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Fare i conti con i classici. Leggerli, studiarli, amarli PDF

310 Pages·2017·5.33 MB·Italian
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Il libro L o spettro della fine degli studi classici si aggira fra noi da molto tempo. Ovunque, in Occidente, ci si dispera per il declino della fortuna del greco e del latino nelle scuole, per la chiusura delle facoltà di lettere antiche. Si vorrebbe addirittura che l’Unesco dichiarasse le lingue classiche «patrimonio dell’umanità», quasi fossero delle rovine preziose o una specie in via di estinzione. In questa decadenza, però, vi è qualcosa di paradossale: infatti, se da un lato i classici sono in declino «per definizione» (lo sono, cioè, da sempre), dall’altro sul loro destino il dibattito fra gli specialisti sembra non conoscere requie. E, soprattutto, sembra non lasciare alcuna speranza. Questo probabilmente perché continuiamo a guardare al mondo antico con rimpianto e nostalgia, o perché non riusciamo a liberarci dal timore di non poter preservare ciò che amiamo. Forse è la paura di veder svanire il fondamento della cultura occidentale. La nostra identità. Fare i conti con i classici ci invita a guardare alla cultura e alla storia greca e latina con occhi diversi. E a sottrarci al luogo comune secondo cui il dialogo con gli autori antichi sia un «dialogo con i morti». Innanzitutto perché studiare i classici significa confrontarsi non soltanto con la letteratura, la poesia, la filosofia, il teatro del mondo greco-romano, ma anche con tutti coloro che nel corso dei secoli li hanno affrontati, citati o ricreati. E poi perché in questo dialogo i veri interlocutori siamo noi. Noi che come ventriloqui diamo voce a ciò che gli antichi hanno ancora da dire, proiettiamo su di loro angosce e desideri, non smettiamo di interrogarli sui grandi temi-concetti-parole che da oltre duemila anni definiscono il nostro orizzonte culturale. E misuriamo senza posa la distanza che ci separa dal loro universo. Al quale, nonostante tutto, rimaniamo inevitabilmente legati. Perché la tradizione greca e latina non è qualcosa da imparare a memoria e declamare, ma è qualcosa con cui interagire e battagliare. Qualcosa che invita al confronto, all’avventura e alla sfida, nel tentativo di ritrovare quella connessione creativa capace di liberare tutta l’energia e la tensione di cui i classici sono ancora intrisi. L’autrice Mary Beard insegna al Newnham College di Cambridge ed è curatrice per l’antichità classica del «Times Literary Supplement». Accademica di fama internazionale, è fellow della British Academy e membro dell’American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi numerosi libri, molti dei quali tradotti in italiano, ricordiamo Il Partenone (2006), Il Colosseo. La storia e il mito (2008), Prima del fuoco. Pompei, storie di ogni giorno (2011) e SPQR. Storia dell’antica Roma (2016). Mary Beard FARE I CONTI CON I CLASSICI Leggerli, studiarli, amarli Fare i conti con i classici Questo libro è per Peter Carson Prefazione Questo libro è una visita guidata nel mondo classico, che inizia dal palazzo preistorico di Cnosso a Creta e si conclude nell’immaginario villaggio gallico in cui Asterix e i suoi amici lottano ancora contro i romani. Durante il nostro viaggio incontreremo alcuni dei personaggi più famosi, o più malfamati, della storia antica, come Saffo, Alessandro Magno, Annibale, Giulio Cesare, Cleopatra, Caligola, Nerone, Boudicca e Tacito. Daremo anche un’occhiata alla vita della gente comune in Grecia e a Roma: parleremo di schiavi, di soldati e dei milioni di persone che vivevano sotto occupazione militare in tutto l’impero (nel capitolo XIX ci sarà anche il mio personaggio preferito: il fornaio romano Eurisace). Di che cosa ridevano questi nostri antenati? Si lavavano i denti? A chi si rivolgevano in cerca di aiuto o di consigli? E quando il matrimonio era in difficoltà o non avevano un soldo? La mia speranza è che questo libro, intitolato Fare i conti con i classici, sia per i lettori un’introduzione – ma anche un ritorno – ad alcuni dei capitoli più affascinanti dell’antichità e dei suoi grandi protagonisti, e sappia anche dare una