Persona e bene comune: in dialogo con Maritain e Mounier Luigi Alici 1. Il personalismo in “seconda lettura” La domanda intorno all’attualità del pensiero di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, nella concordia discors che ha accompagnato il cammino dei due autori, assume oggi il carattere di una domanda, ancor più generale e urgente, intorno al nesso tra persona e bene comune, dal quale deve lasciarsi interpellare una filosofia di ispirazione personalista che voglia entrare in dialogo con alcune istanze emergenti nella cultura e nel costume contemporanei. Provando a incrociare la lettura di Humanisme integral e del Manifeste au service du personnalisme, Ada Lamacchia osserva che pur nelle differenze, anche rilevanti, le due opere «ostentano una comune ispirazione cristiana e un’intenzionalità di rinnovamento ancor viva e stimolante ai nostri giorni»1. In primo piano, nei due autori, la studiosa del personalismo rileva «l’attenzione fondamentale all’uomo nella sua vicenda storica, la considerazione del suo essere e configurarsi inseparabilmente dalle condizioni culturali del mondo moderno», come pure «l’attenzione a cogliere il senso della comunità e delle comunità umane a ogni livello, e il ripercutotersi profondo in esse di ogni istanza di novità culturale, morale, civile, politica, religiosa»2. In una parola, secondo la Lamacchia, un’istanza profonda del pensiero personalista nasce proprio da una lettura della situazione storica, che orienta in senso ermeneutico il suo cammino; proprio per questo, si potrebbe aggiungere, è impossibile rileggere oggi quella stagione straordinaria senza farsi carico di una sua attualizzazione, che non rappresenti una forzatura ma intercetti le sue potenzialità più profonde, tuttora almeno in parte inespresse. Rileggere il personalismo in tale prospettiva significa non sovrapporvi, in modo estrinseco, un aggiornamento storico-culturale, ma riconoscere e attualizzare quel dialogo interno tra ispirazione personalista e discernimento storico che accomuna in profondità il pensiero di Maritain e quello di Mounier. Potremmo parlare, a questo proposito, di una “ripetizione” del personalismo, nel senso in cui Heidegger intende la «ripetizione di un problema fondamentale»: vale a dire come «l’esplicitazione delle sue possibilità originarie 1 A. Lamacchia, Compiti attuali di un pensiero di ispirazione personalista, in A. Danese (a cura di), La questione personalista. Mounier e Maritain nel dibattito per un nuovo umanesimo, Città Nuova, Roma 1986, p. 77 [77-91]. 2 Ivi, p. 79. 1 ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità il problema si trasforma; ma questo è anche il solo modo per salvaguardarne il contenuto problematico». Accostare un autore in “seconda lettura” significa dunque compiere una specie di “passo indietro”, dalla formulazione di una dottrina compiuta alla genesi più profonda che ne costituisce la configurazione problematica originaria, per così dire allo stato nascente; si tratta di “provocare” le sue «possibilità originarie ancora nascoste», esplicitandone in forma nuova le potenzialità più proprie e rendendole capaci di fronteggiare positivamente nuove sfide. «Salvaguardare un problema – è ancora Heidegger – significa, peraltro, mantener libere e deste quelle forze interne che lo rendono possibile come problema, nel fondo della sua essenza»3. Non a caso, un interprete avvertito di Mounier come Paul Ricoeur porta in profondità questa “seconda lettura”, fino a mettere in guardia da ogni assunzione ingenua dell’impianto teorico del suo pensiero: «il personalismo non è stato così competitivo da vincere la battaglia del concetto»4; nello stesso tempo, però, Ricoeur individua e rilancia lucidamente alcune istanze profonde dell’idea mouneriana di persona, così come emerge dal Manifeste: «Si vede come coesistano qui una ontologia della sussistenza, un riferimento a un ordine gerarchico di valori e un senso acuto della singolarità e della creatività»5. In questo senso, secondo Ricoeur, si può affermare, oltre il personalismo, che «la persona ritorna», come «il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali evocate da altri… Rispetto a “coscienza”, “soggetto”, “Io”, la persona appare un concetto sopravvissuto e ritornato a nuova vita», al punto tale che lo stesso Ricoeur dichiara: «preferisco dire persona piuttosto che coscienza, soggetto, io»6. Più in generale, si può trovare in Soi même comme un autre il tentativo più organico e fecondo di riarticolare l’idea di persona, facendola dialogare con la svolta linguistica e ricavandone conseguenze profonde sul piano antropologico, etico e persino ontologico7. Anche Virgilio Melchiorre interviene in questa “rilettura” invitando giustamente a liberare la «cosiddetta indefinibilità della persona… dal sospetto che la decodifica nel modo di una 3 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it., Laterza, Bari 1981, p. 177. 