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16 Andrea Vitali - La leggenda del morto contento PDF

118 Pages·2016·0.61 MB·Italian
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Presentazione È il 25 luglio 1843, una mattina d’estate senza una nube e una luce che ammazza tutti i colori. Due giovani in cerca d’avventura salpano su una barchetta con tre vele latine. Dal molo di Bellano, li segue lo sguardo preoccupato del sarto Lepido: non è giornata, sta per alzarsi il vento. L’imbarcazione è presto al largo, in un attimo lo scafo si rovescia. Un’imprudenza. Una disgrazia. Ma la tragedia crea un problema. A riva viene riportato il corpo dell’irrequieto Francesco, figlio di Giangenesio Gorgia, ricco e potente mercante del paese. Il disperso è Emilio Spanzen, figlio di un ingegnere che sta progettando la ferrovia che congiungerà Milano alla Valtellina. Due famiglie importanti. Bisogna a tutti i costi trovare un colpevole. Per la prima volta, Andrea Vitali risale il corso del tempo, verso l’Ottocento, per raccontare un altro squarcio della sua Bellano. Ritroviamo così l’eco della dominazione austriaca, con i notabili e i poveracci, gli scapestrati e le bisbetiche, le autorità e gli ubriaconi… Tra lacrime e sorrisi, La leggenda del morto contento racconta una storia di padri e di figli, di colpevoli e di innocenti, di giustizia e di malagiustizia: ottocentesca, ma solo in apparenza. Andrea Vitali è nato nel 1956 a Bellano, sulla riva orientale del lago di Como. Ha pubblicato A partire dai nomi (1994), L’ombra di Marinetti (1995, premio Piero Chiara), L’aria del lago (2001) e, con Garzanti, Una finestra vistalago (2003, premio Grinzane Cavour 2004, sezione narrativa, e premio letterario Bruno Gioffrè 2004), Un amore di zitella (2004), La signorina Tecla Manzi (2004, premio Dessì), La figlia del podestà (2005, premio Bancarella 2006), Il procuratore (2006, premio Montblanc per il romanzo giovane 1990), Olive comprese (2006), Il segreto di Ortelia (2007), La modista (2008, premio Ernest Hemingway), Dopo lunga e penosa malattia (2008), Almeno il cappello (2009, Premio Casanova; Premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante; Premio Campiello selezione giuria dei 2 letterati; finalista premio Strega), Pianoforte vendesi (2009), La mamma del sole (2010) e Il meccanico Landru (2010). Nel 2008 gli è stato conferito il premio letterario Boccaccio per l’opera omnia. Il suo sito è: www.andreavitali.net NARRATORI MODERNI Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it In copertina: © Ocean/Corbis e Wallace G. Levison © Time Life Pictures Getty Images ISBN 978-88-11- 13267-7 © 2011, Garzanti Libri s.p.a., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Printed in Italy www.garzantilibri.it Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Jouve Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. 3 La leggenda del morto contento I personaggi e le situazioni raccontate in questo romanzo sono frutto di fantasia. I luoghi, invece, sono reali. La mattina del 25 luglio 1843 si annunciò sotto un cielo sgombro della più piccola nuvola, con una luce smorta che ammazzava i colori e un’aria densa del pesante odore dell’acqua di lago quando è ferma, misto di muschi e pesci morti. Da un paio di giorni, in verità, non si levava la pur minima aria, né al mattino, quando i tivanelli esaurivano la loro breve vita prima del sorgere del sole, né alla sera, quando i montivi scendendo dalle valli, ridavano vita alle verzure. Sopra il paese s’era creata una cappa di aria spessa, come se il Padreterno vi avesse rivoltato per dispetto una tazza e l’ossigeno si stesse pian piano esaurendo. In breve i panificatori avevano cominciato a lamentarsi e a maledire il tempo: a detta loro tutta quell’umidità rovinava gli impasti e avevano un bel tirare e schiacciare prima di ottenere quel pane di cui andavano famosi e che, per bontà, competeva addirittura col notissimo pane di Como. Molti altri bellanesi li avevano