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Alejandro Jodorowsky PDF

280 Pages·2015·1.3 MB·Italian
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Alejandro Jodorowsky LA DANZA DELLA REALTÀ Feltrinelli Traduzione di Michela Finassi Parolo © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Varia” gennaio 2004 Prima edizione nella collana “Universale Economica” febbraio 2006 ISBN edizione cartacea: 9788807818868 Vi sono problemi che la conoscenza non risolve. Un giorno riusciremo a capire che la scienza è soltanto una sorta di variazione della fantasia, una sua specialità, con tutti i vantaggi e i pericoli che la specialità comporta. Il libro dell’Es, GEORGGRODDECK Infanzia Sono nato nel 1929 nel nord del Cile, in terre conquistate al Perù e alla Bolivia. Tocopilla è il nome del mio paese natale. Un piccolo porto ubicato, forse non per caso, all’altezza del ventiduesimo parallelo. Nei tarocchi ci sono ventidue arcani maggiori. Ciascuno dei ventidue arcani dei Tarocchi marsigliesi è disegnato all’interno di un rettangolo composto da due quadrati. Il quadrato superiore può simboleggiare il cielo, la vita spirituale, mentre quello inferiore la terra, la vita materiale. Al centro del rettangolo s’iscrive un terzo quadrato che simboleggia l’essere umano, unione tra la luce e l’ombra, ricettivo verso l’alto, attivo verso la terra. Questa simbologia che si ritrova nei miti cinesi o egiziani – il dio Shu, “essere vuoto”, separa il padre terra, Geb, dalla madre cielo, Nuth – compare anche nella mitologia mapuche: al principio il cielo e la terra erano talmente stretti l’uno contro l’altra che non lasciavano nessuno spazio tra essi, fino all’arrivo dell’essere cosciente che liberò l’uomo sollevando il firmamento. Vale a dire, stabilendo la differenza tra umanità e bestialità. In lingua quechua Toco significa “doppio quadrato sacro” e Pilla “diavolo”. Qui il diavolo non è l’incarnazione del male ma un essere della dimensione sotterranea che si affaccia da una finestra fatta di spirito e materia, il corpo, per osservare il mondo e apportarvi la propria conoscenza. Presso i mapuche, Pillán significa “anima, spirito umano giunto allo stadio definitivo”. A volte mi domando se mi sia lasciato coinvolgere dai tarocchi per la maggior parte della mia vita a causa dell’influenza che esercitava su di me l’essere nato all’altezza del ventiduesimo parallelo, in un paese chiamato doppio quadrato sacro – finestra da dove sorge la coscienza –, o forse sono nato lì perché semplicemente ero predestinato a fare quello che ho fatto sessant’anni più tardi: ripristinare i Tarocchi marsigliesi e inventare la psicomagia. Esiste il destino? Può la nostra vita venire orientata verso finalità che oltrepassano gli interessi individuali? È forse una casualità se il mio buon maestro della scuola pubblica si chiamava Toro? Fra “Toro” e “tarot” – tarocchi – esiste una similitudine evidente. Lui mi insegnò a leggere con un metodo tutto personale: mi mostrò un mazzo di carte su ciascuna delle quali era stampata una lettera. Mi chiese di mescolarle, prenderne qualcuna a caso e cercare di formare delle parole. La prima parola che uscì – non avevo ancora compiuto quattro anni – era OJO, occhio. Quando la pronunciai ad alta voce, fu come se qualcosa mi esplodesse all’improvviso nel cervello, e imparai a leggere così, di colpo. Il signor Toro, con un gran sorriso disegnato sul volto brunito, si congratulò con me: “Non mi meraviglio che tu impari così in fretta, perché in mezzo al nome hai un occhio d’oro”. E dispose le carte in questo modo: “alejandr OJO D OROwsky”. Quel momento mi segnò per sempre. In primo luogo perché esaltò il mio sguardo offrendomi il paradiso della lettura, e poi perché mi separò dal mondo. Non ero più come gli altri bambini. Mi iscrissero a un corso avanzato, tra bambini più grandi che, non sapendo leggere con la mia disinvoltura, divennero miei nemici. Tutti quei bambini, per la maggior parte figli di