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Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo PDF

83 Pages·1998·1.568 MB·Italian
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Quodlibet Emmanuel Levinas Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo Titoli originali: Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlérisme © Michaël Levinas Traduzione di Andrea Cavalletti Le Mal élémental © Miguel Abensour Traduzione di Stefano Chiodi © 1996 Quodlibet Via Padre Matteo Ricci, 108 - 62100 Macerata Introduzione Il testo di Lévinas che qui presentiamo è forse l'unico tenta­ tivo riuscito della filosofia del novecento di fare i conti con l'evento politico decisivo del secolo: il nazismo. A dire il vero, altri tentativi c'erano stati, a cominciare da quello che nel 1933 porta Heidegger all'esperienza del Rettorato — ma essi si erano saldati con un disastro senza attenuanti. Proprio perché il nazismo era un evento decisivo, esso — esattamen­ te come lo stalinismo — non era qualcosa che ci si potesse illudere di orientare a proprio piacere verso quella o questa sponda. Levinas si rende subito conto della novità dell'hitle- rismo rispetto alla tradizione filosofico-politica dell'Occi­ dente. Mentre il pensiero giudaico-cristiano e quello libera- le — egli argomenta lucidamente — tendono alla liberazio­ ne dello spirito dai vincoli della situazione sensibile e stori­ co-sociale cui l'uomo si trova di volta in volta consegnato, distinguendo un regno eterno della ragione da quello del corpo, la filosofia hitleriana si fonda invece su un'assunzio­ ne senza riserve della situazione storica e materiale, consi­ derata come una coesione inscindibile di spirito e corpo, ere­ dità naturale e eredità culturale. Ma ciò che rende la dia­ gnosi di Levinàs propriamente incomparabile è il coraggio con cui egli riconosce all'opera nella filosofia dell'hitlerismo le stesse Categorie che sono o saranno in quegli anni al cen­ tro del suo cantiere filosofico (e, implicitamente, anche di quello del suo maestro di Friburgo). Si prenda il bellissimo saggio del 1933 De l’évasion. Qui Levinas analizza alcune esperienze immediate apparente- 7 Introduzione mente marginaii, il bisogno corporeo, la nausea, la vergogna, per farne invece il luogo privilegiato di quella che egli chia­ ma “l’esperienza dell’essere allo stato puro”, dell’essere nel suo aspetto “desertico, ossessivo e orrendo”: il semplice fatto che qualcosa esista senza scampo, irreparabilmente. La nau­ sea (secondo un paradigma che è verosimilmente all’origine delle celebri descrizioni sartriane, di qualche anno successi­ ve) è, in questo senso, “la presenza rivoltante di noi stessi a noi stessi”, presenza tanto assoluta e incondizionata, quan­ to brutale e intollerabile. Essa è “l’impossibilità di essere dò che si è” — ma, nello stesso tempo, d consegna a noi stessi e c’inchioda alla nostra soffocante presenza, al puro fatto del­ la nostra esistenza. In modo analogo, nella vergogna e nel­ la nudità noi facciamo l’esperienza di non poter nascondere ciò che vorremmo celare: “ciò che appare nella vergogna è pressamente il fatto di essere inchiodati a noi stessi... la pre­ senza irremissibile di me a me... È la nostra intimità, la nostra presenza a noi stessi che ci fa vergogna”1. La categoria che orienta qui l’analisi levinasiana è quel­ la dell’essere consegnati senza scampo a se stessi o a una situazione, o, come Levinas dice, dell’ètre rivé (letteralmen­ te: essere inchiodati o appiattiti su qualcosa; river indica il gesto di ribattere un chiodo per conficcarlo completamente nel legno). Ora questo vero e proprio terminus technicus della prima officina levinasiana compare significativamente nel testo sull’hitlerismo per definire la novità del rapporto dell’uomo nazista con la sua corporeità. “Una concezione veramente opposta alla nozione europea di uomo” scrive