seguiti nel levare gli occhi al cielo sbuffando di scontentezza e sacramentando, poiché l’umido dell’aria non infarciva solo i muscoli dei panettieri, ma anche i loro, rendendo più pesante ogni movimento: tranne quello per alzare al banco dell’osteria i cocci da mezzo litro pieni di vino e l’altro, quello per mollare scapaccioni ai bambini i quali, assediati al pari degli adulti dalla faticosa atmosfera, diventavano rognosi e petulanti. Verso le dieci, vincendo l’ansito che l’atmosfera caliginosa le dava, presso la bottega del sarto Lepido Bernasconi, che stava nel rione della Pradegiana, si presentò Neredonte Ombriani, moglie di magnano, a reclamare un paio di braghe che aveva portato in bottega una decina di giorni avanti affinché il sarto gliele riparasse. Lepido se le ricordava: stinte, lucide per l’usura tanto 4 che, dopo averle considerate, le aveva giudicate buone per farne pezze da infilare sotto le porte contro gli spifferi. Aveva anche tentato di esprimere un mezzo parere circa l’inutilità di correre ai ripari ma la magnana aveva ribattuto che suo marito ridava vita a pentole in condizioni ancora peggiori. Il sarto non rammentava esattamente cosa fosse successo poi. Trovandosi sempre in difficoltà quando era ora di discutere, essendo di carattere solitario e schivo, probabilmente non aveva osato controbattere. Poteva anche essere che le avesse ritirate, allo scopo di togliersi di torno l’esaltata. Che adesso, però, e con enfasi, le stava reclamando, spingendo Lepido a credere di averle prese in carico davvero pur se non ricordava assolutamente di averlo fatto. La magnana invece ne era certa: cosa significava, sennò, quel ballo di monete che aveva in mano, quella musica di soldi pronti evidentemente a saldare la riparazione? «E vi dissi io di passare dopo una decina di giorni?» chiese Lepido tanto per guadagnare tempo e cercare nella memoria una qualunque traccia di quelle braghe. «Chi altri?» rispose secca secca la magnana, che aveva il vezzo di dare un colpo in aria con la testa finita ogni domanda. Il sarto si grattò la pera, una piazza con pochi sfaccendati capelli. «Sapete com’è», borbottò, «il lavoro si accumula… io sono solo…» Sembrava che la magnana lo sapesse e lo aspettasse. «Balle!» sparò, svuotando la mano coi soldi nella tasca del scosà. «Mi state raccontando delle balle e facendo perdere tempo! Se non vi è riuscito di riparare quelle braghe, ridatemele, che tenterò io di provvedere.» Come se fosse facile sapere dov’erano finite! Sempre che ci fossero, lì, nella bottega! «Ma no…» si oppose debolmente il sarto. «Come sarebbe a dire, no? Ne ho diritto, è roba mia!» «Certo…» «E allora?» Lepido non osò più controbattere. Si girò invece, e cominciò a cercare tanto nella bottega quanto nella memoria, entrambe un guazzabuglio dove le cose si accumulavano, si confondevano, si perdevano. Come, probabilmente, le braghe del magnano. La magnana non disse parola mentre assisteva alla penosa, quanto infruttuosa, ricerca. Lasciò che il sarto si arrendesse e, a bassa voce, le dicesse: «Prima o poi salteranno fuori», lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. 5 «Sennò me le ripagherete come nuove», fu la sua replica. Fatta però non in faccia al sarto ma di petto alla di lui moglie Diomira Vitali, che in verità di petto in senso proprio non ne aveva. La incrociò poco dopo il battibecco col marito, in piazza, mentre quella se ne tornava dal rione Coltogno con un fascio di coste sotto il braccio e un cartoccio di agoni che ancora languivano. Un paio di braghe nuove?, compitò la Diomira. Mica uno scherzo! La magnana oltretutto le stava anche antipatica e si sarebbe fatta torcere il collo piuttosto che darle ragione. La Diomira la invitò, con invidiabile calma, a non preoccuparsi, si sarebbe fatta carico lei di far saltare fuori le braghe del magnano. Poi, sobbollendo e con la schiuma agli angoli delle labbra, filò in bottega dove, puntato un indice storto dall’unghia scura contro il marito, gli