minatori disoccupati – il crollo della borsa americana del 1929 aveva gettato nella miseria il 70% dei cileni –, avevano la pelle scura e il naso piccolo. Io, discendente da emigranti ebrei russi, avevo un ingombrante naso ricurvo e la carnagione bianchissima. Il che fu sufficiente a farmi soprannominare Pinocchio e a impedirmi per sempre, con le loro battute, di indossare i calzoni corti. “Gambe di mozzarella!” Forse proprio perché possedevo un occhio d’oro, per alleviare la drammatica mancanza di amichetti mi rinchiusi nella Biblioteca municipale, inaugurata di recente. A quel tempo non prestavo attenzione all’emblema che troneggiava sulla porta, un compasso incrociato con una squadra: era stata fondata dai massoni. Lì, nella fresca penombra, passavo ore a leggere i libri che il gentile bibliotecario mi lasciava prendere dagli scaffali. Favole, avventure, adattamenti di classici per bambini, dizionari di simbologia. Un giorno, rovistando tra le file di pubblicazioni, trovai un volume giallognolo, Les Tarots, par Etteilla. Ma per quanto mi sforzassi di leggerlo, non ci riuscivo. Le lettere avevano una strana forma e le parole erano incomprensibili. Ebbi paura di non essere più capace di leggere. Il bibliotecario, quando gli raccontai la mia angoscia, scoppiò a ridere: “Ma come fai a capirlo, è scritto in francese, amico mio! Nemmeno io capisco che cosa c’è scritto!”. Ah, quanto mi sentivo attratto da quelle pagine! Le sfogliavo una per una, vedevo sovente numeri, somme, ritornava più volte la parola “Thot”, alcune forme geometriche... ma più di tutto mi affascinava un rettangolo nel cui interno, seduta in trono, una principessa con una corona a tre punte accarezzava un leone che le posava la testa sulle ginocchia. L’animale aveva un’espressione di profonda intelligenza, unita a un’estrema dolcezza. Era una fiera mansueta! Quell’immagine mi piaceva tanto da farmi commettere un reato di cui non mi sono mai pentito: ho strappato la pagina e me la sono portata a letto. Nascosta sotto una piastrella del pavimento, “LA FORCE” divenne il mio tesoro segreto. Con la forza dell’innocenza mi ero innamorato della principessa. A forza di pensare, sognare, immaginare l’amicizia con una belva pacifica, la realtà mi mise in contatto con un leone vero. Jaime, mio padre, prima di calmarsi e aprire il negozio Casa Ukrania, aveva lavorato come artista da circo. Il suo numero consisteva nell’effettuare esercizi al trapezio e alla fine appendersi per i capelli. In quel di Tocopilla, luogo incollato alle colline del deserto di Tarapacá dove non aveva piovuto per tre secoli di fila, l’inverno torrido era un’attrazione irresistibile per ogni genere di spettacoli. Tra questi arrivò il grande circo Las Aguilas Humanas, Le Aquile Umane. Mio padre, dopo lo spettacolo, mi portò a conoscere gli artisti che non lo avevano dimenticato. Avevo sei anni quando due pagliacci, uno vestito di verde con il naso e la parrucca dello stesso colore, il toni Lechuga – Insalata –, e l’altro completamente arancione, il toni Zanahoria – Carota –, mi misero fra la braccia un leoncino che aveva pochi giorni di vita. Accarezzare un leone, piccolo eppure più forte e più pesante di un gatto, con quelle zampotte larghe, il muso grande, il pelo morbido e gli occhi di un’innocenza incommensurabile, fu un piacere sublime. Posai la bestiola sulla pista ricoperta di segatura e mi misi a giocare con lui. Mi ero semplicemente trasformato in un altro cucciolo di leone. Assorbivo la sua essenza animale, la sua energia. Dopo, mi sedetti a gambe incrociate sul bordo della pista e il leoncino smise di scorrazzare su e giù e venne a posarmi la testa sulle ginocchia. Rimasi così un’eternità, o almeno così mi parve. Quando me lo portarono via scoppiai in un pianto sconsolato. Né i pagliacci, né gli altri artisti né mio padre riuscirono a calmarmi. Scocciato, Jaime mi prese per mano e mi accompagnò in negozio. I miei lamenti durarono ancora un paio d’ore. Ma dopo