Levinas “sarebbe possibile solo se la situazione a cui è inchio­ dato (vìve) non si aggiungesse a lui, ma costituisse il fonda­ mento stesso del suo essere. Esigenza paradossale che l’espe­ rienza del nostro corpo sembra realizzare”2. Il corpo non è, 8 Introduzione infatti, per il nazionalsocialismo, soltanto l’eterno straniero della tradizione cristiana e liberale: "(esso) non ci è sola­ mente più vicino o più familiare del resto del mondo, non determina soltanto la nostra vita psicologica, il nostro amo­ re e la nostra attività. Al di là di queste banali constatazio­ ni, c’è il sentimento d’identità. Non ci affermiamo in questo calore unico del nostro corpo ben prima che il pieno svilup­ po dell’Io pretenda di distinguersene? E non resistono forse ad ogni prova quei legami che, ben prima che si schiuda l’intelligenza, il sangue ha stabilito? In una pericolosa impresa sportiva, in un esercizio in cui i gesti richiedono una perfezione quasi astratta a un soffio dalla morte, ogni dua­ lismo tra l’io e il corpo deve scomparire. E nella situazione senza uscita della sofferenza fisica, il malato non sperimen­ ta forse l’inscindibile semplicità del proprio essere, quando si rigira nel suo letto di dolore senza trovar pace?... il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rap­ porto col mondo implacabile della materia — la sua aderen­ za all’Io vale di per se stessa. È un’aderenza alla quale non si sfugge e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza di un oggetto esteriore: è un’unione il cui tra­ gico sapore di definitivo nulla potrebbe alterare... L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incate­ namelo. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatena- mento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo; signifi­ ca soprattutto accettare questo incatenamene... Incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso. La verità, per lui, non è più la contemplazione di uno spettacolo estraneo — essa consiste in un dramma di cui l’uomo stesso è l’attore. È sotto il peso di tutta la sua esisten- 9 Introduzione za — che comporta dei dati su cui non si può più tornare — che l'uomo pronuncerà il suo sì o il suo no”3 La prossimità fra questo essere consegnato e quasi “inchiodato” a un corpo e a una situazione fattizia determi­ nata e le analisi della contemporanea fenomenologia del novecento (comprese quelle che, come abbiamo visto, orien­ teranno il pensiero del primo Levinas) è fin troppo eviden­ te. Certo Levinas cerca nell'esperienza del fatto bruto e sen­ za scampo dell3esistenza proprio qualcosa come una via di fuga (“una situazione limite in cui Vinutilità di ogni azione è precisamente Vindice dell'istante supremo in cui non resta più che uscire”4), così come, in Heidegger; l'essere-gettato non è un “Faktum compiuto”, ma contiene in sé in qualche modo la possibilità stessa dell'apertura dell'Esserci. Ma, come a Davos non era sfuggito a Rosenzweig e allo stesso Levinas, la grande novità della fenomenologia heideggeria­ na era proprio il suo prendere risolutamente radice nella situazione fattizia, il suo essere, innanzitutto, una “erme­ neutica della fatticità”. Del resto, ripubblicando nel 1990 su “Criticai Inquiry” il testo sull'hitlerismo, Levinas vi aggiun­ ge una postilla che non lascia dubbi quanto alla tesi che un lettore attento avrebbe comunque potuto leggervi tra le righe, e, cioè, che la possibilità del nazismo come “Male eie­ mentale” era iscritta nella stessa filosofia occidentale, e, in particolare, nell'ontologia heideggeriana (“nella stessa onto­ logia dell'Essere che ha cura di essere — dell'essere dem in seinem Sein um dieses Sein selbst geht”5). La pointe del saggio del 1934 è nella radicalità di questa diagnosi, che sarebbe vano cercare di esorcizzare con con­ danne o apologie. Il testo non è tanto un atto di accusa, quanto una rilevazione topografica che in