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La manutenzione delle norme nell'Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle PDF

26 Pages·2012·0.25 MB·Italian
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FRANCESCO DI DONATO STUDI parlamentari e di politica costituzionale Anno 43 – N. 170 4° trimestre 2010 La manutenzione delle norme nell’Antico Regime. Ragioni pratiche e teorie giuspolitiche nelle società pre-rivoluzionarie “Les meilleures lois se corrompent avec le temps” (1). 1. Polisemie lessicali e polivocità giuridiche Derivata dal latino medievale manutentiōne(m), variante composta del latino manu(con la mano) e tenēre, la parola “manutenzione” indica il “man- tenimento” e la “conservazione in buono stato, in condizioni di efficienza e funzionalità” di un bene, nonché “il complesso delle operazioni che si devo- no eseguire a tale scopo” (2). Nelle principali lingue europee la semantica non ha sempre seguito la radice originaria: in francese l’idea della cura di un oggetto o di una proprietà immobiliare è resa con un sobrio entretien(la stessa parola che sta per “colloquio”); l’inglese, com’è di regola nelle paro- le della lingua colta, segue il francese antico e risolve con maintenance, che significa anche “sostentamento”, “aiuto” e “sostegno”. Lo spagnolo, invece, ha tre forme: una, manutención, simile all’italiano, che significa anche “man- tenimento” e “conservazione”; un’altra simile al francese, entretenimiento, (1) F. OLIVIER-MARTIN, Les lois du Roi, LGDJ, Paris, 1997 (ristampa dell’ed. Loysel, Paris, 1988), p. 211. (2) G. DEVOTO,G. C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, ediz. 1990; T. DEMAURO, Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, Utet, 2000. 36 FRANCESCO DI DONATO che significa anche “divertimento”, “passatempo” e “mantenimento di per- sone”; e una terza più rara, affine all’inglese, mantenimiento, che significa per lo più “sostegno”, “alimento” e, al plurale, “viveri”, “vettovaglie”; ha poi anche il verbo manutener. Nel linguaggio strettamente tecnico-giuridico, specialmente nel campo del diritto civile, la “manutenzione” è propriamente “il diritto di reagire contro una molestia che incide sul possesso legittimo di un bene” (3). Essa manifesta quindi la volontà di un soggetto proprietario di conservare un bene-oggetto e di prendersene cura difendendo tale proprietà e possesso dalla rivendica giudiziale o dal tentativo altrui d’impossessarsene per le vie di fatto. Intrinseco al termine è dunque un senso di movimento, un darsi- da-fare utilizzando tutti i mezzi legittimi per impedire la degenerazione di una situazione favorevole in una sfavorevole. E così nella “manutenzione” vi è anche – sottesa – l’idea di prevenzione, l’idea cioè che sia necessario anticipare gli effetti negativi che possono derivare dall’invecchiamento di un sistema attraverso una previsione ragionata e il più possibile razionale tanto dei processi degenerativi quanto dei rimedi che possono essere util- mente adottati per farvi fronte. Nella lingua italiana pura, mentre vi sono alcuni sostantivi e aggettivi derivati (“manutentore”, “manutentivo”), non esiste il verbo corrispondente (“manutenere”), che invece compare nei dizionari dell’uso (4), il che indica un’esigenza predicativa crescente nella vita quotidiana in ordine all’attività di cura: un segno, nella società dell’indifferenza, dell’espansione sommersa del- l’heideggeriano “prendersi cura” come dimensione esistenziale e qualificativa del Dasein(5), nell’infinito sottobosco delle relazioni affettive ed effettive (6)? Lasciamo in sospeso questa domanda e spostiamo l’attenzione su un altro piano concettuale, peraltro inevitabilmente collegato al “peso seman- tico” appena delineato (7): se riferita al diritto e in particolare alla produ- zione delle norme giuridiche (il life-cycle of regulation (8)), l’idea della “manutenzione” assume un immediato ed evidente significato (teor)etico e, (3) Ibid. (4) Ibid. (5) L’idea dell’esperienza esistenziale umana intesa come “cura” (Sorge), “aver cura [di persone]” (Fürsorge) e “prendersi cura [di cose]” (Besorgen), fu elaborata, com’è noto, da M. HEIDEGGER, Essere e tempo [1927], trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, VI edizione, spec. pp. 81, 227 ss., 365 ss. (6) Per questo concetto, fondamentale nel campo delle scienze sociali, di “relazioni effettive”, cfr. R. MOUSNIER, La costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, a cura di chi scrive, Napoli, Esi, 2002, pp. 5, 7 e 153. (7) Sulla stretta interdipendenza tra “peso semantico” e analisi dei concetti, cfr. G. SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 83-86 e soprattutto pp. 143-214. (8) Cfr. M. DEBENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 47ss.: 50-53 e 198. LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 37 nel contempo, politico sotteso all’indispensabile veste tecnico-giuridica. Prendersi cura di un ordinamento giuridico implica, infatti, l’idea che i sistemi normativi di questo tipo non vivono – come le piante grasse nel deserto – senza una continua e paziente opera di aggiornamento (9); il che implica, come nel lavoro dei campi, rinnovamento dei germogli, soppres- sione dei rami secchi ed estirpazione dei rovi e delle erbacce, potatura periodica, piantagione di nuove sementi e scelta (politica, ossia discrezio- nale) di quali debbano essere e dove debbano essere piantate. Ora, se la vita degli ordinamenti giuridici è pari a quella di ogni materia organica, ciò non solo implica l’idea di una dinamica transeunte ed evolutiva, ma comporta anche la negazione di ogni Verbumdefinitivo, di ogni ontologi- smo normativo, in definitiva di ogni idea di Verità. Se il diritto vive mutando, come ogni corpo vivente, bisogna ammettere che esso può morire e anzi che di regola morirà un giorno seguendo il suo ciclo naturale. Le sue cellule (le sin- gole norme) sono sottoposte alla legge della “grande catena dell’essere” (10), in base alla quale al ciclo vitale di una segue la sua fine e la sua sostituzione con altre cellule-norme nuove che a loro volta saranno soggette alla caducità progressiva. Chiunque operi nel campo giuridico sa perfettamente, perché lo sperimenta nell’attività diuturna, che a dispetto del suo intrinseco e naturale rigore – indispensabile per diffondere nella psicologia sociale l’idea della cer- tezza giuridica e, nelle società democratiche, il senso dell’eguaglianza dinanzi alla legge – il diritto è in realtà un “flessibile diritto” (11). Questo significa, in definitiva, due cose: per un verso, che la “manu- tenzione” delle norme ha come scopo ultimo e fondamentale l’eliminazione o quantomeno la riduzione del rischio di eterogenesi dei fini nel percorso che va dalla formulazione della norma alla sua attuazione concreta, con la produzione di effetti che possono non corrispondere all’intenzione del legi - slatore e per certi versi possono addirittura essere del tutto opposti a quel- la (12).Per un altro verso, il discorso appena delineato implica che l’idea stes- (9) Ivi, pp. 197-198: la “concezione di manutenzione” delle norme giuridiche è ormai generalmente intesa non più come un “rimedio (rispetto a una patologia, come l’impossibilità di accedere alle regole, la necessità di correggerle, la necessità di riformarle)”, ma piuttosto come una “vera e propria funzione (parte essenziale del ciclo della regolazione)”. (10) Mutuo l’espressione dal classico di A. O. LOVEJOY, La grande catena dell’essere, trad. it. di L. Formigari, Milano, Feltrinelli, 1966. (11) Cfr.J. CARBONNIER, Flessibile diritto. Per una sociologia del diritto senza rigore, trad. it. di A. De Vita, Milano, Giuffrè, 1997. (12) Sull’eterogenesi dei fini e il suo impatto sul fenomeno giuridico, mi sia consentito rinviare al mio La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla civilizzazione istituzionale europea, Bologna, Il Mulino, 2010, ad indicem. Molto opportunamente M. DE BENEDETTO, Manutenzione delle regole, in M. DE BENEDETTO, M. MARTELLI, N. RANGONE, La qualità delle regole, cit., p. 101, sottolinea come la manutenzione abbia “lo scopo di assicurare specificamente la persistente adeguatezza della regola rispetto agli obiettivi della regolazione”; altre considerazioni molto acute sul punto ivi, pp. 197 ss. Su questo punto, cfr. infra, nota 36 e testo corrispondente. 38 FRANCESCO DI DONATO sa di “manutenzione” delle norme e dei sistemi che le raggruppano (13) determina il superamento della fallacia idealistica e richiede l’accettazione (tutt’altro che semplice per i giuristi) dello sfasamento tra fatti e valori, tra essere e dover (o voler) essere, tra realtà e normatività (14). A questo medesi- mo discorso è sottesa altresì l’idea che il diritto è orientato per sua natura a delineare un mondo diverso da quello che esiste, poiché la volontà nomoteti- ca che lo alimenta ritiene lo status quo(sia quello della realtà sociale sia quel- lo della realtà giuridico-normativa) sempre insoddisfacente e perfettibile (15). 