture accanite non si limitavano alla sfera della letteratura, ma toccavano le discipline più disparate: in particolare la filosofia, la psicologia, la medicina. Nel 1903, a quanto pare, Proust aveva letto un breve testo del dottor Dubois, professore di neuropatologia a Berna, dal titolo De l’influence de l’esprit sur le corps. L’anno seguente lesse un altro libro dello stesso Dubois, Les psychonévroses et leur traitement moral, che si avvaleva della prefazione del dottor Déjérine, medico della Salpêtrière e professore all’Università di Parigi. È superfluo aggiungere che, in quel tempo, Parigi era ancora la capitale e il punto di riferimento delle relativamente nuove discipline che studiavano i territori ambigui e inesplorati delle malattie nervose. Freud era alle porte – la sua prima opera importante, L’interpretazione dei sogni, è del 1900, mentre la Psicopatologia della vita quotidiana è del 1901 –; a Parigi numerosi allievi del grande Charcot si contendevano l’eredità del maestro. Abbiamo motivo di ritenere che Proust seguisse con estremo interesse gli sviluppi della nuova disciplina. Dubois teorizzava e praticava una psicoterapia che poteva esser definita «razionale» o, meglio ancora, «morale». Questo significava che, per combattere le psiconevrosi, non era sufficiente rimuovere le cause occasionali. Era necessario conoscere a fondo l’individuo malato, recuperare le sue risorse interiori, e porle al servizio della guarigione. Insomma, egli metteva in primo piano l’influsso del morale sul fisico. Proust decise di sottoporsi alle cure di quel medico. Partì con la madre per Évian, nei primi giorni di settembre del 1905, riproponendosi di raggiungere in un secondo tempo, in Svizzera, la clinica del dottor Dubois. Appena giunti a Évian, però, la madre ebbe un attacco di vertigini e di vomito. Marcel riconobbe, probabilmente, i sintomi di una ricomparsa della nefrite. Seguì una parziale paralisi. Fu necessario rientrare rapidamente a Parigi. Dopo una fase di breve miglioramento, le condizioni precipitarono. Morì il 26 settembre. L’ultimo colloquio con Marcel, reso incerto dall’afasia sopraggiunta, fu, come tutti gli altri, tenero e raffinato, con le usuali citazioni dei classici. L’infermiera li lasciò soli, e lei disse, riprendendo una frase di 5 Molière: «La sua partenza non poteva essere più tempestiva». «Non posso vivere senza di te!» esclamò il figlio. E lei: «Non avere paura, bambino, la mamma non ti lascia». E poi l’ultimo richiamo, un verso di Corneille con cui usava confortarlo, da piccolo, ogni volta che dovevano separarsi: «Se non sei romano, sii degno di esserlo!». Marcel era solo e forse incapace di provvedere a se stesso, proiettato nell’ombra di un’esistenza che non era vita. Ne aveva coscienza lui stesso, scrivendo a Robert de Montesquiou: «Non posso dirvi quel che ho sofferto... La mamma mi sa così incapace di vivere senza di lei, così disarmato in ogni senso contro la vita che se ha provato, come temo, l’angoscia, la sensazione che si accingeva a lasciarmi per sempre, ha dovuto conoscere momenti di ansia così atroci che per me il solo immaginarli è un terribile supplizio». E ancora: «L’ho perduta, l’ho vista soffrire, e ho ragioni per credere che ha saputo di lasciarmi, angosciandosi per non potermi fare le raccomandazioni che avrebbe voluto; ho la sensazione che io, con la mia cattiva salute, sia stato il tormento e la preoccupazione della sua vita...». Per un mese Marcel si rinchiuse in casa, a piangere e, certo, a interrogarsi. Non riusciva più a dormire, forse non voleva più dormire. La veglia era una sorta di difesa, giacché teneva desta l’intelligenza. Ma, nel sonno, da quali e quanti fantasmi era assillato. Il rimorso gli impediva di trovare un attimo di dolcezza nel ricordo del tempo trascorso. In certi momenti gli sembrava di essersi abituato alla sua infelicità, di ritrovare gusto alla vita; ma ciò si traduceva subito in nuovi rimorsi, e si riaffacciava il rimpianto, sempre crudele allo stesso modo, ma sempre