ogni senso ci riguarda. Se il nazismo ha potuto confinare, almeno nel suo io Introduzione punto di partenza, con la grande filosofia del novecento, sarebbe stolto credere di potersi sottrarre a buon mercato a questo scomodo vicinato condannando un filosofo e assol­ vendone un altro. Le domande che il saggio implicitamente poneva continuano sessanta anni dopo a esigere una rispo­ sta. Qual è il senso di questa prossimità? Siamo veramente usciti da questo vicinato o dimoriamo ancora senza render­ cene conto sui margini del nazismo? Quando, nel 1994, vide la luce la raccolta postuma di Hannah Arendt Essays in Understanding, si potè osservare con sorpresa che il curatore aveva inserito tra gli altri artico­ li e saggi un breve appunto che aveva il tono confidenziale di una nota di diario o di un pettegolezzo. Nel testo, che porta­ va la rubrica Heidegger the fox, la Arendt paragonava il suo antico maestro a una volpe, una volpe, però, di una specie molto particolare, che, volendo come tutte le volpi, costruirsi un covo sicuro, aveva scelto come tana una trappola. Sotto l'apparenza di un pettegolezzo, l'appunto contiene un'indi- cazione preziosa sull'ontologia di Essere e tempo. Si è molto parlato dell'aperto come categoria centrale del pensiero di Heidegger; dimenticando, però, troppo spesso che la specifi­ cità e la novità di questa apertura consistono precisamente nel suo essere innanzitutto apertura a una chiusura e attraverso una chiusura. L'Esserci è fin dall'inizio gettato senza scampo nel suo Ci, rimesso a una tonalità emotiva e a una situazio­ ne fattizia determinata che gli stanno davanti come un enig­ ma impenetrabile, in modo tale che la sua apertura coincide in ogni punto col suo essere consegnato a una caduta. “Nella tonalità emotiva”, recita il par. 29 di Essere e tempo, “l'Esser­ ci è sempre già aperto secondo una disposizione data come ii Introduzione Vente al quale VEsserci è consegnato nel suo essere come l'essere che esso, esistendo, ha da essere. Aperto non significa qui riconosciuto come tale... Il puro fatto del “che c'è” si mostra, ma il da dove e il verso dove restano nell'oscurità... Questo carattere d'essere dell'Esserci, velato nella sua prove­ nienza e nella sua destinazione, ma proprio per questo tanto più in se stesso aperto senza veli, noi lo chiamiamo l'essere- gettato (Geworfenheit,) di questo ente nel suo Ci... L'espres­ sione essere consegnato sta a significare la fatticità dell'essere consegnato... In quanto ente consegnato al suo essere, l'Esser­ ci è sempre consegnato a questo in modo che esso deve esser­ si sempre già trovato, trovato, però, in un trovarsi che non scaturisce da un diretto cercare, ma da un fuggirsi. La tona­ lità emotiva non apre nel modo di un vedere l'essere-getta­ to, ma in un processo di conversione o di evasione... ”. Tale è la costituzione fattizia di quella Lichtung che l'Esser- ci apre e il cui nome è, dunque, davvero qualcosa come un lucus a non lucendo6 sprofondato in ciò che lo apre, nascosto in ciò che l'espone e oscurato dalla sua stessa luce, l'Esserci ha innanzitutto da essere ciò a cui è già sempre rimesso e abban­ donato, i suoi stessi modi di essere. L'ontologia heideggeriana è, cioè, risolutamente manierista e non essenzialista; l'Esserci non ha una natura propria e una vocazione precostituita, ma è un essere assolutamente inessenziale, la cui essenza, essendo gettata, giace (liegt) ora integralmente nell'esistenza, nelle sue molteplici maniere (Weisen,) di essere. È da questa struttura ontologica dell'Esserci che Levinas muove per la sua interpretazione della filosofia dell'hitleri- smo: come è stato opportunamente notato, l'être rivé (che compare significativamente per la prima volta proprio nel saggio del 1952 su Heidegger et l'ontologie,) non è, in questo senso, altro che una ripresa e una radicalizzazione della 12 Introduzione Geworfenheit. L'uomo