risposta ad alcune delle domande più avvincenti. Io, però, ho anche un obiettivo più ambizioso. Lo dice già il titolo: fare i conti con i classici implica un confronto e persino una sfida con la tradizione del mondo greco-romano e significa anche domandarsi come mai il dibattito sull’argomento sia ancora così vivo. In breve, questo libro si interroga sul perché gli studi classici siano tuttora un work in progress e non invece un lavoro già «finito e coperto di polvere», e sul perché non sia soltanto una questione di «tradizione», ma anche di «avventura» e «innovazione». La mia speranza è che tutto questo emerga con forza nelle pagine che seguiranno. Ci sarà anche qualche sorpresa e persino un assaggio delle feroci controversie, vecchie e nuove, intorno alla cultura greca e romana. Gli esperti, i cosiddetti «classicisti», sono sempre alle prese con il greco tremendamente difficile di Tucidide (siamo diventati un po’ più bravi, ma c’è ancora molto da fare), e non si sono ancora messi d’accordo sulla vera importanza di Cleopatra nella storia di Roma e neppure se ci si possa sbarazzare di Caligola dicendo semplicemente che era pazzo. E, come se non bastasse, la modernità pone continuamente nuovi quesiti, ai quali talora capita addirittura di trovare una risposta. La mia speranza è che Fare i conti con i classici porti a un pubblico più vasto alcuni dei dibattiti che fervono attualmente fra gli specialisti. Per esempio, quale contributo potrebbero dare le fonti persiane alla nostra comprensione di Alessandro Magno? Come facevano i romani a procurarsi tutti gli schiavi di cui avevano bisogno? Il filo rosso che lega questi brevi saggi è proprio la parola «dibattito». Come ribadirò nell’Introduzione, studiare i classici non significa dialogare soltanto con la letteratura e le testimonianze materiali dell’antichità, ma anche con tutti coloro che nel corso dei secoli li hanno affrontati, citati o ricreati. Ed è perché partecipano al nostro dialogo che in questo libro trovano posto anche gli studiosi e gli archeologi, i viaggiatori, gli artisti e gli antichisti delle generazioni passate. Ed è per la stessa ragione che entra in scena anche l’indomito Asterix. Ammettiamolo: molti, moltissimi di noi hanno cominciato a scoprire i conflitti dell’imperialismo romano proprio con Asterix e la sua banda di audaci galli. Mi sembra perciò perfettamente in tema che tutti i capitoli di questo libro siano riedizioni adattate e aggiornate di recensioni e saggi comparsi negli ultimi due decenni nella «London Review of Books», la «New York Review of Books» e il «Times Literary Supplement». Sull’arte della recensione tornerò nella Postfazione. Per il momento mi sia concesso semplicemente ribadire che le rubriche di critica sono da tempo uno dei luoghi più importanti nel dibattito sul mondo classico. Spero che i testi qui riproposti servano a dare un’idea del perché quello classico sia un mondo su cui vale la pena ragionare ancora con tutta la serietà, ma anche con tutto il divertimento e l’umorismo, di cui siamo capaci. *** Fare i conti con i classici inizia con una versione della relazione che ho avuto l’onore di presentare nel dicembre del 2011 alla conferenza Robert B. Silvers presso la New York Public Library. Il suo titolo, «I classici hanno un futuro?», coglie perfettamente nel segno. È, per così dire, il mio manifesto. Introduzione I classici hanno un futuro? Il 2011 fu un anno particolarmente fortunato per il compianto Terence Rattigan: a Broadway, Frank Langella recitava la sua commedia Man and Boy, una storia molto attuale del crollo di un finanziere nonché la prima produzione del drammaturgo inglese a essere messa in scena a New York dagli anni Sessanta. Inoltre, l’ultima settimana di novembre in Gran Bretagna e nel mese di dicembre negli Stati Uniti, uscì il film Il profondo mare azzurro, ispirato all’omonimo testo teatrale, con Rachel Weisz nel ruolo della moglie di un giudice, che abbandona il marito per un pilota. In quell’anno cadeva il centenario della nascita di Rattigan, morto nel 1977, e, come succede spesso in queste occasioni, ci fu una riscoperta della sua opera. Per decenni, a giudizio dei critici ma non del pubblico del West End