Nancy McWilliams1 Ricerca Psicoanalitica, 2006, Anno XVII, n.1, pp. 51-88 LA RELAZIONE ANALITICA CON I PAZIENTI SCHIZOIDI 2 SOMMARIO L’A. sostiene che, nonostante la convinzione prevalente che vi sia qualcosa di “primitivo” o patologico nelle dinamiche schizoidi, le persone che presentano caratteristiche schizoidi si possono collocare lungo l’intero continuum della salute mentale, dall’estremo psicotico a quello di un buon funzionamento altamente creativo. Prende in esame molti aspetti che la letteratura psicoanalitica non mette in rilievo: la reazione alla separazione, la sensibilità ai processi inconsci degli altri, la sensazione di intima unione con l’universo e complessi legami tra personalità isteriche e schizoidi. Esamina le implicazioni terapeutiche inerenti la diagnosi presentando il suo lavoro con una donna gravemente schizoide con cui alla fine della terapia ha lavorato in modo totalmente non convenzionale. SUMMARY Some Thoughts about Schizoid Dynamics. The Woman Who Hurt Too Much to Talk. The Author argues that despite the prevalent assumption that there is something inherently “primitive” or pathological about schizoid dynamics, people with schizoid psychologies are found along the entire continuum of mental health, from psychotically compromised to high-functioning and remarkably creative. She discusses several areas that the psychoanalytic literature has not emphasized; namely, the reactivity of schizoid individuals to separation; the sensitivity of schizoid people to unconscious processes in others, their sense of interconnectedness with the universe; and the complex connections between hysterical and schizoid psychologies. She reviews the therapeutic implications of an understanding of schizoid psychology and presents her work with a deeply schizoid woman with whom she eventually worked in a highly unconventional way. 1 Nancy McWilliams è docente di Teoria e Terapia psicoanalitica presso la Graduate School of Applied and Professional Psychology, Università statale del New Jersey. E-mail: [email protected] 2 Questo lavoro è stato presentato in occasione dell’Incontro-Confronto tenutosi a Roma il 21 maggio 2005. La prima parte dell’articolo originale è pubblicata in The Psychoanalytic Review, 93, 1 (2006). Si ringrazia la National Psychological Association for Psychoanalysis per aver concesso il permesso di traduzione. Traduzione di Maria Luisa Tricoli. È da molti anni che mi dedico a mettere in luce il funzionamento dei pazienti schizoidi. Non già a comprendere il Disturbo Schizoide di Personalità descritto in tassonomie psichiatriche come il DSM, ma la lettura psicoanalitica fenomenologica delle problematiche schizoidi. Ho sempre avuto un grande interesse ad esplorare le differenze individuali più che a definire ciò che è o non è patologico ed ho scoperto che quando persone con dinamiche schizoidi - siano esse pazienti, colleghi o amici - si accorgono che non disdegno o non criminalizzo le loro “comunicazioni”, come ha detto di recente un terapeuta, si aprono facilmente alla condivisione del loro mondo interno. Come avviene in molti altri campi, quando si arriva a permetterci di vedere qualcosa, la si vede ovunque. Sono convinta che le personalità con tendenze schizoidi sono più comuni di quanto si pensi e che esiste una gamma mentale ed emotiva che va dalle persone con disturbi psicotici a quelle che presentano una invidiabile consistenza psichica. Sono anche persuasa che le personalità schizoidi non presentino conflitti a “livello nevrotico” (cfr. Steiner, 1993), per cui le persone schizoidi che funzionano al meglio, e ce ne sono tante, sono molto più sane (vita soddisfacente, sensazione di essere padroni della loro vita, regolazione degli affetti, relazioni personali, creatività) di persone con caratteristiche nevrotiche. Anche se il concetto junghiano di “introversione” sembra meno stigmatizzante, preferisco usare il termine “schizoide” perché sottolinea meglio la vita interna dell’introverso rispetto alle forme solitarie di introspezione che sono fondamentalmente epifenomeni. Uno dei motivi per cui i professionisti della salute mentale non si accorgono dell’esistenza di un loro funzionamento psicotico è che molte di queste persone si nascondono o si “mostrano” come non schizoidi. Sono persone che non solo hanno una forma di allergia ad essere oggetto dello sguardo intrusivo degli altri, ma che hanno anche imparato a temere di essere considerati pazzi. In genere gli osservatori non schizoidi tendono ad attribuire aspetti patologici a coloro che sono più chiusi ed eccentrici di quanto non lo siano loro, per questo è comprensibile che gli schizoidi abbiano paura di essere classificati e visti come meno sani e possano anche esprimere proiettivamente la convinzione di essere, in modo appena abbozzato ed inespresso, profondamente non accetti agli altri pazzi. Hanno ragione? I professionisti della salute mentale hanno la tendenza a pensare che gli schizoidi siano mentalmente primitivi e che i primitivi siano pazzi. La brillante concettualizzazione kleiniana (1946) della posizione schizoide-paranoide come antesignana della separatezza dall’altro (posizione depressiva) ha contribuito a introdurre questa abitudine mentale, sostenendo la tendenza