ingiunse di presentarsi puntuale a mezzogiorno e con le latitanti braghe in mano. Infine, senza dare a Lepido il tempo di replicare, cosa che peraltro l’uomo non avrebbe fatto, salì in casa a covare la rabbia, pregustando il momento in cui il marito sarebbe comparso a mani vuote. Cosa che puntualmente accadde, in modo che, all’ultimo tocco di mezzogiorno al campanile della prepositurale, il meschino era di già impalato all’angolo di destra del molo e mangiava, come ormai già da un pezzo gran parte del paese mormorava, pane e odori: quel giorno lo intingeva nel deciso aroma degli agoni in carpione che sin dal primo mattino aveva infiltrato l’aria delle contrade. Lepido e la Diomira litigavano spesso. In verità era lei che litigava con lui. La Diomira aveva infatti una lingua che sembrava un vocabolario, mentre Lepido era uomo di poche parole. Sempre stato così, anche da giovane. Pure in occasione di banali conversazioni si limitava a concepire brevi e lente frasi. Quando poi gli era possibile, evitava addirittura di rispondere. Figurarsi quindi se uno fatto così poteva essere in grado di affrontare il fiume in piena di una donna come la Diomira quando, come si dice, aveva la berretta in piedi. Cosa che, tra l’altro, le capitava di frequente, pressoché ogni giorno. L’impressione era che la Diomira, quando era senza, se li andasse a cercare i motivi per strapazzare il marito. Anche se, incauto o sciocco che fosse, il più delle volte glieli forniva lui, su un piatto d’argento. Alla Diomira bastava un niente, una sedia fuori posto, il ritardo di un minuto a pranzo o a cena, e via col concerto! 6 Quando poi qualcuna delle comari che si servivano nella bottega di sartoria del marito si lamentava con lei, poiché sapevano che farlo con Lepido era perfettamente inutile, per questo o quel ritardo oppure per un lavoro eseguito, a loro giudizio, maldestramente, allora la donna dava il meglio di sé. Di fronte alle petulanti bisbetiche la Diomira esibiva un’ammirevole imperturbabilità: incassava, si scusava, prometteva. Caricava le trombe ma non agiva d’istinto. Attendeva l’ora giusta. Le piaceva frollare la rabbia, tenersi il rospo sul gozzo, sentirlo andare su e giù mentre aspettava che Lepido salisse in casa per il pranzo o per la cena. Solo allora partiva all’attacco. E sulla Pradegiana, l’umido rione di Bellano dove i due abitavano, calava un silenzio compatto, simile a quello che precede un temporale o un concerto: i vicini erano un pubblico attento, equamente diviso tra il femminile, che silenziosamente invidiava la vigoria della Diomira, e il maschile, che scuoteva la testa commentando, senza farsi sentire dai bambini, che a Lepido mancavano proprio i coglioni. Coglioni o no, lei gridava, lui taceva. E saltava il pranzo o la cena. Perché quella era la punizione che la Diomira gli infliggeva, tenerlo a stecchetto. Il fatto che lei avrebbe preferito lavorare in una cava di sassi piuttosto che stare ai fornelli influiva solo in parte con la sostanza della decisione perché, anche quando era bella tranquilla, preparava mangiari che pure i gatti della corte digerivano con difficoltà. Tra i vicini c’era chi pensava che la faccenda dei coglioni c’entrasse fino a un certo punto. A rendere Lepido così succube nei confronti della Diomira ritenevano piuttosto fosse il fatto che la casa era di lei, avuta in eredità, e quindi lui temesse che un giorno o l’altro potesse ritrovarsi col sedere per terra e senza la possibilità di dire be’. Lo sapevano tutti che Lepido, di suo, non aveva niente, la Diomira lo gridava ai quattro venti. Era anzi il momento in cui il litigio raggiungeva il suo apice. «E ricordati che la casa è mia!» Lo stridulo avvertimento faceva da suggello alla sfuriata. Poi sulla Pradegiana calava di nuovo il silenzio: d’inverno un silenzio greve, umido e freddo, e ugualmente umido, ma con una luminosa leggerezza, d’estate. E, inverno o estate che fosse, Lepido, senza far parola, abbandonava la cucina e il desco