diverso: «È un nuovo dolore, un male sconosciuto, atroce come la prima volta». Abbandoniamo per ora la malattia, e seguiamo le varie fasi di questo rimorso. Sappiamo che Marcel lasciò la casa di rue de Courcelles per trasferirsi al n. 102 di boulevard Haussmann, facendo una tappa intermedia di cinque mesi nel settecentesco Hôtel des Réservoirs a Versailles. Cosa lo spingesse a questa sorta di fuga è piuttosto evidente. Aveva la sensazione di essere stato esiliato dal paradiso della propria infanzia, l’unico in cui gli fosse consentito di vivere. La casa di rue de Courcelles gli evocava continuamente terrificanti immagini della madre. In quelle stanze vuote gli sembrava che lei tornasse quotidianamente a morire. E sempre più aveva l’impressione che fosse stato lui a farla morire. Quella casa era «così triste perché era stata così felice». Una mattina qualsiasi del gennaio 1907 – era già nella nuova abitazione da 6 quasi un mese – Marcel si accingeva a ripetere, al mattino, quell’atto «abominevole e voluttuoso» che è la lettura del giornale, nel suo caso Le Figaro (di cui era anche collaboratore). Tra poco, avrebbe saputo, come ogni mattina, «tutta la miseria del globo», «il dolore di tanti esseri», e le mille altre notizie che, nonostante tutto, ci riallacciano all’esistenza, ci fanno sentire come partecipi di una vicenda più comprensiva della nostra, ci inducono, insomma, a ricominciare di nuovo la nostra avventura. Quel giorno il suo occhio si posò subito su un fatto di cronaca, intitolato Un dramma della pazzia. Si trattava di una vicenda terribile – un matricidio – che evocava nel lettore l’inesorabilità del fato; e subito tornarono dinanzi a lui le immagini di Aiace e di Edipo, e l’interrogazione incessante della principessa Lisa in Tolstoj: «Henri, che hai fatto di me? che hai fatto di me?». Ce n’era abbastanza per turbare l’animo sensibile di Marcel, tanto più che erano in discussione i sentimenti di un essere umano nei confronti della madre. Ma la vicenda lo colpì ancor più fortemente, in quanto Marcel aveva avuto occasione di conoscere il matricida, di scambiare con lui delle lettere, e soprattutto di apprezzarne certe gentilezze d’animo. Quell’uomo che sembrava così attaccato «alle piccole cose della vita, che rispondeva con tanta eleganza a una lettera», che mostrava finezza e lealtà, era precipitato in maniera inspiegabile nell’inferno della follia e del delitto. «Che hai fatto di me? che hai fatto di me?» ripeteva meccanicamente Marcel, e gli sembrava che quelle parole fosse sua madre a pronunciarle, come un atto di accusa contro di lui. Ed ecco la conclusione, dolorosa e rivelatrice: «A ben pensarci, non c’è forse madre veramente amorosa la quale, nel suo ultimo giorno, e spesso molto prima, non possa rivolgere questo rimprovero al figlio. In fondo, noi invecchiamo, noi uccidiamo tutti coloro che ci amano con le inquietudini che procuriamo loro, con la stessa tormentosa tenerezza che ispiriamo e che mettiamo di continuo in allarme». Evidentemente, anche lui si sentiva responsabile «di quel lento lavoro di distruzione che produce, in un corpo diletto, una tenerezza dolorosa e delusa». Era precipitato in un abisso senza uscita, in una notte senza sonno, in un silenzio senza quiete, in una solitudine senza speranza, in una malattia senza guarigione. La morte dell’unica persona veramente amata lo aveva condotto alla voluttà della morte. Cosa avrebbe potuto desiderare ormai? Quale felicità avrebbe potuto ancora attingere? I successi mondani li aveva provati, e sapeva quanto amaro lasciassero in bocca, quanta vanità ci fosse in essi e, soprattutto, quanto fugaci fossero quelle emozioni. L’amore, dopo l’illusione giovanile, lo aveva 7 apparentato alla «razza maledetta», il cui ideale di bellezza è al tempo stesso l’oggetto della vergogna e la paura del castigo. L’ipotesi Dio non era stata accolta dalla sua mente, anche se avrebbe voluto credere a qualcosa che potesse sopravvivere dopo la nostra morte, che consentisse agli uomini