essere riuscito a calmarmi, sentii che i miei pugni avevano la forza delle grosse zampe del leoncino. Scesi alla spiaggia, che si trovava a duecento metri dalla via del centro dove c’era il negozio, e lì, sentendo di avere il potere del re degli animali, sfidai l’oceano. Le onde che giungevano a lambirmi i piedi erano molto basse. Iniziai a lanciare dei sassi per farlo arrabbiare. Dopo dieci minuti di sassate, le onde aumentarono di volume. Credevo di avere fatto infuriare il mostro azzurro. Continuai a scagliare i sassi con tutta la forza che avevo in corpo. Le ondate si fecero violente, sempre più grandi. Una mano ruvida mi bloccò il braccio. “Basta, piccolo imprudente!” Era una mendicante che viveva accanto a una discarica. La chiamavano Regina di Coppe – come il seme delle carte spagnole – perché andava sempre in giro ubriaca, con in testa una corona di latta arrugginita. “Una piccola fiamma incendia un bosco, una sola sassata può uccidere tutti i pesci!” Mi liberai da quell’artiglio e dall’alto del mio trono immaginario le gridai in tono sprezzante: “Lasciami, vecchiaccia puzzolente! Non sfidarmi, altrimenti prendo a sassate anche te!”. Indietreggiò spaventata. Stavo per ricominciare a tirare sassi quando la Regina di Coppe, lanciando uno strillo che pareva un miagolio, puntò il dito verso il mare. Una macchia argentea, enorme, si stava avvicinando alla spiaggia... e sopra di essa incombeva una densa nube scura! Con questo non voglio dire che il mio atto infantile fosse la causa di quello che stava per avvenire, eppure è strano che tutti quegli eventi si verificassero contemporaneamente, concretizzandosi in una lezione che non avrei mai dimenticato. Per una ragione misteriosa, migliaia di sardine erano venute ad arenarsi sulla spiaggia. Le onde le scaraventavano, moribonde, sulla sabbia scura che piano piano si ricopriva dell’argento delle loro squame. Uno sfavillio che ben presto scomparve perché il cielo, ricoprendosi di gabbiani voraci, era diventato nero. La mendicante ubriaca, fuggendo verso la sua tana, mi gridò: “Piccolo assassino: per tormentare l’oceano hai ammazzato tutte le sardine!”. Sentii che ogni pesce, nei dolorosi rantoli dell’agonia, mi guardava come per accusarmi. Raccolsi bracciate di sardine e le rigettai in acqua. L’oceano mi rispose vomitando un altro esercito moribondo. Ricominciai a raccogliere i pesci. I gabbiani, con i loro gracchi assordanti, me li strappavano dalle mani. Mi lasciai cadere sulla sabbia. Il mondo mi offriva due possibilità: o soffrire per l’angoscia delle sardine, oppure rallegrarmi per l’euforia dei gabbiani. La bilancia s’inclinò verso l’allegria quando vidi arrivare una folla di povera gente, uomini, donne, bambini che in preda a un entusiasmo frenetico, scacciando gli uccelli, raccolsero fino all’ultima carogna. La bilancia s’inclinò verso la tristezza quando vidi i gabbiani, rimasti a bocca asciutta, becchettare delusi sulla sabbia qualche squama. Sebbene in modo ingenuo, mi ero reso conto che in quella realtà dove io, Pinocchio, mi sentivo un estraneo, tutto si collegava con tutto attraverso una fitta rete di sofferenza e di piacere. Non esistevano cause insignificanti, qualunque azione provocava effetti che si estendevano fino ai confini dello spazio e del tempo. Ero rimasto talmente impressionato dal tappeto di pesci moribondi, che iniziai a vedere la moltitudine di poveri che affollavano La Manchurria – un ghetto pieno di baracche costruite con lamiere di zinco arrugginite, pezzi di cartone e sacchi di patate – come sardine arenate sulla spiaggia, mentre noi, il ceto medio costituito da commercianti e funzionari della Compagnia dell’elettricità, eravamo gli avidi gabbiani. Avevo scoperto la carità. Accanto alla porta della Casa Ukrania c’era un paletto su cui era fissata una manovella che serviva ad alzare e abbassare la saracinesca. E lì contro, ogni tanto veniva a grattarsi la schiena il Moscone. L’avevano soprannominato così perché al posto delle braccia aveva due moncherini e secondo i mattacchioni li agitava come le ali di un insetto. Quel poveretto era uno dei tanti minatori che nelle fabbriche di salnitro erano stati vittime di una esplosione di dinamite. I padroni yankee scacciavano senza pietà, e con le tasche vuote, chiunque subisse un incidente. Si contavano a decine i mutilati che si sbronzavano con l’alcol etilico fino a perdere il senno in un sordido capannone del porto. Dissi al Moscone: “Vuoi che ti gratti la schiena?”