generale a considerare per loro stessa natura i fenomeni evolutivi precoci come “immaturi” o “arcaici” (cfr. Sass, 1992: 21, riguardo la Great Chain of Being Fallacy). Per di più, siamo un po’ tutti portati a credere che le manifestazioni della personalità schizoide siano possibili precursori di una psicosi schizofrenica. Il comportamento della personalità schizoide può certamente essere simile ai primi stadi di un ritiro schizofrenico. Potremmo citare molte storie di adolescenti che passano una quantità sempre maggiore di tempo nella loro stanza, che si chiudono nella loro vita immaginaria e, alla fine, divengono apertamente psicotici. Personalità schizoidi e schizofrenia possono in realtà essere molto vicini. Ricerche recenti sui disordini schizofrenici hanno identificato disposizioni genetiche suscettibili di sfociare in un ampio spettro di patologie: dai casi di schizofrenia grave alle normali personalità schizoidi (Weinberger, 2004). D’altra parte esistono molte persone diagnosticate come schizofreniche la cui personalità prima della manifestazione della sindrome era soprattutto isterica o ossessiva o depressa o narcisistica. Un’altra possibile spiegazione dell’associazione tra schizoidi e patologia grave è che molti schizoidi sentono un’affinità con le persone che presentano disordini psicotici. Un mio collega, che si autodefinisce schizoide, preferisce lavorare con persone con disturbi psicotici per farli diventare “sanamente nevrotici” perché ritiene “disonesti” (cioè “difesi”) coloro che hanno disturbi nevrotici, mentre percepisce gli psicotici più disponibili a una piena e autentica lotta con i loro demoni. Sembra, da varie fonti, che alcuni autorevoli studiosi, come Jung e Sullivan, che hanno dato un valido apporto alla costruzione di teorie della personalità, non solo hanno rivelato di essere schizoidi, ma hanno anche avuto durante la vita uno o più brevi episodi psicotici, pur non essendosi mai trasformati in una condizione schizofrenica stabile. Michael Eigen (1998: 18) ha descritto una breve esperienza personale di angoscia psicotica, seguita da un momento di felicità su cui si è innestata una capacità di jouissance che non lo ha più abbandonato. Si può dedurre con sicurezza che la capacità di questi analisti di occuparsi dell’esperienza soggettiva di pazienti seriamente disturbati abbia molto a che fare con il contatto che riescono ad instaurare con la loro potenziale follia. Anche gli schizoidi la cui operatività è buona e che appaiono emotivamente sicuri possono essere preoccupati della propria salute mentale. Un mio caro amico si sentì scombussolato vedendo il film A beautiful mind, che descrive la lenta discesa nella psicosi di John Nash, un brillante matematico. Il film cattura gli spettatori trascinandoli nel mondo illusorio di Nash, rivelando solo dopo che ciò che lo spettatore ha visto era frutto delle allucinazioni di Nash e che i suoi processi di pensiero si erano spostati da una genialità creativa alla confabulazione psicotica. Il mio amico entrò in ansia e comprese che, come Nash, non sempre discriminava tra i momenti in cui stabiliva connessioni creative tra due fenomeni reali solo apparentemente non legati e i momenti in cui stabiliva connessioni illusorie. Parlò di questa sua ansia al suo analista, anche lui per alcuni aspetti schizoide, e la tranquilla risposta dell’analista alla descrizione di quanto poco potesse fidarsi della sua mente, fu: “Sì, parlamene”. Nella seconda parte della mia relazione sulle implicazioni del trattamento, chiarirò perché penso che questo intervento sia sensibile e corretto, anche se da un punto di vista analitico sembra del tutto inadeguato. Nonostante i supposti legami tra funzionamento schizoide e vulnerabilità psicotica, sono stata ripetutamente colpita dal fatto che una personalità schizoide è in genere altamente creativa, individualmente soddisfatta e socialmente valida e che, nonostante ciò che Freud chiamava processi primari, essa non presenti quasi mai un serio rischio di rotture psicotiche. Le arti, le scienze e le discipline filosofiche e spirituali sembrano contare un’elevata percentuale di persone schizoidi. Lo stesso vale per la psicoanalisi. Harold Davies (comunicazione personale) sostiene che Harry Guntrip una volta gli disse che “la psicoanalisi è una professione di schizoidi per schizoidi”. Le ricerche empiriche sulla personalità degli psicoterapeuti attualmente in corso presso l’Università Macquarie di Sydney in Australia hanno messo in luce che la personalità tipica tra le terapeute donne sia quella depressa, mentre tra gli uomini predomina quella schizoide (Judith Hale, comunicazione personale). La mia spiegazione di questo dato è che le persone schizoidi meno disturbate non sono sorprese o sconcertate dall’inconscio. Sono persone che hanno un’intima, seppur a volte scomoda familiarità con processi che per altri sono inconsapevoli, un accesso all’inconscio che rende più accessibile e vicina al senso comune l’ottica psicoanalitica, più di quanto comunque lo sia per chi spende anni sul lettino, aprendosi la strada a colpi di accetta attraverso la rimozione, per arrivare a conoscere i propri impulsi, fantasie e sentimenti. Le persone schizoidi sono portate all’introspezione per