del nazismo condivide, cioè, con l'Esser ci l'assunzione incondizionata della fatticità, l'esperienza di un essere senza essenza che ha da essere soltanto i suoi modi di essere. Ciò significa, però, che la vicinanza tra il na­ zismo e la filosofia del novecento consiste precisamente in ciò che fa la novità e l'attualità di questa rispetto alla tradizio­ ne politica dell'Occidente, con la sua chiara distinzione fra essenza e esistenza, diritto e fatto, oicos e polis. La dimensio­ ne che si apre a questo punto è esattamente il contrario di quel che la Arendt ha costantemente inteso come spazio pub­ blico e sfera politica. Si capisce, allora, perché l'aneddoto sul­ la volpe che si è costruita come tana una trappola potesse for­ se essere per lei così importante: esso non contiene soltanto un'indicazione sull'ontologia di Heidegger; ma è anche una parabola sullo spazio politico della modernità. Ricordo che, nel 1966, mentre frequentavo a Le Thor il seminario su Eraclito, chiesi a Heidegger se avesse letto Kafka. Mi rispose che, del non molto che aveva letto, era rimasto soprattutto impressionato dal racconto Der Bau, “La tana". L'innominato animale (talpa, volpe o essere umano) protagonista del racconto è ossessivamente occupato a co­ struire una tana inespugnabile, che si rivela a poco a poco essere, invece, una trappola senza uscita. Ma non è precisa- mente quanto è avvenuto nello spazio politico degli stati- nazione dell'Occidente? Le case (le “patrie") che questi han­ no lavorato a costruire si sono rivelate essere, alla fine, per i “popoli" che dovevano abitarvi, soltanto delle trappole mor­ tali. (E Kafka è certamente l'autore che ha descritto nel modo più lucido la fine dello spazio politico dell'Occidente e l'assoluta indeterminazione che ne deriva tra spazio pubbli­ co e spazio privato, “castello" e camera da letto, tribunale e soffitta.) 13 Introduzione Il testo di Levinas, con la sua diagnosi senza indulgenze, può allora offrire l'occasione per prendere coscienza della nostra imbarazzante prossimità col nazismo, non certo in nome del revisionismo, ma, anzi, per affrontare una volta per tutte questa prossimità. Se l'analitica dell'Esserci (come avrebbe dovuto essere scontato, se ogni ontologia non può che implicare una politica) definisce la situazione politica dell'Occidente in cui ancora ci troviamo e se questa, per alcuni tratti non marginali, coincide con quella da cui muo­ ve il nazismo, in che modo possiamo sfuggire all'esito cata­ strofico implicito in questa prossimità? Poiché dev'essere ormai chiaro che i grandi stati totalitari del novecento rap­ presentano a loro modo un tentativo di dare una risposta a un problema che non ha cessato di essere attuale: come può un essere inessenziale, che non ha altra vocazione e altra consistenza che la sua stessa esistenza fattizia e che, pertan­ to, ha da assumere e essere i suoi stessi modi di essere, darsi un compito storico e costruire per sé una dimensione propria e una "casa" che non siano una trappola? A partire dalla fine della prima guerra mondiale è, infatti, evidente che, per gli stati-nazione europei, non vi sono più compiti storici asse­ gnabili. Si fraintende completamente la natura dei grandi esperimenti totalitari del novecento se li si vede soltanto come prosecuzioni degli ultimi grandi compiti degli stati- nazione ottocenteschi: il nazionalismo e l'imperialismo. La posta in gioco è, ora, tutt'altra e più estrema, poiché si tratta di assumere come compito la stessa esistenza fattizia dei popoli — cioè, in ultima analisi, la loro nuda vita. In questo, i totalitarismi del nostro secolo costituiscono veramente l'altra faccia dell'idea hegelo-kojèviana di una fine della sto­ ria: l'uomo ha ormai raggiunto il suo telos storico e non resta altro che la depoliticizzazione delle società umane attraver­ 14

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