londinese, le sue storie raffinate di angosce represse fra le classi privilegiate non erano più riuscite a competere con il realismo operaio di John Osborne e dei «giovani arrabbiati». Poi, però, abbiamo di nuovo imparato a guardarlo con occhi diversi. Tempo fa mi è capitato di rivedere una sua commedia, The Browning Version, che era stata rappresentata per la prima volta nel 1948. La pièce racconta la storia di Andrew Crocker-Harris, un quarantenne che insegna in una public school inglese ed è costretto a dimettersi anzitempo per gravi problemi cardiaci. Crock (così lo chiamano i suoi studenti) ha anche un’altra sfortuna: quella di avere una moglie terribile, di nome Millie, che, quando non passa il tempo ad amoreggiare e litigare con l’insegnante di scienze, si dedica con sadismo a immaginare stratagemmi per distruggere il marito. Ciò che trovo particolarmente interessante, però, è il titolo del dramma, perché ci riporta al mondo classico. Crock, come avrete immaginato, insegna latino e greco (che altro poteva insegnare uno che di cognome faceva Crocker- Harris?), e il titolo The Browning Version allude alla famosa traduzione dell’Agamennone di Eschilo effettuata dal poeta Robert Browning. L’originale greco, composto a metà del V secolo a.C., racconta il tragico ritorno dalla guerra di Troia del re Agamennone, che al suo arrivo viene assassinato dalla moglie Clitennestra e dall’amante di lei. Il testo eschileo è, in un certo senso, il vero protagonista della pièce di Rattigan. Crock lo riceve in regalo, al momento di andare in pensione, da John Taplow, un allievo al quale ha dato lezioni private, che a poco a poco si è affezionato al vecchio, scorbutico insegnante. Il dono è il punto culminante del dramma, quasi un momento di redenzione. Per la prima volta la maschera che Crocker-Harris indossa si incrina: quando apre il pacchetto, scoppia in lacrime. Perché piange? Anzitutto perché quel gesto lo costringe a prendere atto di essere stato, come Agamennone, distrutto da una moglie adultera (quella di Rattigan non è un’opera femminista). Ma piange anche per la dedica che il giovane Taplow ha scritto sul frontespizio. È una frase della tragedia, tracciata con cura in greco, che Crock traduce come «Dio dall’alto volge il suo sguardo benevolo su un maestro gentile». Egli la interpreta come un commento sulla propria carriera di insegnante: ha fatto di tutto per non essere un maestro gentile, e Dio non ha volto su di lui il suo sguardo benevolo. Rattigan non si limita a esplorare i tormenti psicologici dell’alta borghesia, né a scrivere l’ennesimo «racconto degli anni di scuola», che sembra essere la curiosa ossessione di diversi scrittori britannici. Da buon conoscitore del latino e del greco, solleva alcune questioni fondamentali sui classici, sulla loro tradizione e sul nostro rapporto con essi. Il mondo antico può aiutarci a capire il nostro mondo, e fino a che punto? Quali limiti dovremmo imporci nel reinterpretarlo e nel riappropriarcene? Quando Eschilo scriveva «Dio dall’alto volge il suo sguardo benevolo su un maestro gentile», non aveva di certo in mente un insegnante, ma un re, un conquistatore: queste parole, in realtà – e anche questo credo fosse nelle intenzioni di Rattigan –, sono fra le ultime che Agamennone rivolge a Clitennestra, prima che lei lo inviti a entrare e lo uccida. La domanda, in altri termini, è: in che modo rendiamo significativo per noi il mondo antico? In che modo lo traduciamo? Il giovane Taplow in fondo non ha una grande considerazione per la versione di Browning, che anche a noi sembra scritta in un atroce lessico ottocentesco poeticheggiante (la traduzione browninghiana – «Colui che mite conquista, dall’alto Dio guarda benigno» – ben difficilmente invoglierà la maggior parte di noi a leggere il resto). Ma quando, durante la lezione, il ragazzo, entusiasmato dal greco di Eschilo, se ne esce con una versione davvero felice, anche se lievemente inesatta, Crock lo rimprovera: devi fare la costruzione della frase, tradurre parola per parola, «non collaborare con Eschilo». Io però sospetto che quasi tutti noi oggi parteggiamo per i «collaboratori»,

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