temperamento. Amano perdersi nei meandri della mente e su questo la psicoanalisi li raggiunge offrendo loro metafore suggestive. Inoltre, l’analisi e la terapia psicoanalitica permettono un’analisi avvincente della chiusura e della distanza tipiche della personalità schizoide (cf. Wheelis, 1956). Sono sempre stata attratta dagli schizoidi, infatti la maggior parte dei miei amici più intimi rientra in questa categoria. Un’attrazione che certamente ha a che vedere con alcuni miei aspetti dinamici, che, come dirò, tendono alla depressione e all’isteria. Un po’ di anni fa alcuni rimandi inaspettati al mio libro sulla diagnosi mi hanno affascinato (McWilliams, 1994). Sono stata avvicinata da persone che dicono di aver trovato utile un particolare capitolo per la comprensione di alcuni tipi di personalità o nel lavoro con un certo paziente o addirittura una chiara descrizione dei loro aspetti dinamici, ma niente di simile è mai successo per la parte dedicata alla personalità schizoide. Mi capita invece di essere avvicinata, dopo una conferenza o un workshop, da qualcuno (spesso seduto silenziosamente in fondo alla sala, vicino alla porta), che, assicurandosi di non darmi fastidio, dice: “Volevo ringraziarla per il suo capitolo sulla personalità schizoide. Lei ci ha capiti”. Mi colpisce in espressioni come queste, al di là del fatto che esprimano più una gratitudine personale che non un elogio professionale, l’uso del plurale “noi”. Mi chiedevo ultimamente se la categoria degli schizoidi non sia da accostare alle minoranze sessuali. Mi chiedevo, cioè, se queste persone non temano di essere considerati “devianti”, “malati” o “con disturbi del comportamento” da coloro che si ritengono “normali” solo perché sono una minoranza. Gli operatori della salute mentale parlano a volte di loro con lo stesso tono che usano per le persone omosessuali, lesbiche, bisessuali e transessuali. Esiste purtroppo una tendenza ad equiparare aspetti dinamici e patologia e a classificare negativamente chi entra in analisi per problemi di personalità. Il timore dello schizoide di venire stigmatizzato ha senso nella misura in cui, inconsciamente, ci rinforziamo a vicenda nell’idea che la psicologia tradizionale è di fondo normativa e che quindi le eccezioni vanno considerate patologiche. Potremmo anche essere convinti che esistono differenze significative tra le persone, date da fattori psicodinamici, aspetti costituzionali, esperienziali e contestuali, ma in realtà queste differenze non fanno le persone né migliori né peggiori in termini di salute mentale. Certo, questa tendenza a catalogare le differenze in gerarchie di valori ha motivi profondi, ma non è giusto che le minoranze siano sempre relegate al rango più basso di tali gerarchie. Riprendo ora il significato del “noi”. Le persone schizoidi si riconoscono tra di loro, si sentono membri di un gruppo. Un mio amico che tendeva ad isolarsi parlava di “una comunità di solitari”. Come gli omosessuali, gli schizoidi si riconoscono l’un l’altro nella folla. Nonostante tendano all’isolamento e raramente verbalizzino le affinità o esplicitino il reciproco riconoscimento, li ho sovente sentiti descriversi con un senso di profonda e compassionevole affinità. Per fortuna alcuni libri recenti li stanno presentando come normali e arrivano persino a valorizzarne alcune caratteristiche come l’estrema sensibilità (Aron, 1996), l’introversione (Laney, 2002) e la preferenza per la solitudine (Rufus, 2003). Un mio amico schizoide doveva partecipare a un seminario con alcuni compagni di classe e vi si stava recando con un insegnante che egli sospettava fosse schizoide. Passando dall’ufficio, videro una foto di Coney Island d’estate che rappresentava la spiaggia con una folla di persone così numerosa che la sabbia era difficilmente visibile. L’insegnante diede un’occhiata al mio amico e, indicando la foto, fece un gesto che indicava orrore ed evitamento. Il mio amico spalancò gli occhi e assentì. Si erano capiti. Come definire la personalità schizoide? Il mio impiego del termine schizoide fa riferimento ai teorici delle Relazioni oggettuali britannici, e non al DSM (vedi Akhtar, 1992: 139; Doige, 2001: 284; Gabbard, 1994: 431; Guntrip, 1969). Il DSM stabilisce arbitrariamente e senza basi empiriche una differenza tra la personalità schizoide e la personalità evitante (Shedler e Western, 2004), sostenendo che il disturbo di personalità evitante presenta un desiderio di vicinanza, nonostante il tratto della presa di distanza, mentre il disturbo schizoide di personalità presenterebbe un’indifferenza alla vicinanza. Personalmente non ho mai incontrato nessun malato mentale, ma anche nessuna persona sana, che non vivesse il ritiro in modo conflittuale (cf. Kernberg, 1984). Siamo animali in cerca di attaccamento. Il distacco degli schizoidi rappresenta una strategia difensiva di ritiro dalla sovrastimolazione, dalla pressione traumatica e dall’invalidazione. Non dovrebbe essere preso per come appare, per grave possa sembrare. Esistono molti resoconti di persone ritirate anche a livello catatonico, del tempo in cui i pionieri della psicoanalisi lavoravano con pazienti psicotici privatamente, non trattati in centri come Chestnut Lodge e prima della scoperta dei neurolettici, che