2. La tensione essenziale delle norme: valori contro fatti Senonché quest’idea del mutamento perenne contrasta radicalmente con l’esigenza che sta al fondo del fenomeno giuridico: la necessità di dare un ordine stabile al caos delle relazioni umane (16). Antropologicamente il diritto nasce come strumento normativo determinato dall’esigenza di stabi- lire delle regole riconosciute da tutti e che servano per garantire certezza alle relazioni sociali. E così è indispensabile che il sistema giuridico debba “man- tenere una qualche rigidità per assolvere al proprio ruolo”, perché “occorre dare certezza ai cittadini. E dar loro insicurezza sotto forma di norma giuri- dica non sarebbe una buona soluzione, tradirebbe la loro fiducia. In effetti, il diritto non può permettersi di riflettere l’incertezza della realtà sociale” (17). (13) Sui quali, più utili di molti trattati giuridici sono le pagine diL. V. BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi, trad. it. di E. Bellone, Milano, Mondadori, 1983 (ed. utilizzata Oscar saggi, 2004), spec. pp. 25-61 e 285-311. (14) Di “sfasamento tra norma e fatto” parla esplicitamente M. DEBENEDETTO, op. cit., p. 199, che con- nette questo problema al “rapporto fra regole e tempo”. (15) L’idea stessa della “manutenzione” di un ordinamento comporta l’abbandono di ogni messiani- smo politico e la definitiva rinuncia al cognitivismo etico in ogni sua forma. La filosofia politica che meglio si addice alla pratica della manutenzione è un esistenzialismo realista con forti propensioni riformistiche. Questa Weltanschauungsi fonda sull’idea basilare secondo la quale la realtà non ha in sé delle oggettività fisse e immutabili, ma consiste in un divenire cangiante che lo sforzo razionale degli uomini deve conti- nuamente interpretare, cercando, il più possibile, d’indirizzarlo ai suoi fini e interessi (auspicabilmente paci- fici ed egualitari). Sul concetto di “fallacia idealistica”, cfr. R. AJELLO, Formalismo medievale e moderno, Napoli, Jovene, 1990, pp. 104-136 e ss.; sul problema della sfasatura fatti/valori e il suo impatto sugli ordinamenti giuridici, cfr. ID., Dalla ‘Scientia juris’ alle esperienze giuridiche: le dimensioni storiche; e ID., Continuità e trasfor- mazione dei valori giuridici, entrambi inID.,Epistemologia moderna e storia delle esperienze giuridiche, Napoli, Jovene, 1986, rispettivam. pp. 1-49 e 51-80. (16) Cfr. A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. I. Il concetto di diritto, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 5-29: 12 (dove recupera e sviluppa un’idea di H. Lévy-Bruhl, secondo il quale nessuna società potrebbe esi- stere senza un minimo di organizzazione giuridica che dia stabilità a regole condivise) e 16 (“il mondo è ovunque retto da leggi”); N. ROULAND, Anthropologie juridique, Paris, PUF, 1995; F. TERRÉ,Le droit, Paris, Flammarion, 1999, pp. 15-22: 16, che ben sottolinea la “non-intemporalità e non-universalità” del diritto; A. SUPIOT, Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du Droit, Paris, Seuil, 2005, pp. 37 ss. (dove svi- luppa l’idea della “constitution normative de l’être humain”). (17) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX. LA MANUTENZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 39 L’istituzione di regole rigide è dunque coessenziale all’idea (e all’esi- genza) di stabilità e quest’ultima è condizione fondativa della società; è, propriamente, ciò che determina il passaggio dalla semplice comunità (di singoli, di famiglie o di gruppi) alla società organizzata. Secondo l’antico e fin troppo noto brocardo romano, il diritto è costitutivo della società al punto da identificarsi con essa: ubi societas, ibi jus; reversibile nel chiasmo: ubi jus, ibi societas(18). Del resto, la radice originaria dei termini “istituzio- ne”, “costituzione” e “Stato” è comune; ed è rinvenibile nell’indoeuropeo stā o st∂ che contiene in sé due idee concentriche: quella di “disporre”, ”ordinare” e quella di “dimorare nel tempo”, ”durare” (anche la parola “stabilità” contiene la medesima radice