orfano di cibo, usciva nell’ombroso budello delle contrade e si dirigeva verso il molo, dove trascorreva la controra o tirava notte, aspettando che la schiuma della Diomira sbollisse. Stava lì, i gomiti appoggiati alla murata del molo, a guardare il cielo e l’acqua del lago, a cercare nell’uno e nell’altra i segni del buono o del cattivo tempo a venire, 7 poiché quella era la sua passione segreta. A volte sbocconcellava un tocco di pane secco che aveva sempre in tasca a mo’ di riserva e ne elargiva le briciole ai cavedani golosi che dopo averle imboccate sparivano nel buio dell’acqua. Come in quell’afoso mezzogiorno di fine luglio 1843. Cessato il rintocco delle campane, il silenzio ridivenne assoluto. Per un banale orecchio, un timpano volgare. Non per quello di Lepido, che si serviva dei cinque sensi per inseguire e penetrare i meccanismi della scienza che aveva sempre covato. D’estate i rintocchi sono sfibrati, sembrano morire appena usciti dal bronzo delle campane. Quel giorno disegnarono un’invisibile linea di caduta verso il basso, come volessero affogarsi. Il fitto tessuto dell’acqua li respinse. Lepido lasciò cadere il resto del pane che aveva in mano, scatenando una sarabanda tra i cavedani che ne aspettavano le briciole, e allungò lo sguardo sulla superficie del lago: comprese che la breva e il vento, le ariose regine del lago, di lì a poco si sarebbero dati battaglia. Già sul promontorio di Bellagio le foglie della verzura mostravano il loro lato superiore, quello più scuro, segno che la breva si preparava a montare. Del vento invece il sarto cominciò a percepire l’incombente presenza nelle sue fibre interne, come se nella pancia avesse un violino con una corda sola che non smetteva di vibrare. Scrutando verso l’alto lago vide l’acqua appena increspata mentre, a conferma della sua intuizione, una nuvoletta a forma di cane rovesciato sembrava essere stata spinta a calci oltre il profilo delle Prealpi. Sapeva come sarebbe andata a finire, chi dallo scontro sarebbe uscito vincitore: lei, la breva, femmina che sulle prime avrebbe forse dimostrato di inchinarsi ai voleri del vento pigliatutto ma poi, pian piano, gli si sarebbe infilata sotto e l’avrebbe completamente spompato. Fu in quel momento che due giovanotti, uno dal passo pesante e la risata vigorosa, l’altro un tacchettìo da prima ballerina d’opera, ruppero l’incanto del silenzio. Quello pesante era un corpacciuto, nero di capelli, che nonostante l’eleganza del vestire tradiva una grossolanità di maniere: Lepido lo conosceva bene, era Francesco Gorgia, figlio di Giangenesio, l’uomo più ricco e potente del paese. L’altro era invece un fighettino sconosciuto, probabilmente forestiero, minuto nella figura e nei gesti, che continuamente si portava la mano agli occhi come se quella luce lo offendesse. Stavano scendendo la scalotta che portava agli attracchi delle barche. Convinti che nessuno li stesse a guardare, dapprima pisciarono nel lago, traendo da ciò motivo di divertimento, e poi presero ad armeggiare attorno a un’imbarcazione: l’intento era, evidentemente, quello di 8 armarla e poi prendere il largo. Gridavano parlandosi tra loro. Forse erano un po’ briachi, rifletté il sarto. Mandarono a quel paese campana e campanile quando, nell’aria tersa, il solitario tocco dell’una si staccò verso il cielo. Forse facevano conto di essere già in navigazione per quell’ora, mentre erano ancora lì alla fonda, a sbrogliare cordami e vele con gesti di poca precisione. Precisa invece, puntuale, la magnana all’una esatta era bella e piantata sotto le finestre della Diomira. Costei si affacciò solo dopo che la Neredonte ebbe lanciato un richiamo di matrice canina, poi un fischio e un fischio ancora, quindi un appello: «Oh, la Diomira!». La guardò. La magnana stava in piedi, in mezzo alla corte, i pugni ai fianchi, scrutando verso la sua finestra. Non aveva neanche un filo d’ombra intorno, pure il sole l’aveva a schifo. «E allora, le mie braghe?» gridò la Neredonte. A