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La cultura delle destre. Alla ricerca dell'egemonia culturale in Italia PDF

151 Pages·2013·0.77 MB·Italian
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Presentazione Il tema di questo libro è più vivo che mai. Individualismo, consumismo, edonismo, diffidenza per l’altro e attaccamento ai valori cattolici tradizionali sono i fondamenti ai quali si è ispirata la destra italiana nell’ultimo ventennio. Con Silvio Berlusconi un nuovo blocco sociale è giunto al potere e si è mosso in aperto contrasto con quella che veniva (e viene) ossessivamente additata come «egemonia culturale della sinistra». Il percorso della destra non può evitare di ricostruire gli antagonismi e gli «scontri di civiltà» a cui abbiamo assistito negli ultimi vent’anni. La nuova destra non si è dunque legata esclusivamente al carisma del suo leader, ma ha agito capillarmente nel tessuto sociale, riprendendo temi e comportamenti che vengono da lontano e che non hanno mai cessato di esistere. Gabriele Turi ricostruisce questo percorso, passando attraverso il revisionismo storico, la riscrittura politica dei manuali scolastici, l’insistito ridimensionamento della Resistenza e la difesa militante del crocifisso nei luoghi pubblici. La crescente presenza dell’estrema destra clericale sul Web e la concomitante crisi identitaria della sinistra fanno da sfondo a questa storia politica dell’Italia recente, che vede tra i suoi attori principali esponenti politici di primo piano, giornalisti, docenti universitari e gente comune. Gabriele Turi è docente di Storia contemporanea all’Università di Firenze e Direttore della rivista «Passato e presente». Tra i suoi libri ricordiamo Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista (2002), Giovanni Gentile. Una biografia (2006), Il nostro mondo. Dalle grandi rivoluzioni all’11 settembre (2006) e Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età moderna a oggi (2012). Temi 235 © 2013 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-339-7259-6 Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri www.bollatiboringhieri.it Prima edizione digitale giugno 2013 Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata La cultura delle destre a Francesca, ancora ai nostri figli ai nipoti presenti e futuri Avvertenza Nell’ultimo decennio ho riflettuto più volte sul tema affrontato in questo libro, con interventi pubblicati in «Passato e presente», e in due convegni svoltisi a Firenze di cui sono usciti gli Atti: organizzati, il primo, il 18 dicembre 2002 da «Passato e presente» (La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, a cura di Gianpasquale Santomassimo, il Saggiatore 2003), il secondo, il 15-17 ottobre 2010 da Libertà e Giustizia e «Passato e presente» (Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, a cura di Paul Ginsborg e Enrica Asquer, Laterza 2011). Il mio intento è presentare un discorso organico su una questione finora trascurata dagli osservatori, anche da quelli che esercitano il mestiere di storico: il mio mestiere, che mi dà – spero – la competenza per valutare il ruolo che la storia esercita ancora nella formazione della classe dirigente. Un discorso la cui utilità non è venuta meno con la fine del quarto governo Berlusconi nel novembre 2011: l’esperienza politica iniziata nel 1994 ha infatti inciso profondamente sul corpo politico del paese, e credo sia destinata a influenzare a lungo i suoi cittadini con la mentalità e la cultura che ha elaborato e messo in circolo. Per le discussioni parlamentari, per i documenti ufficiali o per quelli delle istituzioni principali non si citano le fonti, note e facilmente accessibili. I siti web sono stati consultati l’ultima volta il 16 marzo 2013. Ringrazio Monica Galfré e Francesca Tacchi: la nostra lunga amicizia e la loro competenza mi hanno permesso di consegnare questo lavoro. Introduzione Il 29 marzo 2011 cinque senatori del Popolo della libertà – un senatore di Futuro e libertà aveva ritirato subito la sua firma – hanno presentato una proposta di riforma costituzionale per abrogare la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», cui era seguita la legge Scelba del 1952 che ha considerato reato l’apologia del fascismo. L’esame del disegno di legge non è stato nemmeno avviato, ma esso resta significativo per più motivi: in primo luogo era uno dei 329 disegni di legge costituzionali presentati dall’inizio della legislatura nel maggio 2008 fino all’aprile 2011, una media di uno ogni tre giorni. Oltre un terzo era dovuto all’iniziativa del PDL, e aveva avuto come tema prevalente l’ordinamento e la funzione della magistratura.1 Il partito di maggioranza relativa si era distinto, oltre che per i numerosi attacchi politici alla Costituzione, per la richiesta di rivederne parti sostanziali: del 6 novembre 2009 è la proposta dell’elezione diretta del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio presentata da Marcello Pera, mentre il 20 maggio precedente Alessandra Mussolini aveva chiesto che nell’articolo 1 della Carta vi fosse il «riconoscimento delle radici cristiane della civiltà italiana». In secondo luogo la proposta di abrogazione era argomentata in nome della «libertà di pensiero» e del mutamento del quadro storico che aveva giustificato la XII Disposizione, per il «superamento definitivo, a seguito della caduta del muro di Berlino, di quella ideologia comunista che tanti condizionamenti era riuscita a esercitare». Infine è interessante ricordare che, mentre il presidente del Senato Renato Schifani si è dissociato dall’iniziativa, questa è stata difesa non solo dall’estremismo fascista ma anche da «l’Occidentale», il periodico on line della Fondazione Magna Carta presieduta dal senatore PDL Gaetano Quagliariello: «Tanto rumore per nulla», ha affermato il 4 aprile 2011 il giornale, riferendosi alle proteste della sinistra, perché la norma era «anacronistica» e la proposta di