etimologica) (19). La domanda in nuceal nostro tema è allora: come si può conciliare l’i- dea di fondo cui s’ispira il senso stesso del diritto, la sua ragion d’essere (quella della stabilità e della certezza delle regole), con l’altra idea opposta di mutamento continuo insita nella “manutenzione” dell’ordinamento giu- ridico (20)? E come hanno affrontato il problema le società che hanno pre- ceduto la nostra attuale? La domanda contiene in sé un paradosso logico: nessuno darebbe credi- to a regole che non si vogliano – e nel contempo che non siano generalmente considerate – eterne, cioè valide in se stesse e indipendentemente dal conte- sto al quale sono destinate. Un juspercepito come disgiunto dal justumnon susciterebbe alcun rispetto, e potrebbe essere osservato solo per la minaccia della pura forza, cioè per costrizione, come acutamente intuì Pascal nel noto aforisma 298 delle Penséesdedicato al rapporto tra “giustizia” e “forza” (21). A maggior ragione nessuno obbedirebbe a una norma che nel momen- to stesso in cui disponga il suo comando affermi anche la sua provvisorietà (18) Cfr. A. GUARINO, L'ordinamento giuridico romano[1949], Napoli, Jovene, 1990, V edizione, pp. 97 ss.; M. TALAMANCA, Elementi di diritto privato romano, Milano, Giuffrè, 2001, p. 1, che parla di “correlazione biunivoca” tra l’organizzazione sociale e l’ordinamento giuridico; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005. (19) Sul punto, cfr. G. MIGLIO, “Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’”, in Stato e senso dello Stato oggi in Italia, Atti del 51° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, Pescara, 20-25 set- tembre 1981, Milano, Vita e Pensiero, 1981, pp. 66-86, ora in ID., Le regolarità della politica, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1988, II, pp. 799-832: 804-5. (20) J. CARBONNIER, Flessibile diritto, cit., p. XXX: “Come conciliare la flessibilità […] con la certezza del diritto? […] La flessibilità si situa all’interno di una certa rigidità conforme alla natura stessa del diritto, inte- sa a dare sicurezza ai consociati”. Per l’insigne A. la soluzione sta in primo luogo nelle “possibilità di opzio- ne. Ad esempio, su determinati fatti il sistema giuridico offrirà sfumature molteplici di regolamentazione, fra cui gli interessati sceglieranno”. (21) B. PASCAL, Pensieri, trad. it. di M. Ferrario Barilli (sull’ed. Brunschvicg), Milano, Bietti, 1965, p. 197: “La giustizia senza forza è impotente; la forza senza giustizia è tirannica. […] Bisogna quindi unire la giu- stizia e la forza; e per giungere a ciò occorre che quel che è giusto sia forte, o quel che è forte sia giusto [… Ma finalmente] non s’è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto la giustizia e ha detto che essa è ingiusta, e solo la forza è giusta. Non potendo, pertanto, far sì che quel ch’è giusto sia forte, s’è fatto in modo che quel ch’è forte sia giusto”. 40 FRANCESCO DI DONATO e/o relatività o (peggio ancora) la sua inadeguatezza o parzialità. Aristotele “codificò” questo principio nella Crematistica: il mutamento delle leggi è un male in sé poiché mutandole si screditano e con esse si scredita l’autorità che le ha poste (22). A distanza di venti secoli, fu Rousseau – e ciò è tanto più sorprendente in un grande innovatore come lui – a riprendere quel con- cetto e a rilanciarlo: “Le leggi sono rese sante e venerabili soprattutto dalla loro grande antichità”, scrisse il genio ginevrino nel celebre Discours sur l’o- rigine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, e perciò “il popolo pre- sto dispregia quelle leggi che vede mutarsi da un giorno all’altro e, abi- tuandosi a trascurare le vecchie usanze con il pretesto di fare meglio, si introducono spesso dei grandi mali per correggerne dei minori” (23). Il cardine di ogni diritto – come ben comprese Hans Kelsen, che costruì proprio su questo assunto, di chiara matrice ebraico-monoteistica, la sua teo- ria della Grundnorm (24) – è il comandamento primo che vi è sott(int)eso: “Non avrete altro Diritto al di fuori di me”. Ogni diritto custodisce quindi in sé il valore dell’assolutezza, senza la quale non risulterebbe né sufficiente- mente autorevole né credibile. Senza questo valore intrinseco nessun diritto (come nessun Dio) acquisirebbe la necessaria perentorietà, fondamento di ogni prescrittività, perdendo così