uscivano dal loro isolamento quando si sentivano abbastanza sicuri da tollerare un contatto umano. Famoso il caso di Frieda Fromm-Reichmann che, a quanto viene riferito, sedeva tranquillamente per un’ora al giorno accanto a un suo paziente schizofrenico catatonico, facendo di tanto in tanto delle osservazioni su quanto stava succedendo in corsia e su quali potessero essere i sentimenti del paziente. Dopo quasi un anno di questi incontri quotidiani, il paziente bruscamente si girò verso di lei e disse di non essere d’accordo con qualcosa che lei aveva detto diversi mesi prima. L’uso psicoanalitico del termine schizoide è collegato all’osservazione di “scissioni” tra la vita interiore e la vita osservabile (cfr. Laing, 1965). Per esempio, le persone schizoidi, appaiono senza ombra di dubbio distaccate, ma in terapia esprimono un grande desiderio di vicinanza e profonde fantasie di intimo coinvolgimento. Appaiono autosufficienti, ma chiunque riesca a entrare nel loro mondo conosce la profondità del loro bisogno emotivo. Possono essere distratti, ed essere allo stesso tempo profondamente vigili. Possono non sembrare reattivi, eppure soffrono per la loro grande sensibilità. Possono sembrare affettivamente ottusi, ma in realtà stanno internamente destreggiandosi con quello che uno dei miei amici schizoidi chiamava “proto-affetto”, ovvero la sensazione di essere sopraffatti da intense emozioni. Possono sembrare indifferenti al sesso, e invece alimentano frequenti fantasie di una sessualità molto variegata. Possono colpire per la loro insolita sensibilità, ma chi li conosce intimamente sa che nutrono elaborate fantasie di distruzione del mondo. Il termine schizoide può essere stato anche influenzato dalla frammentazione, la confusione e l’andare in pezzi, indici dell’angoscia tipica delle persone schizoidi. Tutti loro si sentono troppo vulnerabili nei confronti di un’incontrollabile scissione di sé. Ho ascoltato numerosi schizoidi descrivere le loro soluzioni personali al pericolo della frammentazione come avvolgersi in uno scialle, dondolarsi, rimuginare, vestire un cappotto a rovescio, rifugiarsi in un armadio e altre simili modalità di auto-conforto, tutte fondate sulla convinzione che gli altri più che rassicuranti siano sconvolgenti. Negli schizoidi l’angoscia di annichilimento è più comune dell’angoscia di separazione e quelli più gravi possono anche soffrire occasionalmente di terrori psicotici come la sensazione di rimanere senza la terra sotto i piedi perché il mondo potrebbe implodere o essere inondato o crollare a pezzi. L’urgenza di proteggere un nucleo inviolabile di sé può essere a volte molto profonda (Elkin, 1972; Eigen, 1973). Essendomi formata sul modello della psicologia dell’Io, ho trovato vantaggioso pensare alla personalità schizoide come definita dal fondamentale e costante meccanismo difensivo del ritiro. Un ritiro che può essere concreto, come nel caso di quel signore che si ritirava nella sua “tana” o in luoghi isolati tutte le volte che il mondo diventava “troppo” oppure può essere interiore, come nel caso di quella donna che sembrava apparentemente presente, mentre di fatto si sentiva risucchiata da fantasie e preoccupazioni interne. I teorici delle Relazioni oggettuali sottolineano la presenza negli schizoidi di un conflitto nucleare tra vicinanza e distanza interpersonale, un conflitto che di norma trova soluzione nella distanza fisica (Fairbairn, 1940; Guntrip, 1969) e, in coloro che stanno un po’ meglio, una significativa oscillazione tra connessione e disconnessione. Guntrip (1969, p. 36) ha coniato l’espressione “dentro e fuori programma” per descrivere la ricerca dello schizoide di rapporti affettivi intensi seguita da una presa di distanza per salvare il senso di sé minacciato dall’intensità. Sospetto che una delle ragioni per cui trovo simpatiche le persone con dinamiche schizoidi sia che questo ritiro si presenta come una difesa “primaria”, globale, circoscritta (Laughlin, 1979; Valliant, Bond e Valliant, 1986), molto diversa dall’uso di processi difensivi più distorcenti, fondati sulla rimozione e, per così dire, “più maturi”. Quando uno schizoide “va fuori di testa”, fisicamente o psicologicamente, non usa la negazione o lo spostamento o la formazione reattiva o la razionalizzazione per cui gli affetti, le immagini, le idee e gli impulsi che le persone non schizoidi tendono a tener fuori dalla loro coscienza sono nel loro caso liberamente disponibili. Una disponibilità così emotivamente onesta da colpire me, e forse anche altri, per un candore che lascia senza fiato. Come si diventa così? Ho già scritto della possibile etiologia delle dinamiche schizoidi (Mc Williams, 1994) per cui in questa relazione preferirei rimanere al livello fenomenologico, ma permettetemi comunque di dire qualcosa sulla complessa etiologia della personalità schizoide. Rimango sempre più colpita da ciò che ritengo un aspetto costituzionale della personalità schizoide: un temperamento sensibile, evidente fin dalla nascita, probabilmente influenzato da una disposizione genetica. Sospetto che un’espressione di questa eredità genetica sia un livello di sensibilità, nel suo significato positivo e negativo (vedi Eigen, 2004), molto più acuto e penoso di quello