4 P. Ricoeur, Muore il personalismo, ritorna la persona, in P. Ricoeur, La persona, a cura di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 20023,p. 22. 5 Ivi, p. 25. 6 Ivi, p. 27. 7 Circa la complessità e opportunità di questo bilancio rimando all’opera di A. Giambetti, Ricoeur nel labirinto personalista, FrancoAngeli, Milano 2013, che ricostruisce in modo attento e documentato l’intera questione. 2 debolezza o di un’impotenza fondativa»8. Valorizzando in Mounier soprattutto l’«utopia negativa», che «alla base di ogni progresso pone la tensione mai conclusa a un assoluto della persona»9, Melchiorre ne ricava la convinzione «che non si tratta ora di ripetere la sua lezione, bensì di ripartire dalla sua consegna… per una ripresa che animi di nuovo slancio sia la teoresi, sia l’impegno nella cittadinanza delle persone»10. Qualcosa di analogo si può dire a proposito di Maritain, per il quale la rivendicazione dell’unità della persona – altrettanto centrale che in Mounier – assume il carattere di una vera e propria antropologia metafisica: «Non si tratta – secondo Rigobello – di un articolato sistema di metafisica, ma del fondamento stesso della domanda metafisica», affrontato «mediante la dottrina della “intuizione intellettuale” in un arduo tentativo di far convergere l’intelletto di Tommaso d’Aquino e l’intuizione di Bergson»11. Anche secondo Galeazzi, dal personalismo di Maritain «proviene l’invito a “dire persona” in termini che ne evidenzino lo spessore ontologico, senza dissolverlo nella molteplicità degli atti»12. D’altro canto, uno degli studiosi italiani più attenti all’”ortodossia” maritainiana ne riassume l’attualità proprio in un «ritorno alla saggezza» e in un invito a «recuperare il primato della contemplazione sull’azione, dello spirituale sul temporale, della mistica sulla politica»13. Questo orizzonte di tensione ideale accomuna fondamentalmente Mounier e Maritain. L’attenzione all’eredità personalista resta purtroppo piuttosto circoscritta ad alcuni settori, anche se importanti, del pensiero di ispirazione cristiana, dove a volte tuttavia l’enfasi sulla diversa ispirazione di Mounier e Maritain rischia di far dimenticare l’impatto radicalmente alternativo del paradigma personale nello scenario filosofico tardomoderno e ancor più delle conseguenze che un’antropologia convintamente relazionale poteva generare sul piano etico- politico. Tale distanza culturale – peraltro rilevata acutamente anche da Ricoeur – si è accentuata negli ultimi decenni, in una temperie filosofico-culturale dominata dalla cifra piuttosto ambigua e sfuggente del postmoderno. 8 V. Melchiorre, Emmanuel Mounier, in Aa. Vv., Dire persona, oggi, “Hermeneutica”, 2006, p. 295 [291-314]. 9 Ivi, p. 314. 10 Ivi. 11 A. Rigobello, L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, p. 43. 12 G. Galeazzi, Jacques Maritain, in Aa. Vv., Dire persona, oggi, cit., p. 333 [315-334]. 13 P. Viotto, Il pensiero contemporanea secondo J. Maritain, Città Nuova, Roma 2012, p. 297. 3 Un duplice paradosso si potrebbe rilevare in questa disattenzione, che investe l’idea di persona e quella di bene comune. Il primo paradosso nasce dalla singolare appropriazione della nozione di persona in contesti ideologici e filosofici molto distanti, dove però essa finisce per assumere un significato profondamente differente, in qualche caso addirittura opposto. Separata dall’orizzonte teologico e metafisico entro il quale originariamente è nata ed è stata modulata, l’idea di persona appare ridotta a un attributo fenomenico estrinseco, finendo per subire in tal modo una doppia trasformazione. Per un verso, può essere estesa anche a individui non-umani: naturali, come i mammiferi superiori (dotati di autocoscienza, secondo alcuni esponenti delle etiche animaliste) e “artificiali”, come in futuro potrebbero essere gli organismi bionici o cyborg, di forma umanoide, composti di organi artificiali e biologici, purché