Description:Tra le molte collane di science fiction edite negli Stati Uniti, una delle più popolari, nell'estensione totale del termine, è quella degli Ace Books: vi hanno trovato ospitalità, nella loro prima edizione, innumerevoli romanzi tipici del genere space-opera. John Brunner, Kenneth Bulmer, Murray Leinster, Robert M. Williams, Jane Roberts, Robert Silverberg, Marion Z. Bradley, David Grinnell, Andre Norton sono i nomi che ricorrono più di frequente nei cataloghi di questa collana: e qualunque lettore italiano che ami tenersi informato è in grado di catalogare, nei loro pregi e nei loro limiti, questi autori che in genere amano rielaborare temi avventurosi, richiamandosi ai canoni della fantascienza primitiva, solo di rado azzardandosi sulla strada difficile e accidentata di una interpretazione più nuova. In fondo, è logico che sia così: esiste una chiara specializzazione « di categoria » tra le collane americane di science fiction. E gli Ace Books si sforzano di soddisfare, con una produzione di mole enorme, la sete di evasione e di avventure fantastiche di un vasto strato di lettori. Recentemente, del resto, questa vasta attività ha ricevuto la consacrazione ufficiale del Premio Hugo, assegnata agli Ace Books per la migliore attività editoria le. Tuttavia Donald Wollheim che è l'editor della collana, pur tenendo presente questa necessità pratica, è un uomo di gusto sicuro e di intelligenti intuizioni. E, non appena può, ama insinuare nella collezione romanzi di levatura eccezionale: e uno degli autori che preferisce, per queste scorribande al di fuori degli abituali confini, è Philip K. Dick. Chiunque abbia familiarità con le pubblicazioni americane e inglesi avrà visto citata molte volte, più o meno scherzosamente, la celebre «legge di Sturgeon»: il novanta per cento di tutto ciò che esiste è ciarpame. La legge di Sturgeon (che ha anche una validità generale) è non meno azzeccata per quanto riguarda la science fiction. E, d'altronde, vi sono altri generi di narrativa in cui il novanta per cento di ciarpame sale anche al novantacinque, addirittura al novantanove. Non si può rinnegare l'esistenza di una sottoproduzione, imponente, anche se qui da noi, in Italia, il numero limitato cli pubblicazioni specializzate consente di operare una rigorosa opera di selezione. E, del resto, esempi di questa sottoproduzione su scala mondiale filtrano o nascono anche nel nostro paese. Con questa realtà ha dovuto fare i conti anche e soprattutto Wollheim, regista di una collana popolarissima; ma bisogna dargli atto che fino dall'inizio ha avuto fiducia in un autore come Philip K. Dick, appoggiandolo ed aiutandolo a imporsi: e Philip Dick appartiene a quella aristocrazia « del dieci per cento » in cui si contano i grandi autori di science fiction conosciuti e stimati in tutto il mondo. Nel 1956, Phil Dick era già uno scrittore abbastanza noto: si era fatto notare nel giro di pochi mesi, ma era ancora lontanissima nel tempo la sua clamorosa e incontestata affermazione definitiva, attraverso l'assegnazione del Premio Hugo 1963. Eppure tutte le grandi qualità di Dick erano già ampiamente realizzate. E, se mai occorresse una prova a confermarlo, ecco The world Jones made. Nelle mani di uno degli scrittori « del novanta per cento », è facile immaginare cosa avrebbe potuto uscire da uno spunto come questo: le astronavi terrestri che si spingono verso altri pianeti avvistano misteriosi oggetti che fluttuano nel vuoto interstellare, apparentemente senza meta: e più tardi, si scopre che quegli oggetti non sono navi extraterrestri, ma creature interplanetarie, venute da chissà dove, che cominciano a posarsi, sempre più numerose, sul suolo stesso della Terra. E allora un uomo, Jones, lancia una grande crociata contro gli invasori, per scacciarli dal Sistema Solare, per snidarli persino dai loro misteriosi mondi d'origine. Ogni lettore può immaginare quale sarebbe il seguito: una ennesima, stucchevole variante sui «mostri venuti dallo spazio », alla fine sconfitti dall'eroe di turno. Ma Dick, di fronte a un tema del genere, non poteva fare altro che rovesciarlo come un guanto, ricavandone uno dei suoi romanzi acri, poderosi e imprevedibili. Naturalmente i « cattivi » invasori diventano, nel romanzo di Dick, esseri inoffensivi; ma la loro esistenza serve splendidamente di pretesto a Jones, un mutante dotato di vista profetica, per inventare la necessità di una crociata sterminatrice, allo scopo di rovesciare un governo legale faticosamente ricomposto sulle rovine di una guerra globale e per sostituirvi la sua dittatura fanatica, la sua religione di odio. Gli uomini del governo federale, il cui scopo principale è imporre, quando è necessario anche con la forza, il diritto di ognuno alla più ampia libertà di opinione, si trovano a combattere contro un impostore geniale, convinto della propria infallibilità e in grado di prevedere e di sventare, con un anno di anticipo, ogni loro mossa, di rivolgere a proprio favore tutti i provvedimenti, legali e illegali, presi per frenare la sua tempestosa ascesa al potere. E questa, ancora è soltanto una delle vicende che costituiscono la robusta struttura di The world Jones made; l'immaginazione poderosa e polemica di Dick, impegnata ancora una volta in una appassionata arringa contro la dittatura e la sopraffazione, crea inesauribilmente motivi e figure, in una progressione rigorosa e convincente. Definito "eccellente" da Harry Harrison, The world Jones made può essere considerato un esempio da manuale di ciò che è possibile ottenere, anche partendo da un tema sfruttato fino alla nausea, quando a servirsene è un autore intelligente e acuto, che rifugge dall'imitare i modelli più o meno famosi e preferisce cercare soluzioni nuove, con coraggiosa ostinazione: una lezione e un esempio che Dick ha continuato e continua a offrire alla quasi totalità degli autori specializzati del mondo.