della maggior parte delle persone non schizoidi. Una sensibilità che si manifesta progressivamente con il rifiuto di esperienze ritenute troppo schiaccianti, troppo penetranti, troppo invadenti. Diverse persone, autodiagnosticatesi schizoidi, mi hanno riferito che la loro madre ricordava come da neonati rifiutassero il seno o come, quando venivano accudite e abbracciate, si allontanassero da una stimolazione ritenuta eccessiva. Uno dei miei amici mi ha confidato che la sua metafora interiore per esprimere l’accudimento fosse “colonizzazione”, un termine che evoca lo sfruttamento di un innocente da parte di un intrusivo potere assoluto. Correlata con questa immagine c’è la profonda preoccupazione per il latte cattivo e velenoso e il nutrimento tossico che caratterizza comunemente gli schizoidi. Una delle mie amiche più schizoidi una volta, mentre stavamo pranzando in una rosticceria, mi chiese: “A che serve questa cannuccia? Perché alle persone piace bere attraverso la cannuccia?” “Ricorda il succhiare” suggerii io. “Puah!”. Esclamò lei. Gli schizoidi sono frequentemente descritti dai familiari come ipersensibili o di “pelle sottile”. Doidge (2001) sottolinea la loro “iper-permeabilità” ossia la loro sensazione di essere senza pelle e privi di una adeguata barriera agli stimoli e nota una prevalenza di immagini di ferite alla pelle nella loro vita fantasmatica. Già dal 1949, Bergman ed Escalona osservarono che alcuni bambini mostrano, fin dall’infanzia, un’acuta sensibilità alla luce, ai suoni, al contatto, all’odore, al gusto, al movimento e al tono emotivo. Più di una persona schizoide mi ha detto che la favola preferita dell’infanzia era “La Principessa sul Pisello”. La loro sensazione di essere facilmente fagocitati dagli altri è frequentemente espressa con il timore di essere inghiottiti, con la paura di ragni, serpenti ed altri divoratori e con la preoccupazione di essere sotterrati vivi, come succedeva a Edgar Allan-Poe. A complicare l’adattamento ad un mondo percepito come troppo ricco di stimoli e troppo sollecitante, c’è l’esperienza di essere invalidati e avvelenati dagli altri. La maggior parte dei miei pazienti schizoidi ricorda che gli è stato detto da genitori esasperati che erano “ipersensibili” o “impossibili” o “troppo difficili” o che “facevano di un moscerino un elefante”. Le loro esperienze dolorose vengono ripetutamente disconfermate dai caregiver che, a causa del loro temperamento diverso rispetto a quello degli altri figli, non riescono ad identificarsi con la loro estrema sensibilità e perciò li trattano con impazienza e anche con scherno. L’affermazione di Khan (1963) che i bambini schizoidi mostrano gli effetti di un “trauma cumulativo” è un modo di descrivere queste ricorrenti disconferme. È facile quindi dedurre che il ritiro diventi la loro soluzione adattiva preferita: non solo il mondo esterno è troppo per il loro livello di sensibilità, ma invalida la loro esperienza, esige comportamenti atrocemente difficili e li tratta da pazzi per le reazioni che non riescono a controllare. Riferendosi al lavoro di Fairbairn, Doidge (2001), in un’affascinante analisi dei temi schizoidi del film Il Paziente inglese, sintetizza nel seguente modo la situazione dell’infanzia dello schizoide: “I bambini (…) sviluppano l’immagine di genitori allettanti, ma rifiutanti (…) ai quali sono disperatamente attaccati. Sono genitori spesso incapaci di amare o troppo presi dal soddisfare i propri bisogni. Il bambino viene ricompensato quando non chiede e viene svalutato o ridicolizzato come esigente se solo esprime dipendenza. Perciò, il quadro del “buon” comportamento del bambino è distorto. Il bambino impara a non infastidire o a non desiderare l’amore, poiché ciò renderebbe i genitori più distanti e ipercritici. Può allora coprire il suo senso di solitudine, di vuoto e inadeguatezza con la fantasia (spesso inconscia) di autosufficienza. Fairbairn pensa che la tragedia dei bambini schizoidi sia che “essi credono che sia l’amore e non l’odio la forza distruttiva interna. È l’amore che distrugge. Così, la più importante operazione mentale del bambino schizoide sarà quella di reprimere il normale desiderio di essere amato” (Doidge, 2001: 285- 286). Descrivendo il problema centrale di uno di tali bambini, Seinfeld (1993: 3) scrive che “lo schizoide ha un bisogno intenso di dipendenza dall’oggetto, ma l’attaccamento minaccia lo schizoide con la perdita di sé”. Questo conflitto interno, al di là delle diverse sfumature con cui viene presentato, è al centro della teorizzazione psicoanalitica della struttura di personalità schizoide. Alcuni aspetti poco noti della personalità schizoide 1. Reazioni alla perdita e alla separazione Le persone non schizoidi, tra cui presumibilmente gli autori del DSM e molti altri appartenenti alla corrente della psichiatria descrittiva, spesso arrivano alla conclusione che, poiché gli schizoidi risolvono i loro conflitti di vicinanza/distanza con la scelta dell’allontanamento e sembrano trovarsi meglio stando soli, non sono particolarmente sensibili all’attaccamento e quindi non reagiscono alla separazione. Gli schizoidi invece possono interiormente avvertire un intenso bisogno di attaccamento. Il loro attaccamento può essere più