abrogazione aveva solo «l’obiettivo di creare un clima di distensione e di riappacificazione con la storia». È chiaro, quindi, che si è trattato di uno dei tanti ballons d’essai lanciati dalle forze di governo per testare la tenuta democratica del paese, e dell’ennesimo uso politico di una storia e di una memoria che si vorrebbero «condivise» e «pacificate» con la cancellazione delle differenze del passato. Questo atto è l’espressione politica di una lunga battaglia condotta anche sul piano culturale, attraverso mezzi di elaborazione, comunicazione e propaganda tanto diffusi quanto poco conosciuti. Ne sono stati investiti strati ampi del ceto medio e dell’intellettualità che ha il compito di costruire il consenso. Finora si è scritto molto sulle doti carismatiche del premier che ha dominato la scena politica dal 1994 al 2011 e sui valori proposti in questo arco di tempo dalla destra per costruire una nuova antropologia culturale del popolo italiano, dopo averlo illuso di essere sovrano per il solo fatto di esercitare il diritto di voto: individualismo, idolatria del consumo, arricchimento personale, diffidenza per l’altro, attaccamento ai valori cattolici tradizionali. La sedimentazione di mentalità e di comportamenti ha un ruolo fondamentale e di lunga durata nel forgiare la fisionomia di una società, ma altrettanto importante è l’insieme di conoscenze e di consapevolezze veicolate verso i ceti medi intellettuali attivi nelle scuole o nei mass media: solo con il loro contributo è possibile esercitare quella funzione egemonica che mette in relazione tra loro linguaggi, costumi e politica. Per questo ritengo utile indagare il comune denominatore della cultura delle destre di governo, in alcuni aspetti significativi dal punto di vista civile, in primo luogo l’interpretazione della storia italiana e il senso dell’appartenenza religiosa: due temi che tradizionalmente caratterizzano la formazione e l’identità profonda delle classi dirigenti del paese. Fare una mappa delle iniziative prese a partire dagli anni novanta può renderci più consapevoli del momento nel quale viviamo, perché i loro effetti sono tali – ritengo – da sopravvivere alle contingenze dei governi. La lettura di questa narrazione non sarà amena, anzi apparirà talvolta ostica per le informazioni di cui è intessuta, numerose ma altrettanto necessarie per comprendere la capillarità degli interventi compiuti. La cultura e la politica culturale cui hanno dato vita le destre hanno caratteri nuovi rispetto al passato, ma non possono essere comprese isolandole dalla storia intellettuale di tutto il Novecento – non solo la prima metà del secolo segnata da nazionalismo e fascismo – che prepara il terreno sul quale esse si sviluppano. Nel decennio 1980-90 si pongono, come vedremo, le premesse di una profonda frattura con le correnti di ispirazione democratica, ma già in precedenza la figura di un intellettuale liberale o l’influenza di una cultura «progressiva» avevano stentato ad affermarsi, non solo per l’intervento autoritario del regime fascista. Il lungo cammino della cultura di destra Discutendo con Eugenio Garin, che in Intellettuali italiani del XX secolo aveva offerto nel 1974 un panorama della cultura italiana del primo Novecento, in particolare sotto il fascismo, focalizzato solo su «avanguardie ristrette» e antifasciste, Giorgio Amendola ha sostenuto che nella prima metà del Novecento era rimasto intatto il «vecchio blocco di una cultura arretrata, retorica, formalistica, curiale», fatta di rimasticature di Rosmini e Gioberti e di demagogia dannunziana. Per questo, continuava, intellettuali italiani e fascismo poterono incontrarsi sulla piattaforma comune del nazionalismo, della richiesta di uno Stato forte, della difesa dell’ordine costituito e dei privilegi di classe, dell’avversione per il movimento operaio, della polemica antiliberale e dell’antiparlamentarismo: gli ideologi del regime – da Rocco a Gentile, da Volpe a Bottai – si erano formati in questo contesto e non possono essere considerati un corpo separato sul quale il fascismo si sarebbe calato dall’esterno.2 L’osservazione dell’esponente comunista traduceva e articolava, sul piano culturale, il dibattito che era stato al centro dell’attenzione civile nel periodo della ricostruzione del paese – quello sui caratteri più o meno liberali dell’Italia prefascista –, che aveva avuto il suo punto politicamente più significativo nel confronto del 1945 tra Ferruccio Parri e Benedetto Croce alla Consulta, e che nei primi anni settanta assunse uno spessore scientifico con l’affermarsi e il consolidarsi di una storiografia sul fascismo. Quella di Amendola non era una visione “pessimistica”, in quanto egli non intendeva ovviamente ridurre a quel «vecchio blocco» ogni espressione culturale del primo Novecento e dello stesso periodo fascista; ma voleva sottolineare la forza e l’influenza di un pensiero conservatore che aveva permeato la società italiana al di là delle sue manifestazioni direttamente politiche: un discorso che a sua volta Garin proietterà in avanti nel tempo, chiedendosi «come tanta parte della “intelligenza” italiana sboccasse poi nell’Italia postfascista senza che le trasformazioni di superficie corrispondessero a reali rinnovamenti di fondo».3 Risulta solo uno stereotipo fuorviante l’immagine di un paese egemonizzato per almeno mezzo secolo, dopo la Liberazione, dalla cultura di sinistra. Vedremo come essa sia stata costruita negli anni novanta per individuare un nemico da combattere. In realtà, rilevante è stata la presenza, anche istituzionale, di varie correnti di un pensiero antidemocratico e conservatore. In primo luogo, la figura dell’intellettuale, cioè del moderno uomo di cultura cosciente del proprio ruolo di orientamento dell’opinione pubblica, si viene definendo in Italia all’inizio del Novecento con segno decisamente conservatore, a differenza di quanto avviene

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