in possesso dei medesimi requisiti di funzionalità. Per altro verso, un essere umano non può più essere considerato persona quando manca di determinati attributi (di cui, secondo alcuni, sarebbero privi i feti, i bambini cerebrolesi, gli handicappati gravi, i malati terminali); in tali casi si dovrebbe parlare di individui umani non-persone (in realtà esseri “subumani”!). Gli esiti di un’assunzione acritica dell’idea di persona entro un paradigma biocentrico sono discutibili sotto il profilo teorico e inquietanti sotto il profilo etico: la vita umana con gravi deficit di funzionalità “vale di meno” rispetto alla vita di animali non-umani in buona salute; su questa base Peter Singer, ad esempio, accetta non solo l’aborto ma addirittura l’infanticidio («le ragioni per non uccidere le persone non valgono per i neonati»14). Su un altro piano, si può ricordare, come ci ricorda anche “Amnesty International”, che in Cina la tigre siberiana, il panda gigante e la scimmia d'oro sono specie protette, e la loro caccia è punita perfino con la pena di morte. Se l’insieme conta più dei singoli, questi ultimi possono essere soppressi se mettono in pericolo l’equilibrio complessivo della vita; a maggior ragione, se in soprannumero. Ecco un esito certamente sorprendente: l’idea di persona, elaborata per ripensare in una forma unitaria e integrata le diverse manifestazioni dell’umano, finisce per legittimare la dissoluzione di qualsiasi approccio trascendentale; il lessico personale viene quindi semplicemente usato per indicare un attributo funzionale estrinseco (nel caso di persone non umane) o un segmento privilegiato di umanità, oltre la quale si profila una sorta di residualità subumana, per cui si potrebbe parlare di individui umani non ancora o non più persone! 14 P. Singer, Etica pratica, tr. it., Liguori, Napoli 1989, p. 127. 4 Tutto questo mentre si fa strada la nuova frontiera del “postumano”, secondo la quale occorre superare una cultura che pretenda di antropomorfizzare l’universo separando l’uomo dal non-umano; oltre il “paradigma dell’incompiutezza”, che interpreta l’uomo come privo, rispetto alle altre specie, di un apparato biologico che gli consenta la sopravvivenza, l’identità umana sarebbe costituita proprio dalla sua ridondanza, grazie alla quale è possibile ipotizzare una pluralità di progetti, che si attualizzano incorporando funzioni non-umane all’interno del repertorio performativo umano: all’”euristica della paura” qui si sostituisce l’”euristica dell’incertezza”, che elabora nuove mappe cognitive per il futuro, reinterpretando il passato. In questo senso, il postumano afferma «l’opportunità di una seconda rivoluzione umanistica capace di rivisitare il rapporto tra uomo e mondo, non più in una visione di confronto, ma di integrazione e di empatia»15. In una prospettiva in cui cultura e tecnica non si oppongono alla natura ma ne sono la logica evoluzione, non si devono prospettare limiti alla tecnologia (che equivarrebbe a inibire la costruzione dell’umano), assumendo quindi l’umano come sistema aperto. Certamente un dialogo critico con questa prospettiva sarebbe più agevole e fecondo se l’idea di persona non conoscesse le distorsioni semantiche di cui s’è detto e potesse giovarsi di un rilancio dello statuto antropologico elaborato dal personalismo. Il secondo paradosso investe la nozione di bene comune, che sembra andare incontro alla medesima tensione: da un lato, la sua evocazione appare soggetta a un processo di sostanziale delegittimazione, ancorché mascherata da continui appelli retorici, secondo un processo alimentato dagli effetti destabilizzanti di modernizzazione e multiculturalismo; la corrosione delle basi normative dello Stato liberale produce una vera e propria delegittimazione di quella morale pubblica che la politica non è più in grado di estrarre da se stessa, secondo una tesi ricordata, fra gli altri, anche da Böckenförde («Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire»16). In tale prospettiva, la politica s’illude di fare continui passi indietro, azzerando lo spessore valoriale dello spazio pubblico e confondendo imparzialità e neutralità, secondo un’interpretazione riduttiva e discutibile della laicità, che finisce per avallare persino una totale desertificazione dei simboli religiosi17. Da un altro lato, tuttavia, in polemica contro queste estremizzazioni liberistiche si fa strada nell’opinione 15 R. Marchesini, Bioetica e biotecnologie: questioni morali nell'era biotech, Apeiron, Bologna 2002, p. 11. 