intenso di quello di persone con personalità più “analitiche”. Poiché gli schizoidi tendono a sentirsi al sicuro e a loro agio con poche persone, qualsiasi minaccia o perdita di questi rapporti può essere devastante. Se esistono solo tre persone da cui ci si sente davvero voluti bene e uno di loro viene a mancare, allora si può dire che un terzo del proprio sistema di supporto è stato eliminato. In effetti, il motivo più comune per cui le persone schizoidi chiedono un trattamento è la perdita. Un’altra preoccupazione è la solitudine. Come sostiene Fromm-Reichmann (1959/1990), la solitudine è un’esperienza emotiva dolorosa stranamente poco esplorata nella letteratura scientifica. Che gli schizoidi tendano al distacco e alla solitudine non prova che siano immuni dalla solitudine, non più di quanto l’evitamento dell’affetto di un ossessivo significhi che sia indifferente alle emozioni forti o di quanto la vischiosità di un depresso denoti l’assenza di un desiderio di autonomia. Gli schizoidi possono richiedere il trattamento perché, come sottolinea Guntrip (1969), si sono allontanati a tal punto dalle relazioni significative che si sentono deboli, inutili e morti. Oppure vengono in terapia con uno scopo specifico: riuscire a prendere un appuntamento, diventare più socievoli, iniziare o migliorare una relazione sessuale, vincere quella che essi chiamano “la fobia sociale”. 2. Sensibilità ai sentimenti inconsci altrui Probabilmente, poiché non hanno difese rispetto ai loro pensieri, sentimenti ed impulsi più arcaici, gli schizoidi hanno una straordinaria sintonia con i processi inconsci degli altri. Quello che per loro è ovvio è spesso invisibile a persone meno schizoidi. Molte volte ho pensato di comportarmi in modo non comprensibile o non diversamente da come mi comportavo gli altri giorni, solo perché un amico o paziente schizoide mi metteva di fronte al mio stato mentale di ovvietà. Nel mio libro sulla psicoterapia (McWilliams, 2004) ho raccontato la storia di una paziente schizoide, una donna che aveva un attaccamento profondo con gli animali, che fu la sola fra i miei pazienti a rendersi conto che qualcosa mi preoccupava la settimana dopo che mi era stato diagnosticato un cancro al seno, mentre cercavo di tenere per me quella notizia fino all’intervento chirurgico. Una sera, in cui aspettavo con gioia il fine settimana che avrei trascorso con un vecchio amico, una paziente schizoide venne in seduta, mi lanciò uno sguardo e, nonostante pensassi che il mio comportamento fosse quello abituale, ossia professionale, mentre ero sul punto di sedermi, mi disse: “Bene! Siamo proprio felici stasera!” C’è un aspetto problematico raramente preso in considerazione che spesso coinvolge gli schizoidi a causa della loro sensibilità ai rapporti interpersonali: si tratta di quelle situazioni in cui essi, più degli altri, percepiscono ciò che non viene detto. È probabile che lo schizoide abbia appreso dalla propria storia dolorosa di disapprovazione parentale e di gaffes sociali che una parte di ciò che egli vede è evidente a tutti, mentre altri aspetti percepiti da lui non lo sono. E, dal momento che vede i segreti di tutti, lo schizoide non sa di che cosa si possa parlare o che cosa sia sconveniente rivelare o sapere. Perciò, una parte del ritiro dello schizoide può rappresentare non tanto un automatico meccanismo di difesa, quanto una valutazione cosciente del valore dell’evitamento. Questa situazione è certamente dolorosa. Se nella stanza c’è il proverbiale elefante, lo schizoide comincia a chiedersi perché mai si debba intrattenere una conversazione rispettando ciò che l’altro disconosce. Gli schizoidi mancano di normali difese di rimozione, trovando di conseguenza difficile capire perché gli altri rimuovano. Quindi, essi si chiedono “Come faccio a portare avanti questa conversazione senza parlare di quello che so essere vero?”. In questa esperienza del non detto/non dicibile ci può anche essere qualcosa di paranoico: forse gli altri sono consapevoli dell’elefante e hanno deciso di non parlarne. “Qual è il pericolo che loro percepiscono ed io no?” O forse sono davvero inconsapevoli dell’elefante e in questo caso la loro ingenuità o ignoranza può essere ugualmente pericolosa. Kerry Gordon (manoscritto inedito) nota che la persona schizoide vive nel mondo delle possibilità e non delle probabilità. Come i pattern ripetitivi finiscono in un cerchio vizioso, gli schizoidi si confermano da soli nel ritiro schizoide aumentando in questo modo la tendenza a rimanere nel processo primario e in un ritiro sempre maggiore. 