la connotazione stessa di diritto (25). Con riferimento specifico a una società come quella di Antico Regime, tutta fondata sull’idea di fondo dell’immutabilità e dell’aeternitasdei valori, occorrerebbe tout-courtconcludere – prim’ancora d’iniziare il discorso – che essa escludeva a priori ogni idea di “manutenzione” delle norme. Il diritto era la quintessenza dell’idea di stabilità, espressa in una massima che ebbe molto successo in tutto l’Occidente cristiano: “Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, hoc teneatur” (26). Il criterio per giudicare della (22) ARISTOTELE, La politica, Bari, Laterza, 1969, IV edizione, lib. II, § 3, pp. 53-54. È per questo che le legislazioni moderne hanno inventato l’istituto mitigante della deroga. Quest’ultima intende conciliare, infatti, l’esigenza di mantenere l’auctoritasdella norma (e del potere che l’ha statuita) con la necessità di bloc- carne o temperarne gli effetti giuridici in alcuni casi. Tuttavia il suo abuso è un rimedio peggiore del male. (23) J. J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza[1755], trad. it di G. Preti, Milano, Feltrinelli, 2004, VIII edizione, p. 19. È molto significativo altresì che questa frase di Rousseau sia stata posta in esergo alla rac- colta delle leggi francesi realizzata da A. J. L. JOURDAN, DECRUSY,F. A. ISAMBERT, Recueil général des anciennes lois françaises, depuis l’an 420 jusqu’à la Révolution de 1789…, 29 voll., Paris, Belin-Leprieur e Plon, 1821-1833, t. I, Prolégomènes(par Isambert), p. 1. (24) Su cui cfr. M. TROPER, Cos’è la filosofia del diritto, trad. it. di R. Guastini, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 27-32 e 36-41; C. M. HERRERA, La philosophie de Hans Kelsen, Quebec, Presses Univ. de Laval, 2004, pp. 49-51. (25) Su questo filone, restano limpide e profonde le riflessioni sviluppate da A. ROSS(a mio avviso il maggiore teorico del diritto del Novecento), Critica del diritto e analisi del linguaggio, trad. it. di A. Febbrajo e R. Guastini, Bologna, Il Mulino, 1982. (26) Espunta da un padre del V secolo d. C., Vincent de Lérins (Vincenzo di Lerino), che l’aveva ela- borata nel confronto con testi di autori classici precedenti (Seneca, Tertulliano, S. Agostino) e “codificata” nella sua opera Commonitorium, scritta alcuni anni prima del Concilio di Efeso (450 d.C.), questa massima attraversa pressoché tutta la storia del cristianesimo e della Chiesa, tanto da essere stata ancora oggetto di vivaci discussioni al Concilio Vaticano I. LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 41 validità di un’innovazione stava dunque nella compatibilità della “novità” con la Tradizione, con ciò che sempre, ovunque e da parte di tutti si fosse ritenuto giusto. Il che, a ben vedere, costituiva un paradossale controsenso: una novità compatibile con la Tradizione è, infatti, una falsa novità, una novità solo apparente. La Traditioera, di per sé, la manifestazione del Verbo divino, cristallizzato nell’uniformità dell’obbedienza passiva e perenne- mente rinnovata in forme tipizzate alla parola del Creatore. Ora, si comprende agevolmente come l’applicazione di questa linea teorica al campo giuridico comportasse un’immobilità di fondo dell’ordo juris o quantomeno una grande difficoltà a determinare una sua evoluzio- ne. Nella monarchia assoluta legittimata dal diritto divino, le norme giuri- diche, attraverso la volontà del re, esprimevano la Volontà del Creatore. Essendo questa Volontà immutabile per definizione, ne derivava l’idea che anche il diritto – come Dio, avrebbero scritto un Bossuet o un De Maistre – era considerato immutabile. Possiamo fidarci di questa visione ontologistica, così inflessibile e rigo- rosa, che è poi quella – teorica e assiologica – che quel tipo di società nel suo complesso aveva istintiva tendenza a rappresentare (27)? Quanto le rappre- sentazioni sociali della propria identità risultano attendibili, e quanto le volontà e le intenzioni espresse descrivono l’effettiva realtà e non piuttosto l’interesse appunto a “rappresentarsi” in un certo modo? L’abito – lo sap- piamo bene noi italiani – non fa il monaco (o lo fa raramente). Deve allora l’osservatore storico credere sempre alle fonti dottrinali, quelle cioè che “codificavano” nell’astrazione concettuale i connotati teorici e assiologici di quella società, o non deve piuttosto sottoporre