Ladri di Biblioteche RADAR Prima edizione digitale 2017 © 2016 Lit Edizioni Srl Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni Srl Sede operativa: Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 – fax 06.85358676 [email protected] www.castelvecchieditore.com Umberto Curi I figli di Ares Guerra infinita e terrorismo Indice Introduzione IL TEMPO DELLA GUERRA 1. La natura della guerra 2. Forma ed evento LA GUERRA COME STATO 1. Dopo la guerra fredda 2. Preventive war 3. Giustizia infinita ALLE RADICI DELLA GUERRA INFINITA 1. I numeri del sottosviluppo 2. Gli obiettivi del Millennio 3. Gli esiti contraddittori di una sfida 4. Il grembo della guerra infinita TRE PROPOSTE DI PACE 1. Un progetto di pace durevole 2. Tra Freud ed Einstein 3. Se l’Occidente vuole la pace MORFOLOGIA DEL TERRORE 1. Alle origini 2. Virtù e terrore 3. Lotta armata, illegalità di massa, stragismo 4. Il terrorismo globale 5. Il tempo di Eirene APPENDICE Estratto del report relativo ai Millenium Development Goals 2015 Note Introduzione Building peace for tomorrow requires doing justice today. (dal Report della FAO, 2015) 1. «Niente sarà più come prima» – si disse, all’indomani dell’11 settembre 2001. A distanza di oltre quattordici anni, quell’affermazione, già in sé sospetta, se non altro per l’enfasi con cui abitualmente è stata pronunciata, quasi a configurare un auspicio, più che una previsione, risulta sostanzialmente smentita dal succedersi degli avvenimenti, e più ancora dall’interpretazione che di essi è stata offerta. In realtà, a conferma dell’estrema difficoltà di liberarsi dalle abitudini deteriori, i cascami della pseudocultura dominanti prima delle Twin Towers si sono puntualmente riproposti dopo il 13 novembre 2015. Opportunismo, retorica, superficialità. È amaro doverlo constatare, ma queste tre parole sono quelle che meglio descrivono, sia pure in sintesi, quale sia stata, e ancora largamente continui ad essere, la risposta prevalente all’ondata terroristica culminata con gli attacchi nel cuore di Parigi. Fra le due date simbolo – 11 settembre-13 novembre – tutto come prima, insomma. Opportunismo. Quello di chi ha sostenuto una palese menzogna («con un’azione militare il problema si risolverebbe completamente in quindici giorni»), pur di raggranellare qualche consenso elettorale in più, pescando nel comprensibile sgomento di tante persone spaventate da ciò che sta accadendo. Far credere che basterebbe accendere l’interruttore della guerra (una guerra, fra l’altro, non meglio specificata) per cancellare una minaccia che grava su tutti noi, è qualcosa che va al di là di ciò che è moralmente, oltre che politicamente, accettabile. Retorica. È quella che continua a lungo a dominare, soprattutto nei notiziari televisivi e nelle trasmissioni di approfondimento, facendo leva sulle emozioni, anziché favorire un approccio razionale, quanto più possibile ancorato a valutazioni obiettive e all’analisi dei dati di fatto. Senza dimenticare le debite eccezioni, ciò che balza in evidenza è una competizione, fra le emittenti, guidata dal sensazionalismo e dall’ossessiva ricerca di qualche scoop, piuttosto che dal tentativo di contribuire ad un’adeguata comprensione della situazione. Superficialità. Anche qui, a parte alcuni casi isolati e sporadici, il livello complessivo delle analisi riproduce acriticamente luoghi comuni, stereotipi, scorciatoie, incapaci di far progredire di un centimetro la ricerca sulle cause e le motivazioni reali di un fenomeno che viene da lontano, e che certamente non si esaurirà, né in quindici giorni e neppure in un periodo di breve o media durata. Non si tratta di limiti marginali, né di omissioni circoscritte. Quando si sbaglia nell’analisi – scriveva un famoso storico – è inevitabile che si sbagli anche nell’azione. Ed è questo il pericolo maggiore, è questa la prima, e forse anche più importante, vittoria già conseguita dal terrorismo. Aver fatto emergere l’inadeguatezza culturale di paesi che pure rivendicano a buon diritto l’appartenenza a una tradizione di alto profilo. Aver fatto affiorare la fragilità complessiva degli strumenti adoperati per fronteggiare problemi inediti, sfide espresse in forme non convenzionali. Nella seconda metà del 2015, questo desolante quadro complessivo