3. Il senso di unità con l’universo Si è detto spesso che gli schizoidi hanno come loro tratto distintivo fantasie difensive di onnipotenza. Per esempio, Doidge (2001: 288) riferisce di un paziente apparentemente collaborativo il quale “soltanto in analisi svelò di avere costantemente una fantasia onnipotente di controllare qualsiasi cosa dicessi”. Il senso di onnipotenza degli schizoidi differisce tuttavia da quello delle persone narcisistiche, psicopatiche, paranoiche o ossessive. Piuttosto che attestarsi su immagini di sé grandiose o mantenere un ferreo controllo, gli schizoidi tendono a instaurare con il loro ambiente un tipo di relazione profonda e reciproca. Possono pensare, per esempio, che i loro pensieri influenzano l’ambiente, così come l’ambiente influisce sui loro pensieri. E questo è molto di più di un’assunzione organica e sintonica di una difesa autosoddisfacente (cfr. gli scritti di Khan [1996] sull’onnipotenza simbiotica). Gordon (manoscritto inedito) ha presentato questo tipo di relazione più come “onnipresenza” che onnipotenza, correlandola con la nozione di pensiero simmetrico di Matte-Blanco (1975). Mi colpisce che ciò che gli schizoidi provano sia un sentimento, che potremmo definire esistenziale, di mancanza di differenziazione o di elaborazione di sé. Ritengo anch’io che si debba parlare più di un senso di fusione primaria, dell’”armoniosa fusione pervasiva” di Balint (1968) che non di onnipotenza. In letteratura, vengono affrontati i motivi per cui questi legami sono diventati disarmonici e negativi. Doidge (2001) fa notare quanto l’opera di Samuel Beckett risuoni di temi schizoidi e sottolinea la sua affermazione di non essere mai nato. Un terapeuta, in una conferenza sulla personalità schizoide, affermò che gli schizoidi, che vivono in un mondo in cui i loro corpi non sono più reali di quelli di coloro che li circondano, non sono “sufficientemente incarnati”. Questo senso di fusione con l’ambiente può portare ad animare l’inanimato. È risaputo che Einstein parlava della sua identificazione con le particelle per poterne capire la loro natura. Abitualmente, la tendenza a sentire una parentela con le cose, è spiegata come conseguenza dell’allontanamento dalle persone, ma potrebbe anche essere dovuta al riemergere di un’attitudine animistica che la maggior parte di noi riscontra solo nei sogni o in vaghe memorie del pensiero infantile. Una volta, mentre stavamo mangiando insieme dei muffins, una mia amica commentò “Sto andando bene, l’uvetta non mi dà più fastidio”. Chiesi che cosa ci fosse di problematico nell’uvetta: “Non è di tuo gusto?”. Lei sorrise. “Tu non capisci: potrebbero essere mosche!”. Questo aneddoto suscitò, in una collega alla quale l’avevo raccontato, un’associazione: anche al marito, che lei considerava schizoide, non piaceva l’uvetta, ma per una ragione differente: “Dice che si nasconde”. 4. Il romanzo isterico-schizoide Ho accennato alla mia attrazione per le personalità schizoidi. Quando penso a questo e rifletto sulla frequenza con cui altre donne eterosessuali con dinamiche isteriche sembrano essere attratte da uomini con tendenze schizoidi, arrivo alla conclusione che debbano esserci delle ragioni dinamiche, oltre al motivo consapevole della mia attrazione e cioè che vivo gli schizoidi come persone limpidamente oneste, che spieghino la risonanza che suscitano in me. La pratica clinica abbonda di osservazioni sulle coppie isterico- schizoidi: le loro incomprensioni, i loro problemi di inseguimento-allontanamento, l’incapacità reciproca di vedere l’altro per quello che è ossia timoroso e bisognoso, invece di vederlo forte ed esigente. Purtroppo, nonostante la nostra recente rivalutazione dei processi bipersonali, esistono pochi scritti scientifici degli aspetti intersoggettivi di personalità specifiche. Un racconto breve di Wheelis (1966/2000) The Illusionless Man and the Visionary Maid e la classica descrizione di Balint (1945) dell’ocnofilo e del filobate mi sembrano descrivere meglio l’alchimia isterico-schizoide di scritti clinici più recenti. Il più delle volte l’ammirazione tra una persona isterica ed una schizoide è reciproca. Come la donna con organizzazione isterica idealizza la capacità dell’uomo schizoide di stare da solo, “di parlare liberamente ai potenti”, di contenere l’affetto, di attingere quei livelli creativi d’immaginazione che lei può solo sognare, così lo schizoide ammira la capacità dell’isterica di stare a proprio agio con gli altri, la sua empatia, il suo garbo nell’esprimere le emozioni senza imbarazzo o vergogna, la sua capacità di utilizzare la propria creatività nei rapporti. Gli isterici e gli schizoidi si attraggono per le loro configurazioni opposte. Tendono ad idealizzarsi l’un l’altro e poi impazziscono quando le rispettive necessità di vicinanza entrano in conflitto. Doidge (2001: 286) ha mirabilmente paragonato la relazione d’amore con uno schizoide ad una controversia legale. Penso tuttavia che l’affinità tra le personalità isteriche e quelle schizoidi siano maggiori delle differenze. Entrambe possono in effetti essere descritte come ipersensibili e preoccupate del pericolo di stimoli eccessivi. Mentre lo schizoide teme di essere sopraffatto da stimolazioni esterne, l’isterico sente il pericolo di non riuscire a gestire pulsioni, impulsi, affetti e altri stati interni. I due tipi di personalità sono stati anche associati a traumi da tensione cumulativa. Sia gli uomini schizoidi che le donne isteriche hanno quasi certamente sviluppato più la parte destra che quella sinistra del cervello. Sia gli schizoidi che le isteriche tendono in famiglia a vedere il genitore del sesso opposto come il centro del potere ed entrambi si sentono interiormente invasi da lui. Entrambi provano una sensazione di fame distruttiva che lo schizoide prova ad arginare e l’isterica a sessualizzare. Credo proprio che una parte dell’incanto tra isterici e schizoidi sia basato