quelle elaborazioni a una rigorosa indagine critica condotta in comparazione con i dati reali? Che cosa conta di più per comprendere e descrivere un assetto socio-politico e il suo diritto: i programmi e le dottrine o i fatti? Le idee e gli auspìci o la dura resdella storia concretizzata, della realtà così com’è (stata)? Se scegliessimo il metodo idealistico-normativistico, adottato dalla pre- valente storiografia giuridica, dovremmo concludere che l’analisi del piano ideale è esaustiva: nomina sunt res. Applicando questo metodo al nostro tema, se ne dovrebbe concludere che la società di Antico Regime non cono- sceva – e non poteva in alcun modo conoscere – il concetto di “manuten- zione delle norme”, poiché questa era negata in adjecto, come avrebbero asserito i giuristi di quell’epoca, dai valori costitutivi ossia dalle qualità intrinseche del corpo sociale. (27) Su questa sfasatura tra realtà e rappresentazione come elemento costitutivo della dimensione sociale, cfr. S. MOSCOVICI, Le rappresentazioni sociali, trad. it. di V. L. Zammuner, Bologna, Il Mulino, 2005 (estratto da R. M. FARR, S. MOSCOVICI(a cura di), Rappresentazioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1989); ID.(a cura di), Psycologie sociale des rélations à autrui, Paris, Colin, 2006. Cfr. anche G. MEAD, Mente, sé e società [1934], trad. it. di R. Tettucci, Firenze, Giunti, 1966 (ult. ediz. 2010); H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà[1975], trad. it. di R. Cordeschi, Milano, Adelphi, 1987 (2004, III edizione). 42 FRANCESCO DI DONATO 3. La tensione essenziale della realtà: fatti contro valori I giuristi di Antico Regime, misoneisti ab imis fundamentis, si attennero scrupolosamente a questo principio. Nelle loro dottrine essi manifestarono sempre totale aderenza al cardine concettuale secondo cui il diritto non può e non dev’essere modificato dal potere, altrimenti quest’ultimo assu- me il connotato sinistro di tirannia e di arbitrio. Un sovrano che volesse palesemente innovare l’ordo jurisera screditato come despota e per i giuri- sti era prima di tutto colpevole di empietà, poiché non avendo timore d’in- taccare i nuclei essenziali del diritto, eterni per definizione, mostrava non solo l’impudenza di violare la “costituzione del regno”, ma – a monte – di non avere quel timor di Dio, da cui tutto il diritto, imperniato sull’Ordine Universale, derivava. Il re innovatore (o, se si preferisce, “manutentore”) si macchiava perciò del peggiore dei crimini, quello della lesa-maestà divina. E un re definito “cristianissimo” o “cattolico”, come rispettivamente erano i sovrani francese e spagnolo, non avrebbe potuto infrangere quel limite sacro, senza conseguenze di assoluta gravità (28). Spesso, quando si parla di “monarchia assoluta”, si resta prigionieri di luoghi comuni e non si tiene conto dei contesti ideologici nei quali i prota- gonisti di quel mondo operavano. Trovando la sua causa prima nella divi- na Voluntas, il diritto dei re era, sul piano assiologico, intangibile. Neppure un re avrebbe potuto modificarlo nelle sue strutture portanti (cioè “costi- tuzionali”), poiché la sua volontà era pari a quella degli altri re suoi pre- decessori, e la volontà di tutti e di ciascuno di essi non era che il riflesso della Volontà di Dio. L’assolutismo monarchico si fondava proprio su que- sto principio, che si potrebbe definire teosofico-politico: poiché Dio aveva investito il re, quest’ultimo diventava “l’Unto del Signore” nella sacra e scenica rappresentazione dell’incoronazione. Da quel momento il re faceva le veci di Dio in terra e lo rappresentava nella sua onnipotente sovranità. Nel giuramento che pronunciava in quella solenne cerimonia, egli s’impe- gnava davanti a Dio a “rispettare i privilegi della Nazione”, il che, in una società di ordini, di statuse di corpi, dove tutti (chi più chi meno, ma tutti) avevano dei privilegi, significava di fatto riconoscere una potente limita- zione del proprio raggio d’azione (29). La parola del re era dunque parola di Dio e di conseguenza non pote- (28) Cfr. D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, trad. it. di chi scrive, Roma-Bari, Laterza, 1998 (III ediz. inalterata 2002), pp. 41-2; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., pp. 119-123. Sulle conseguenze dell’empietà dei sovrani, si pensi solo allo sviluppo delle teorie