. Mi guardò con due occhi da angelo bastonato. “Be’... Se non le faccio schifo, signorino.” Mi misi a grattarlo con entrambe le mani. Emetteva rauchi sospiri, simili alle fusa di un gatto. Sul suo volto bruciato dal sole implacabile del deserto si disegnò un sorriso di piacere e di gratitudine. Mi sentii liberato dalla colpa di avere ammazzato le sardine. Improvvisamente uscì dal negozio mio padre e si mise a prendere a calci il monco. “Roto1degenerato: non farti mai più vedere qui, o ti faccio sbattere in prigione!” Tentai di spiegare a Jaime che ero stato io a proporre a quel disgraziato di dargli il sollievo di cui aveva tanto bisogno. Non mi lasciò neppure parlare. “Stai zitto e impara a non farti fregare da questi rotos profittatori! Non avvicinarti mai più a uno di loro, sono pieni di pidocchi che trasmettono il tifo!” Sì, il mondo era intessuto di sofferenze e di piacere; in ogni azione il male e il bene danzavano come una coppia di amanti. Non ho ancora capito come mai mi fosse venuto quel capriccio: una mattina mi alzai dicendo che se non mi compravano le scarpe rosse non uscivo di casa. I miei genitori, abituati a quel figlio un po’ strano, mi chiesero di avere pazienza. Impossibile trovare delle scarpe del genere nello sfornito negozio di Tocopilla. A Iquique, a cento chilometri di distanza, era più probabile che ci fossero. Un commesso viaggiatore accettò di accompagnare in automobile Sara, mia madre, fino al grande porto. Lei fece ritorno tutta sorridente portando una scatola di cartone con dentro un bel paio di stivaletti rossi con la suola di gomma. Non appena li ebbi infilati, sentii di avere le ali ai piedi. Mi allontanai di corsa, spiccando agili salti fino alla scuola. Non m’importava dover subire la valanga di battutacce dei miei compagni di scuola, intanto ci ero abituato. L’unico a plaudire il mio gusto fu il buon signor Toro. (Forse il desiderio delle scarpe rosse arrivava diritto dai tarocchi? Nei tarocchi sfoggiano scarpe rosse il Matto, l’Imperatore, l’Appeso e l’Innamorato). Carlitos, il mio compagno di banco, era il più povero di tutti noi. Dopo la scuola doveva sedersi davanti alle panchine della piazza e, munito di una cassetta, offrire i suoi servizi come lustrascarpe. Provavo vergogna vedendo Carlitos accovacciato ai miei piedi che spazzolava e passava il colore e il lucido per far risplendere il pellame sporco delle mie scarpe. Eppure glielo lasciavo fare ogni giorno per dargli l’opportunità di guadagnare qualche monetina. Quando appoggiai sulla cassetta gli stivaletti rossi, lanciò un grido di gioiosa ammirazione. “Oh, come sono belli! Per fortuna ho il colore rosso e il lucido neutro. Te li farò diventare come di vernice.” E per quasi un’ora, lentamente, profondamente, accuratamente, accarezzò quei due oggetti che per lui erano sacri. Quando gli offrii le monete non le volle accettare. “Sono talmente lucide che stanotte potrai andare in giro senza torcia!” In preda all’entusiasmo, correvo intorno al gazebo ammirando i miei stivaletti lucenti. Carlitos si asciugò di nascosto due lacrimucce. Mormorò: “Sei fortunato, Pinocchio... Io non potrò mai averne un paio così”. Avvertii un dolore in mezzo al petto, non potei più muovere un passo. Mi tolsi le scarpe e gliele regalai. Il bambino, dimentico della mia presenza, le infilò in fretta e furia e si precipitò verso la spiaggia. E non dimenticò soltanto me ma anche la sua cassettina. La presi io pensando di restituirgliela