16 E.-W. Böckenforde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, a cura di M. Nicoletti, tr. it., Morcelliana, Brescia 2006, p. 68. 17 Cfr. in proposito L. Alici, Bene comune e laicità, in P. Donati (a cura di), Laicità: la ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 365-414. 5 pubblica una nuova volontà di riqualificare e difendere il principio del bene comune, trascrivendolo tuttavia in un contesto profondamente diverso da quella tradizione personalista che lo aveva elaborato e riproposto nella prima metà del Novecento, nel culmine di una crisi ideale e politica non meno grave di quella attuale. Autori di diversa formazione e sensibilità hanno denunciato con forza questa deriva. Paul Ricoeur, ad esempio, ci ha ricordato gli effetti distruttivi del progressivo assottigliarsi di una orizzonte etico condiviso: lo Stato moderno, ha scritto, poggia ormai su «fragili convergenze», affidandosi a un arco di valori che dovrebbero essere sostenuti da un consenso diffuso, ormai separato, però, dalle fonti originarie che li hanno generati e che possono legittimarli e alimentarli. Mutilati delle loro radici, questi valori sono per noi «come dei fiori recisi in un vaso»18; non pericolose armi ideologiche, ma dichiarazioni retoriche che non dicono più nulla intorno al giardino che li ha cresciuti e alle mani che li hanno coltivati. Anche secondo Charles Taylor, peraltro, la cultura occidentale ha ereditato dalla modernità principi alti e nobili in tema di diritti, di giustizia, di benevolenza; tuttavia «i principi elevati richiedono fonti forti»19, dipendono cioè da un’idea di bene a cui oggi non possiamo risalire percorrendo unicamente la strada della sensibilità individuale. Dinanzi a questa pretesa contraddittoria dobbiamo dunque chiederci «se non stiamo vivendo al di sopra delle nostre risorse morali»20: è come se la società odierna non fosse più in grado di innalzarsi verso un orizzonte ideale, nel quale pure dichiara – solo a parole – di riconoscersi. 2. Il bene comune come vocazione personale e impegno comunitario Un tratto comune della ricerca di Mounier e Maritain, pur così diversa nelle fonti di ispirazione, nella concettualità speculativa, nell’approccio alla storia del proprio tempo e persino nello stile della scrittura, può essere rintracciato nell’intreccio fondamentale di etica e antropologia, che sembra essere alla base della ricerca di uno statuto relazionale della persona umana; a partire da qui è possibile riconoscerle una costitutiva vocazione partecipativa che protegge la semantica del commune da ogni interpretazione riduttiva: il bene comune è molto di più della somma delle parti. Tale nozione di bene comune media in termini dinamici l’intenzionalità relazionale che identifica l’ontologia della persona, consentendo un raccordo 18 P. Ricoeur, Etica e politica, in Id., Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, tr. it., Jaca Book, Milano 1989, p. 391. 19 Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it., Feltrinelli, Milano 1993, p. 626. 20 Ivi, p. 627. 6 non estrinseco tra etica e politica. Rispetto a questa comune attenzione, i due autori concorrono a elaborare una prospettiva filosofica per molti versi felicemente complementare, che si sviluppa in un confronto aperto con le sfide etico-politiche di quegli anni, attraverso una rilettura attualizzante delle fonti del pensiero cristiano. In Mounier il tema della persona assume una esplicita centralità come termine ideale di un approfondimento filosofico e di una mobilitazione sociale e politica, animata da un intimo afflato etico-religioso. Secondo Mounier, “la comparsa del singolare” apre una prospettiva nuova per una riflessione filosofica sulla persona, pur configurandosi entro un orizzonte che sfugge a ogni cattura rappresentativa, impedendone una compiuta formulazione entro un apparato dottrinale sistematico. Uno dei cardini dell’ispirazione personalista è l’affermazione secondo la quale «la persona non è un oggetto. Essa è anzi proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto»21. Nasce da qui «il paradosso centrale dell’esistenza personale. Essa è il modo propriamente umano dell’esistenza. E, nonostante ciò, va incessantemente conquistata»22. Dalla tesi secondo secondo la quale la persona è “essere in senso vero”, anche se non “in senso pieno”, risulta