monarcomache secondo le quali era legittimo per qualunque suddito uccidere il re sacrilego e non timoroso di Dio. (29) Cfr. M. DAVID, La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXeau XVesiècle, Paris, Dalloz, 1954, pp. 154-8 e 183-9; R. MOUSNIER, La costituzione, cit., p. 306. LA MANUTEZIONE DELLE NORME NELL’ANTICO REGIME 43 va essere smentita da alcuno. Essa aveva la stessa pesanteur della parola divina. Era in teoria un potere illimitato. Ma in pratica no. Proprio per il fatto di rappresentare Dio in terra, il comportamento del re era incanalato entro una dimensione ben precisa e invalicabile. Ciò che Dio non avrebbe mai fatto, non avrebbe certo potuto fare il re. Egli incarnava il Bene e quin- di ogni atto riprovevole alla coscienza cristiana non poteva compierlo (30). Nei fatti, l’azione del re era quindi ben delimitata. Il re, si diceva, è sì asso- luto, ma “per far regnare la giustizia” (31). E il concetto di giustizia era emi- nentemente legato al valore del senso cristiano della parola. Alcuni storici del diritto, fondandosi sull’analisi delle sole dottrine pro- dotte dalla letteratura politica filo-assolutistica, hanno creduto invece all’i- dea che l’assolutismo monarchico fosse veramente tale (32) e che di conse- guenza fosse concettualmente e istituzionalmente opposto al regime costi- tuzionale (che avrebbe poi trionfato nella Rivoluzione) (33). Ma è un grave errore di metodo, distorsivo della realtà, dar credito solo all’elaborazione dei teorici e, men che meno, considerare solo l’aspetto formale delle norme e dei princìpi e non (soprattutto) la loro applicazione concreta, la loro decli- nationella complessa e difficile vita delle “relazioni effettive”. (30) Fu proprio questo l’argomento base (noto come “teoria dei freni”) utilizzato da Claude de Seyssel nel suo celeberrimo trattato La monarchia di Franciapubblicato nel 1519: D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni, cit., p. 44: “Questi ‘freni’ sono anzitutto gli obblighi di coscienza del re fissati nei comandamenti divini”. Sul punto, cfr. E. SCIACCA, Le radici teoriche dell’assolutismo nel pensiero politico francese del primo Cinquecento(1498- 1519), Milano, Giuffrè, 1975, pp. 87 ss.: 117 ss. (31) Rinvio, per un approfondimento sul punto, al mio La rinascita, cit., pp. 191 e 196-199. (32) Ad esempio, B. VONGLIS, L’État c’était bien lui. Essai sur la monarchie absolue, Paris, Éditions Cujas, 1997;ID., La monarchie absolue française. Définition, datation, analyse d’un régime politique controversé, Paris, L’Harmattan, 2006. Analisi di questo tipo, basate sul dover essere programmatico e non sulla descrizione dell’essere così com’è, portano dritto a disegnare una dimensione fantastica (magari assai più affascinante e colorita), ma non una realtà storica (per definizione sempre più cruda e dura dei valori formali che espri- me). Per realizzare invece un’analisi seria di una data società in un dato momento storico non bisogna limi- tarsi solo all’ordine dei discorsi formali (al cui novero appartengono tanto programmi e proclami politici quanto le norme giuridiche), ma bisogna guardare piuttosto a come quei discorsi e quelle norme sono, attra- verso una determinata mentalità sociale e individuale, applicati e realizzati e soprattutto sentitidalla mag- gioranza delle persone nella vita vissuta. Il che, tra l’altro, è molto più faticoso da ricercare e da trasfondere in una ricostruzione storiografica ordinata e comprensibile. (33) Al contrario, la monarchia assoluta fu, fin dalla sua genesi tardo-medievale (dal XIII al XV seco- lo), un regime fondato su un “blocco costituzionale, tanto scritto quanto consuetudinario”, come da ultimo ha mostrato, con esemplare chiarezza di stile, gran solidità di metodi di ricerca e poderosa costruzione sto- riografica, A. RIGAUDIÈRE, “Les fonctions du mot constitution dans le discours politique et juridique du bas Moyen Âge français”, in Revista Internacional de los Estudios Vascos, Cuadernos, 4, 2009, pp. 15-51: 17; del medesimo A. si veda soprattutto Penser et construire l’État dans la France du Moyen Age. XIIIe-XVesiècle, Paris, Comité pour l’Histoire économique et financière de la France, 2003. Sul punto (ormai oggetto di una copio- sa letteratura), cfr. almeno J. PH. GENET(a cura di), L’État moderne: Genèse. Bilans et perspectives, “Actes du Colloque tenu au Cnrs à Paris”, 19-20 sett. 1989, Paris, Éditions du Cnrs, 1990; J. KRYNEN, L’empire du roi. Idées et croyances politiques en France. XIIIe-XVesiècle, Paris, Gallimard, 1993; molti spunti in R. MOUSNIER, La costi- tuzione, cit., passim. Resta attestata sulla posizione di un “Medioevo senza Stato” larga parte della storiogra- fia giuridica italiana, esemplarmente racchiusa nell’opera di P. Grossi, la cui interpretazione al riguardo è sintetizzata in ID., L’Europa del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 16. 