sulle somiglianze piuttosto che sulle differenze. Implicazioni terapeutiche Le persone che presentano significative dinamiche schizoidi, almeno coloro che sono meno disturbati, più vitali e più capaci di rapporti interpersonali, sono attratti dalla psicoanalisi e dalla psicoterapia psicoanalitica. A differenza di quanto alcuni affermano, gli schizoidi non pensano, però, di sottoporsi ad interventi che attribuiscono, nel progetto terapeutico, un ruolo secondario all’esame dell’individualità e al- l’esplorazione della vita interiore. Se hanno le risorse per affrontare l’analisi, gli schizoidi meno gravi sono dei candidati eccellenti per un intervento psicoanalitico. Sono contenti di un analista che si intromette poco nei loro processi associativi, dello spazio inviolabile costituito dall’uso del divano ed apprezzano non essere sottoposti all’eccessiva stimolazione della presenza fisica dell’analista e al peso di vederlo. Anche in un’analisi a una volta a settimana vis à vis, il paziente schizoide è molto grato per l’attenzione del terapeuta ad evitare intrusioni e brusche interruzioni. E poiché essi “possiedono” il processo primario e sanno che il terapeuta ha un’adeguata preparazione personale, possono sperare che la loro vita interiore non susciterà in lui shock o critiche o disprezzo. Nonostante il fatto che i pazienti schizoidi meno disturbati accettino e apprezzino la pratica analitica tradizionale, ciò che contribuisce al successo del loro trattamento non può essere correlato all’affermazione freudiana di rendere conscio l’inconscio. Sebbene alcuni aspetti inconsci dell’esperienza schizoide legati al ritiro difensivo - in particolare il desiderio di dipendenza - emergano a coscienza in una terapia efficace, ciò che funziona con gli schizoidi è l’esperienza dell’elaborazione di sé in presenza di un altro accettante, non intrusivo e profondamente sintonizzato (Gordon, scritto inedito). La proverbiale fame degli schizoidi è, per quanto ho potuto sperimentare, essenzialmente una fame di quel riconoscimento che la Benjamin (2000) ha descritto come riconoscimento della loro soggettività. Ciò che è stato profondamente danneggiato è la capacità di impegnarsi nella lotta per tale riconoscimento e di riprenderla dopo che si è spezzata. Winnicott, che viene descritto dai biografi come profondamente schizoide, ha descritto lo sviluppo del linguaggio con modalità che si possono applicare direttamente al trattamento del paziente schizoide. La sua idea del caregiver che permette al bambino di “continuare ad essere” e di “stare solo in presenza della madre” non potrebbe essere più appropriata. Una ricetta per la terapia degli schizoidi potrebbe essere l’importanza che egli dà all’ambiente facilitante in cui gli altri non siano oppositivi, ma valorizzino il vero e vitale sé invece di sostenere l’accomodamento collusivo alle difese degli altri. La tecnica convenzionale è molto adatta ai pazienti schizoidi meno gravi, perché, a meno che il terapeuta non senta la necessità narcisistica di bombardare l’analizzando di interpretazioni, la pratica analitica classica offre allo schizoide lo spazio di sentire e parlare ad un ritmo tollerabile. Tuttavia, nella letteratura clinica è stata data una particolare attenzione alle richieste di quei pazienti schizoidi che hanno bisogno di qualcosa che vada oltre la tecnica standard. Primo punto, dal momento che parlare col cuore in mano può essere per lo schizoide oltremodo penoso e che parlare con immediatezza emotiva può essere altrettanto opprimente, la relazione terapeutica può essere favorita dalla comunicazione dei sentimenti attraverso modalità transizionali. Lo schizoide che non riesce a descrivere direttamente l’angoscia di isolamento può più facilmente parlarne attraverso un film, un poema o un racconto. I terapeuti che lavorando con pazienti schizoidi fanno uso dell’empatia si ritrovano spesso a iniziare o a condividere conversazioni sulla musica, le arti visive, le arti drammatiche, la letteratura, le scoperte antropologiche, gli eventi storici o riflessioni di carattere religioso e spirituale. Diversamente dai pazienti ossessivi che evitano le emozioni con le intellettualizzazioni, i pazienti schizoidi possono riuscire ad esprimere l’affetto veicolandolo attraverso discorsi intellettuali. A motivo di questa funzione transizionale, le terapie artistiche sono state a lungo considerate particolarmente adatte a questo tipo di pazienti. Secondo punto. Nei resoconti clinici, scritti da autori dotati di una certa sensibilità, è stato anche sottolineato quanto gli schizoidi siano sensibili ai sotterfugi, al gioco dei ruoli e alle note stonate. Per questa ed altre ragioni può dimostrarsi necessario nella terapia essere “realistici”. A differenza dei pazienti che utilizzano avidamente le informazioni riguardanti il terapeuta facendo domande intrusive per alimentare l’idealizzazione o la svalutazione nei suoi confronti, il paziente schizoide tende ad accettare con gratitudine le aperture dell’analista e a rispettarne lo spazio privato. Robbins (1991), nell’esposizione di un suo caso clinico, ci offre un bell’esempio della sensibilità di una sua paziente ai temi transizionali e della sua
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