un percorso di espansione dinamica che deve svilupparsi secondo i tre vettori spirituali dell’incarnazione, della vocazione e della comunione, nella prospettiva di un “volume totale” che richiede gli “esercizi essenziali” dell’impegno, della meditazione e della rinuncia come iniziazione al dono di sé23. L’appello energico a una Rivoluzione personalista e comunitaria investe dunque un livello ben più radicale del semplice mutamento esteriore, che Mounier enuncia con le parole di Charles Péguy: «La rivoluzione o sarà morale o non sarà affatto»24. Occorre dunque superare ogni forma di regressione individualistica, nella prospettiva di una rigenerazione spirituale che rende possibile ridisegnare un universo politico personalista, mentre la forte denuncia, sul piano politico, contro ogni involuzione totalitaria, consente a Mounier di impegnarsi convintamente in favore di una democrazia con un’accentuata ispirazione federalista, capace di espandere quanto più possibile gli spazi di partecipazione diretta dei cittadini. Il personalismo mounieriano ricava dunque un compito etico-spirituale e un programma d’azione a partire dall’intuizione originaria dell’essere personale, avendo sullo sfondo il tema 21 E. Mounier, Il Personalismo, a cura di C. Campanini, M. Pesenti, Ave, Roma 200412, p. 29. 22 Ivi, p. 31. 23 Cfr. E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, tr. it., Ed. di Comunità, Milano 1949, 19552, pp. 87-92. 24 Ivi, p. 21. 7 bergsoniano dello slancio spirituale e come termine di riferimento un’ispirazione spiritualista di stampo platonico-agostiniano. In tale prospettiva il suo pensiero non è certamente estraneo a una metafisica della persona capace di misurarsi con la vexata quaestio del suo statuto ontologico; la messa a fuoco dell’identità personale come “presenza in atto non conclusa”, che corrisponde alla nozione di “essere in senso vero” ma non “in senso pieno”, suppone, almeno implicitamente, la distinzione fra etica e ontologia: il cammino di crescita, inteso come fedeltà dinamica a una vocazione, va tenuto distinto dall’affermazione di una irriducibilità di ordine ontologico dell’essere della persona all’oggettuale e allo strumentale. Tuttavia Mounier tende a superare di slancio ogni tentativo di bloccare il pensiero a un livello di statica formalità; l’istanza etico-politica lo porta a cercare soprattuto le strade di un impegno all’altezza della vocazione umana. Al centro della sua attenzione sta quindi soprattutto il dislivello fra personale e impersonale, che si trasforma in un vero e proprio principio euristico, di cui si esplorano le conseguenze più rilevanti sul piano economico, politico e culturale; appare invece meno problematica la distinzione fra personale e interpersonale: la metafora geometrica del “volume totale”, dinamicamente intesa, porta ad escludere che si possa crescere in profondità senza crescere anche in larghezza e in altezza. Il pensiero di Maritain assume invece il tema della persona entro una organica prospettiva metafisica, le cui coordinate fondamentali sono offerte soprattutto dall’incontro con il pensiero di Tommaso d’Aquino, che offre un quadro speculativo di realismo critico e un metodo di disciplina intellettuale, gerarchicamente strutturata; in tal senso la sua opera può considerarsi personalista solo in senso lato25. Fedele all’impianto tommasiano, Maritain in una certa misura avverte, più di Mounier, l’esigenza di qualificare ontologicamente la natura umana a partire dalla sua intenzionalità metafisica; in tal senso, è soprattutto la differenza trascendente fra umano e divino che motiva e orienta il suo percorso di ricerca. Anche per questo, la preoccupazione di rispettare un’ordinata “architettonica” della differenza (fra ragione e fede, fra uomo e Dio, fra natura e soprannatura) farà ben presto aumentare le distanze rispetto al progetto di “Esprit”, considerato peraltro troppo esposto e squilibrato politicamente. Si comprende allora la tesi che Maritain pone all’inizio di Umanesimo integrale, facendola risalire ad Aristotele («Proporre all’uomo soltanto l’umano […] è tradire l’uomo e volere la sua infelicità»26): la valorizzazione dell’autonomia della persona non è mai assoluta, 25 Cfr. su questo punto A. Rigobello, Il personalismo, Città Nuova, Roma 1978, pp. 14-15. 26 J. Maritain, Umanesimo integrale, tr. it., Borla, Bologna 19735, p. 58. 8
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