era già balenato di fronte all’irrompere di flussi migratori senza precedenti. Dopo il 13 novembre, la debolezza strutturale dell’Europa, principalmente sul piano dell’attrezzatura analitica, viene ribadita dalla preoccupante povertà culturale della risposta al terrorismo. Nessuno può ragionevolmente pretendere di avere la verità in tasca. Ancor meno si può immaginare di proporre una ricetta infallibile per risolvere d’un colpo solo problemi di straordinaria complessità, la cui origine affonda molto indietro nel tempo. Ma è appunto questa consapevolezza a latitare, è proprio questa necessaria e indispensabile umiltà il presupposto basilare per potersi almeno avvicinare ad una comprensione più appropriata di quanto sta accadendo. 2. Alle tre – inescusabili – miserie culturali a cui si è fin qui accennato sarebbe necessario aggiungere anche un «vizio» non meno censurabile, quello della pigrizia intellettuale, tanto più nociva se abbinata al conformismo. Non si saprebbe descrivere in altri termini la diffusa inclinazione a tenere nettamente distinte, nell’analisi, le forme storicamente determinate con le quali sta concretamente sviluppandosi il processo della globalizzazione, soprattutto a partire dal crollo del muro di Berlino. Mentre dovrebbe essere evidente che terrorismo, emigrazione, distribuzione delle risorse a livello planetario, pur nelle loro differenze e dunque senza alcun riduzionismo, costituiscono una totalità organica che va «letta» nella sua integrità. Nulla a che vedere, ovviamente, con la proposizione di lenti ideologiche o con la riesumazione di categorie ormai del tutto inservibili. Ma anche nessuna arbitraria mutilazione di un fascio di relazioni obiettivamente inseparabili l’una rispetto all’altra. Dopo il collasso dei sistemi economico-politici del socialismo realizzato, fin troppo repentino per poter essere tempestivamente orientato nella sua evoluzione successiva, l’internazionalizzazione dei processi economici, con tutte le sue implicazioni, si è sviluppata in maniera letteralmente «an-archica», priva di ogni «archè», capace di conferire razionalità e misura alle dinamiche innescate, col risultato di aggiungere nuove storture ai preesistenti squilibri. Il divario fra paesi ricchi e paesi poveri – e fra ricchi e poveri all’interno di essi – è cresciuto fino a raggiungere limiti che potrebbero perfino apparire incredibili. Un esempio, fra la miriade di dati che potrebbero documentare ampiamente questa affermazione (e sui quali si tornerà analiticamente nelle pagine che seguono) può servire a dare un’idea approssimativa delle anomalie in cui si esprime il presunto nuovo ordine economico internazionale. Per festeggiare la nascita della figlia Max, alla fine del 2015, Mark Zuckerberg, ha deciso di destinare la quasi totalità del suo patrimonio – oltre 47 miliardi di dollari – ad iniziative filantropiche. Pressoché negli stessi giorni, l’attenzione dei media era attirata dalla visita di Papa Francesco nella Repubblica Centrafricana, nella quale egli aveva deciso di dare avvio alle celebrazioni dell’anno giubilare. Questa circostanza ha fatto emergere un dato abitualmente rimosso o dimenticato, vale a dire il fatto che il prodotto interno lordo del paese africano è di poco superiore ai tre miliardi di dollari, vale a dire quindici volte di meno del patrimonio del fondatore di Facebook. D’altra parte, Zuckerberg non è isolato fra i paperoni statunitensi. Le fortune di Bill Gates ammontano a 79,2 miliardi, quelle di Larry Page, presidente di Google, superano i 29 miliardi, mentre si calcola che, al momento della sua morte, Steve Jobs disponesse di un patrimonio che sfiorava i 9 miliardi di dollari. A sua volta, nella graduatoria dei paesi più poveri del mondo, la Repubblica Centrafricana è in buona compagnia, se è vero che nessuna fra le nazioni dell’Africa subsahariana raggiunge i 4 miliardi di PIL. Senza addentrarsi nei dettagli tecnici, il quadro ora abbozzato restituisce la seguente immagine. Il reddito di alcuni singoli individui (per lo più, ma non solo, cittadini statunitensi) è di gran lunga superiore alla ricchezza complessiva prodotta da stati in cui abitano decine di milioni di persone. Si dirà che lo scenario così rappresentato era noto da tempo. Basti pensare