di ritrovarsi sotto un altro cielo, nelle valli promesse e attese. Gli restava aperta soltanto la via della fuga in un altro mondo possibile, anzi nel migliore dei mondi possibili, la via della creazione artistica. Ma avrebbe avuto l’energia, il tempo e il talento per dar vita a un vero capolavoro? Avrebbe saputo tradurre in atto quelle vaghe immagini del passato che si portava dentro? Avrebbe saputo liberare quella bellezza misteriosa, di cui, da bambino, aveva avvertito l’eco, imprigionata nelle cose e dissimulata agli sguardi della gente comune? Il primo problema da risolvere era quello della malattia. Marcel aveva nove anni, quando fu colto da una crisi di soffocazione (dovuta ad asma o a raffreddore da fieno) così acuta da costringerlo, in seguito, ogni primavera, a rinunciare agli amati contatti con la natura. Quel fanciullo che nella Recherche passeggiava per i campi solitari alla scoperta delle forme sinuose dei fiori, che abbracciava piangendo i biancospini, al momento di lasciarli, e prometteva loro una fedeltà assoluta, quel fanciullo – se è lecito in esso ritrovare i tratti di Marcel – sarebbe stato costretto a vivere senza quegli aromi e quei colori. Il suo nuovo appartamento in boulevard Haussmann era il meno indicato per un malato d’asma e d’insonnia, trovandosi al livello degli alberi e immerso nel rumore del traffico. Così, a causa della polvere, del polline e dello strepito, le finestre saranno sempre serrate. Quella striscia di sole che, in altri tempi, aveva visto posarsi sulla finestra, e nella quale aveva letto una promessa d’amore, sempre più sarà un ricordo del passato. La malattia lo condannava a un’esistenza notturna e solitaria. «Conduco ormai una vita fantastica – scriveva in quel tempo a una sua amica –. Non esco più ormai, mi alzo verso le undici di sera, quando mi alzo... sempre alla mercé di una crisi improvvisa, non oso più incontrare nessuno.» E in un’altra lettera: «Continuerò fino alla morte a fare una vita che neanche le persone gravemente malate conducono, privato di ogni cosa, della luce del giorno, dell’aria, di ogni lavoro, di ogni piacere, in una parola della vita? Dove trovare un modo per cambiare? Non posso più oltre rimandare la risposta, perché non è solamente la mia giovinezza, è la mia vita che se ne va». Eppure, quella malattia che aveva aperto una ferita nell’animo suo, come se gli avesse tolto un pezzo di vita, un qualcosa di costitutivo della sua essenza, divenne 8 insensibilmente, nel tempo, una componente della sua identità. Al punto che siamo tentati di chiederci: avrebbe potuto farne a meno? Le sue crisi di malato – come ha dimostrato in un affascinante saggio Giovanni Macchia – «entravano nella sostanza della sua opera e ne erano per così dire il prolungamento, ed egli evadeva da quelle crisi per ricominciare a scrivere». I medici sono pressoché concordi nel ritenere che l’asma sia la conseguenza di una nevrosi, cioè di un malessere dello spirito. Nel caso di Proust, la causa scatenante doveva ricercarsi, probabilmente, nelle emozioni dell’infanzia, legate a un bisogno morboso di tenerezza. I riscontri, in tal senso, nella Recherche sono continui e significativi. Primo fra tutti, l’episodio del bacio della buonanotte: «La mia unica consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio non appena fossi stato a letto». E i singhiozzi che quel bambino ebbe la forza di trattenere dinanzi al padre, la sera in cui era rimasto alzato per dare ancora la buonanotte alla mamma, nel corridoio, quei singhiozzi che scoppiarono in seguito, attestavano chiaramente che la sua tristezza «non era più considerata una colpa da punire, bensì un male involontario che veniva riconosciuto ufficialmente, uno stato nervoso di cui non era responsabile». Per la prima volta, quel bambino aveva il conforto di non dover più mescolare gli scrupoli all’amarezza delle lacrime. Poteva piangere senza peccato. La soffocazione, quel senso di impossibilità alla vita conseguente all’impossibilità dell’espirazione, era