voce bella alta, in modo che tutto il vicinato la sentisse. Pure la Diomira aveva ben chiaro che le comari della corte, la Berscia, la Teresotta, la Gambetta, la Strascia, la Cherchelina, la Venegonda, la Bracicca, la Testina, l’Orrida, la Volpassa e quella che chiamavano Nutrimento, una ex balia che non aveva mai trovato uno straccio d’uomo, nascoste nel buio delle cucine, stavano a origliare, per sentire cosa avrebbe risposto. Aprissero bene le orecchie perché stava per servirle! Circa le braghe non aveva novità. Ma in fin dei conti la bottega apriva alle due: cosa voleva da lei a quell’ora quella malvestita lì sotto?, pensò la Diomira. «Il vostro uomo a che ora inizia a pestare le sue pignatte? » disse, ad alta voce pure lei: sentissero tutti che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e che conosceva bene regole e orari del commercio. La magnana, un po’ abbagliata dalla luce e un po’ sospettando che la Diomira le stesse tendendo un tranello di parole, fece una faccia a prugna. «Alle due spaccate!» rispose, con una nota d’orgoglio nel tono. Vero. Ma solo perché alle due spaccate ci andava lei all’Osteria del Crachen a prendere il marito per la giacchetta e a portarlo via dal tavolo della morra. Perché altrimenti il magnano ci sarebbe rimasto fino a sera e anche parte della notte. «E allora», concluse la Diomira, «perché mai il mio dovrebbe cominciare un’ora prima?» La Ombriani incassò l’obiezione come se le avessero dato 9 una mestolata, cercò una risposta sufficientemente saporita, tanto per avere l’ultima parola, ma non aveva un gran vocabolario. Deglutì un paio di volte grattandosi, sota el scosà, il ventre flaccido. Poi trovò forza e consolazione al pensiero che il magnano suo marito aveva mani grandi, capaci di vincere la ritrosia del più ostinato dei debitori. Allora se ne andò. I due giovani intanto continuavano a trabattare intorno alla barca con gesti lenti, senza misura, tali da spingere sempre più Lepido a pensare che fossero davvero alticci. Dei due, il fighettino a un certo punto levò gli occhi a scrutare il lago che continuava a essere piatto. «Sembra che qualcuno ci abbia passato una pialla sopra», disse ridendo, «come sul torace della mia cuginetta Ofelia!» Quindi sollevò il dubbio: che gli toccasse dare di remo per compiere la traversata che li doveva portare sulla sponda di là? Il corpacciuto, raddrizzandosi a sua volta dal lavoro che stava facendo, un nodo che non voleva saperne di sbrogliarsi, e socchiudendo l’occhio come un vero esperto, allungò il braccio in direzione di Bellagio. «Là!» disse. «Guarda!» «Là, cosa?» «La breva. Sta montando…» Una risata accolse l’informazione. «Come noi fra un po’?» Pure Lepido, che aveva seguito più che il dialogo i gesti che i due s’erano scambiati, guardò verso la punta spartivento: non aveva torto il secondo giovanotto, la breva montava, ma con stitichezza. Brutto segno. Anziché l’ondina gentile appena sormontata da una corona di schiumetta bianca, sembrava che il lago, sotto, avesse mal digerito chissà che e continuasse a emettere rutti silenziosi che ne muovevano appena la schiena: ecco perché quell’onda nauseabonda, lenta, faticosa. Frenata, come se avesse davanti un muro invisibile. E a produrre un effetto di tal sorta non poteva essere che il fratello feroce del vento, il favonio, il quale, anziché prendere di petto sorella breva e correre il rischio di farsi abbindolare dalle sue grazie, se la ingroppava dall’alto, piombandole addosso con violenza e schiacciandone l’esile scheletro: la soffocava, annegandola. A tutta riprova di ciò che andava argomentando dentro di sé, Lepido levò gli occhi al cielo: la nuvoletta a forma di cane rovesciato era ancora lì, tornata però sulle sue quattro zampe, ben piantate adesso, a base larga, nell’azzurro del cielo. Il cane insomma si preparava ad attaccare e la giornata che sembrava un acquerello sarebbe presto diventata un concerto di 10

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