44 FRANCESCO DI DONATO La storia del diritto e delle istituzioni non dev’essere solo una storia delle dottrine e del pensiero giuridico, non deve interessarsi solo alla rico- struzione di norme e istituti che sono esistiti in un dato ordinamento, ma deve qualificarsi piuttosto come storia dell’esperienza giuridicae perciò osser- vare e descrivere non solo il piano ideale e deontico del diritto formale, bensì i “nessi che legano i processi evolutivi delle produzioni ideologico-scientifi- che [= norme e dottrine] alla prassi umano-sociale e alla storia reale” (34). Norme e istituti non possono certo essere estranei all’atelier de l’histoi- re du droit, ma vanno intesi e descritti nella loro “realtà effettuale”, ossia inquadrati nel contesto dinamico e nella dimensione di “precomprensio- ne” entro la quale acquistano il loro valore e la loro concreta qualificazio- ne (35). Nell’evoluzione della realtà, è fin troppo noto, rientrano le distor- sioni eterogenetiche – più o meno intenzionali – produttive di effetti che possono essere anche molto lontani e talvolta persino del tutto opposti alle rationes jurisiniziali (36). 4. Il trionfo della prassi giurisdizionale: la manutenzione interpretativa Nella società di Antico Regime il fondamento metafisico-religioso ren- deva dunque l’idea stessa di “riforma”, e quindi di “manutenzione”, del tutto inimmaginabile. La parola “riforma” era impronunciabile da parte del giurista, che la percepiva come uno dei peggiori disvalori possibili (37). (34) La sfera dell’“esperienza”, infatti, contiene anche le fonti formali del diritto intese nel suo ambi- to come “fatto normativo”, mentre non si può dire l’inverso. Sulla definizione dell’“esperienza”, come fon- damentale concetto del metodo scientifico, restano molto utili le pp. diG. PRETI, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, recentem. rist. a cura di S. Veca, Milano, Bruno Mondadori, 2007; e, sulle cause della refrat- tarietà italiana a questo elementare paradigma al quale tutto il pensiero moderno delle società avanzate si è attenuto dalla rivoluzione scientifica in poi, cfr. M. ALCARO, La crociata anti-empiristica, Milano, Franco Angeli, 1981 (dal quale è tratta la citazione nel testo: p. 11). (35) Sulle strutture di precomprensione e la necessità di ricostruirne il senso e la forza d’influenza sulle produzioni culturali, cfr. P. BOURDIEU, Spiriti di Stato. Genesi e struttura del campo burocratico, trad. it. di R. Ferrara in ID., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 1995 (nuova ediz. 2009), pp. 89-131: 91-93 e 112-113. (36) A questo proposito, un libro che i giuristi (tanto i positivisti quanto gli storici) dovrebbero legge- re (e che non mi è mai capitato invece di vedere citato e discusso nella trattazione di temi consoni alle loro discipline) è quello di T. K. MERTON, E. G. BARBER, Viaggi e avventure della serendipity. Saggio di semantica socio- logica e sociologia della scienza, , trad. it. di M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 2002. (37) Una testimonianza eloquente in proposito è quella di Niccolò Fraggianni, uno dei più colti e raf- finati giuristi del Settecento italiano, per il quale le “riforme” costituivano “torbide novità” frutto di “capric- ciosi progetti che tuttodì si eccitano e si fanno da […] teste ripiene di entusiasmi e di visioni”; l’attività rifor- matrice dell’ordo jurisproduceva quindi un enorme rischio per la tenuta del “sistema totale”; di conseguen- za, tutti coloro che si ponevano tra le fila dei “riformatori” non erano per lui che demolitori dell’interesse generale alla stabilità; occorreva perciò senza tentennamenti combattere e “biasima[re] coloro che colle nuove opinioni vogliono singolarizzarsi, et intorbidare la tranquillità dello Stato”: cfr. F. DI DONATO,

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