in realtà un appello. Quel che il fanciullo della Recherche avvertiva ancora confusamente, l’adulto Marcel lo sapeva con piena cognizione di causa. Ritenevano i medici che la malattia fosse una conseguenza della nevrosi, che proprio per questo avesse carattere di intermittenza – come i moti del cuore –, in maniera tale che il paziente era come sdoppiato, contenente due individui, uno sano e l’altro malato, reciprocamente estranei fra di loro. «Quel male – scrive Macchia – sgretolava lo stesso concetto di personalità e l’immutabilità del nostro io. Era un turbamento che ci faceva vedere diversi e intaccava la nostra memoria, ma in cui tutto ci sfuggiva e tutto ritornava.» È abbastanza evidente che lo scrittore doveva trarre qualche vantaggio dalla consapevolezza di una malattia che incideva tanto profondamente sulla sua personalità, così da illuminarne imprevedibilmente le molteplici facce segrete. Ma soprattutto la malattia – quel tipo di malattia – gli mostrava che lo spirito era più forte del corpo. I medici, in altri tempi, avevano ripetuto che un pessimista era un uomo che aveva uno stomaco in disordine. «Oggi – afferma Proust – il dottor Dubois 9 scrive a tutte lettere che chi ha uno stomaco cattivo è un pessimista. E non è più il suo stomaco che bisogna guarire se si vuol mutare la sua filosofia; è la sua filosofia che bisogna mutare se si vuol guarire il suo stomaco.» Abbiamo visto come, nel settembre del 1905, il precipitare improvviso della salute della madre, e poi la morte impedissero a Marcel di recarsi dal dottor Dubois, a Ginevra. Ormai lo scrittore sapeva che la sua malattia non era soltanto l’asma. Egli si interrogava in maniera assillante, su una quantità di temi che riguardavano, a un tempo, la sua anima e il suo corpo: la memoria e l’oblio, la veglia e il sonno, la volontà e l’inerzia. Per questo, non avendo potuto farsi curare da Dubois, pensò a Déjérine, un medico della Salpêtrière che propugnava una terapia consistente nell’isolamento del paziente; ma poi cambiò idea e prese un appuntamento con Paul Sollier, studioso dei problemi della memoria, che dirigeva una clinica a Boulogne– sur–Seine. Qui Proust fu ricoverato, per un periodo di sei settimane. Sceglieva così la vìa dell’isolamento, dopo che la vita si era incaricata di lasciarlo solo; si allontanava dal mondo, per far sì che un altro mondo, quello interiore, prendesse forma liberamente; si rinchiudeva, come Noè, in una specie di arca, per salvarsi dal diluvio esterno, ma anche per poter osservare e comprendere meglio ciò che accadeva di fuori. Purtroppo, si trattò di un’esperienza infelice. Proust si attendeva dal Sollier – autore fra l’altro di un libro intitolato Les troubles de la mémoire – che risolvesse il suo dilemma angoscioso: la malattia del corpo avrebbe potuto compromettere l’attività della nostra memoria e intaccare quindi, insieme alla capacità di ricostruire il passato, la nostra identità personale? La domanda, che era frutto della lunga frequentazione di Proust con i testi di Bergson, presupponeva, in realtà, uno spessore filosofico che quel medico non aveva. Interrogato dal paziente se avesse letto appunto Bergson, il medico rispose avventatamente: «Sì, avrei dovuto farlo, visto che ci occupiamo delle stesse cose. Ma è così confuso e limitato!». Il medico, in un attimo, aveva perduto tutta la sua autorità, e il paziente, a costo di sottrarsi alla guarigione, trovava rifugio orgogliosamente nella coscienza della propria superiorità. La cura durò soltanto sei settimane e, quando finì, Marcel se ne tornò a casa con la certezza di essere «incredibilmente malato». Avrebbe dovuto convivere con la malattia. Del resto, se quell’intermittenza di morte, che si presentava al suo cospetto sotto forma di soffocazione, gli toglieva ogni speranza di vita, è anche vero che gli dava una specie di seconda vista che gli consentiva di vedere quel che gli altri non vedono. «Solo il male fa osservare e 10

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