il giorno dopo, a scuola. Quando mio padre mi vide arrivare scalzo andò su tutte le furie. “Che cosa? Le hai regalate al lustrascarpe? Ma sei impazzito? Tua madre ha fatto cento chilometri alla andata e cento al ritorno per comprartele! Quel moccioso dovrà ritornare in piazza a recuperare la sua cassetta. Tu rimarrai lì ad aspettarlo per tutto il tempo che sarà necessario, e quando sarà ritornato ti riprenderai le tue scarpe, usando la forza se ce ne sarà bisogno.” Jaime usava l’intimidazione come metodo educativo. La paura che mi picchiasse con quelle braccia muscolose da trapezista mi faceva venire i sudori freddi. Obbedii. Andai in piazza e mi sedetti su una panchina. Passarono cinque interminabili ore. Stava calando la sera quando un gruppetto di curiosi arrivò correndo attorno a un ciclista. L’uomo, pedalando lentamente come se un enorme peso gli spezzasse la schiena, portava sul manubrio, piegato in due simile a una marionetta con i fili tagliati, il cadavere di Carlitos. Tra i vestiti ridotti a brandelli occhieggiava la sua pelle, prima bruna, ora bianca come la mia. A ogni colpo di pedale, le gambette prive di vita dondolavano disegnando archi rossi con i miei stivali. Dietro alla bicicletta e al gruppetto di curiosi costernati riecheggiava, quasi impercettibile, lo strascico di una voce: “È andato a giocare sugli scogli bagnati. Le suole di gomma l’hanno fatto scivolare. È finito nel mare, che lo ha sbattuto contro gli scogli. E così quel piccolo imprudente è annegato”. La sua imprudenza, sì, ma soprattutto la mia bontà lo avevano ucciso. Il giorno dopo l’intera scuola andò a posare dei fiori sul luogo dell’incidente. Sulle rocce ripide, mani pietose avevano costruito una cappella di cemento in miniatura. All’interno si vedevano una fotografia di Carlitos e gli stivaletti rossi. Il mio compagno di scuola, essendo partito troppo presto da questo mondo senza portare a termine la missione che Dio affida a ogni anima che s’incarna, era diventato un’ “animetta”. E sarebbe rimasto lì, prigioniero, a compiere i miracoli che il popolo credente gli avrebbe implorato. Tante candele sarebbero state accese davanti alle scarpe magiche, ieri portatrici di morte, oggi dispensatrici di salute e prosperità... Sofferenza, consolazione... Consolazione, sofferenza... Una catena che non aveva mai fine. Quando consegnai la cassetta da lustrascarpe ai suoi genitori, questi si affrettarono a metterla fra le mani di Luciano, il fratellino minore. Quello stesso pomeriggio il bambino iniziò a lustrare le scarpe in piazza. In realtà a quel tempo, quando ero un bambino diverso, di una razza sconosciuta – Jaime non diceva di essere ebreo, ma cileno figlio di russi – nessuno parlava con me tranne i libri. Mio padre e mia madre, bloccati in negozio dalle otto di mattina alle dieci di sera, confidando nelle mie capacità letterarie lasciavano che mi educassi da solo. E quando si accorgevano che non ero in grado di fare qualcosa, chiamavano in causa il Rebe. Jaime sapeva perfettamente che suo padre, il nonno Alejandro – espulso dalla Russia per mano dei cosacchi – era venuto in Cile non per sua scelta ma soltanto perché una società di mutuo soccorso lo aveva imbarcato su una nave dove c’era posto per lui e per la sua famiglia: quel pover’uomo, che parlava soltanto yiddish e un russo elementare, ritrovandosi completamente privo di radici, impazzì. Nella sua schizofrenia aveva creato il personaggio di un sapiente cabalista il cui corpo era stato divorato dagli orsi durante uno dei suoi viaggi in un’altra dimensione. Il nonno, mentre confezionava laboriosamente scarpe senza l’aiuto di macchinari, non aveva mai smesso di chiacchierare con il suo amico e maestro

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iniziai ad assorbire la mia forma fisica, poi presi a incorporare i bisogni, i desideri, le emozioni. Esaminavo tutto ciò che sentivo, e poi come mi sentivo
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