eBook Laterza Chiara Volpato Deumanizzazione Come si legittima la violenza © 2011, Gius. Laterza & Figli Edizione digitale: luglio 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858116159 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata Sommario Capitolo primo. La lunga storia della deumanizzazione Lo studio psicosociale della deumanizzazione Capitolo secondo. La deumanizzazione esplicita L’esclusione morale Le determinanti ambientali della deumanizzazione Deumanizzazione come delegittimazione radicale Le funzioni della deumanizzazione La prospettiva delle vittime Capitolo terzo. La deumanizzazione sottile L’infra-umanizzazione Deumanizzazione animalistica e meccanicistica La distinzione natura/cultura: l’ontologizzazione delle minoranze «inassimilabili» Deumanizzare i gruppi estranei, umanizzare il proprio: immagini passate e presenti Capitolo quarto. L’oggettivazione I processi di oggettivazione Le conseguenze dell’oggettivazione sessuale L’oggettivazione al maschile Il problema dei problemi: i media La sessualizzazione degli adolescenti Capitolo quinto. Un cantiere aperto La deumanizzazione al contrario: l’antropomorfismo La deumanizzazione nel cervello Strategie di resistenza Direzioni di ricerca Riferimenti bibliografici a Silvano Capitolo primo. La lunga storia della deumanizzazione No, non erano inumani. Però, sapete, era questa la cosa peggiore, e cioè proprio il sospetto che non fossero inumani. Si faceva strada a poco a poco. Quando gli individui urlavano e saltavano, e si contorcevano, e facevano smorfie orribili; ma quello che dava i brividi era il pensiero della loro umanità, un’umanità come la tua, il pensiero della tua remota parentela con quel tumulto selvaggio e appassionato. Joseph Conrad, Cuore di tenebra Nel 1839 in una valle tedesca sono stati scoperti i resti fossili di quello che sarebbe stato denominato Homo neanderthalensis. Per lungo tempo si è pensato che i neandertaliani fossero una specie di ominidi prossimi alle scimmie, mancanti delle qualità tipiche dell’uomo: linguaggio, intelligenza, capacità di usare strumenti. Per più di un secolo gli scienziati hanno creduto che sapiens rappresentasse uno stadio evolutivo più avanzato di neanderthalensis e che per questo motivo lo avesse sostituito nel tempo. L’immagine deumanizzata dei neandertaliani si è diffusa fuori dall’ambito scientifico: romanzi e film li hanno presentati come scimmioni privi di razionalità e incapaci di sentimento. Eppure, se andiamo nel museo di Aleppo e osserviamo lo scheletro di un bambino neandertaliano, la cui sepoltura è stata ritrovata pochi anni fa in Siria, il riconoscimento è immediato: è uno di noi. Guardandolo ci chiediamo cosa possa aver causato la sua retrocessione dalla piena umanità. Oggi sappiamo che i neandertaliani erano uomini di una specie diversa dalla nostra, con una cultura sviluppata; sappiamo che sapiens e neanderthalensis hanno coesistito per millenni; sappiamo anche che, con tutta probabilità, neanderthalensis era meno aggressivo di sapiens e cominciamo a intuire che ciò che ha permesso alla nostra specie di sostituirli è stata proprio la nostra superiore aggressività, la capacità di mettere l’intelligenza al servizio della lotta e dell’annichilimento di chi di volta in volta consideriamo nemico. La deumanizzazione di Homo neanderthalensis può essere considerata l’esempio di una forma radicale di svalutazione che percorre la storia dell’uomo, accompagnando conflitti e stermini (Lindqvist 1992). Deumanizzare significa negare l’umanità dell’altro – individuo o gruppo – introducendo un’asimmetria tra chi gode delle qualità prototipiche dell’umano e chi ne è considerato privo o carente1. La deumanizzazione è poliedrica, multiforme, flessibile. Si adatta ai luoghi, alle persone, alle relazioni, assume di volta in volta i contenuti richiesti dal clima culturale del momento. Reperire e documentare tutte le facies del fenomeno è impossibile; si può però tentare una ricognizione delle forme fondamentali che si sono sviluppate nel corso della storia: l’animalizzazione, la demonizzazione, la biologizzazione, l’oggettivazione, la meccanizzazione. Parlare di deumanizzazione significa naturalmente parlare dell’umano e delle sue proprietà. Deumanizzare vuol dire avere un’idea – implicita o esplicita – delle qualità che vengono negate, avere quindi un’idea dell’umano e dell’essenza che gli si attribuisce. Nelle lingue usate nella cultura occidentale, ma non solo, il termine «umano» è impiegato con due significati principali. Nel linguaggio scientifico indica ciò che è tipico dell’uomo in contrapposizione a ciò che è tipico di altre forme viventi. Nel linguaggio comune, è sinonimo di buono, comprensivo, caloroso, competente in quella forma particolare di competenza che è l’attenzione e la cura per le «creature» che compongono il nostro universo, appartengano o meno alla nostra specie. Questa seconda accezione, la più comune, quella che ci riguarda da vicino perché costituisce un tratto fondante della vita sociale, racchiude in sé l’ideologia che ha permeato e permea la nostra civiltà: l’idea che l’umano sia il bene, il vertice della vita sulla Terra, lo stadio più alto dell’evoluzione, per i credenti l’essere più vicino a Dio. In un libro denso di spunti e suggerimenti, Deconchy (2000) ha analizzato le strategie che quotidianamente impieghiamo per costruire l’idea di uomo, un’idea che poggia sulla credenza che i determinismi naturali non siano sufficienti a dar conto dell’umano, che l’uomo contenga in sé qualcosa che lo differenzia, e lo innalza, rispetto agli altri esseri viventi. Da questo stesso nucleo hanno origine le forme di deumanizzazione che rinviano al tradimento dell’umano come discesa agli inferi costituita dalla perdita dell’umanità (Poliakov 1975). Nell’antichità classica l’umano era definito come uno spazio intermedio tra divinità e animalità, uno spazio organizzato in una gerarchia che vedeva al suo apice l’uomo – maschio, adulto, greco, libero, abitante della polis, dedito all’otium. Più sotto, per difetto di razionalità, era collocata la donna e, nello strato inferiore dell’umano che confina con l’universo animale, lo schiavo. Lo schiavo era considerato tale per natura, appartenente a un gruppo prossimo a quello degli animali domestici, tanto che Senofonte sosteneva che i metodi educativi adatti agli animali erano appropriati anche per gli schiavi (Vegetti 1996). Lo schiavo era ritenuto privo di logos, il linguaggio- ragione. Proprietà personale e materiale del padrone, lavorava per lui, dipendeva dal suo arbitrio, era collocato allo stesso livello degli oggetti materiali. Nella filosofia post-aristotelica era chiamato semplicemente soma, corpo. Nel mondo greco, il concetto di schiavo era prossimo a quello di barbaro, una contiguità che permetteva l’accostamento tra barbaro e bestia. Su questi slittamenti concettuali si basava la categoria antropologica degli «uomini bestiali», menomati sul piano della virtù e dell’umanità. La loro inferiorità rispetto ai liberi era tale che le guerre combattute per sottometterli erano considerate necessarie battute di caccia, come quelle effettuate per gli animali feroci (Vignolo 2009). L’etnocentrismo del mondo classico delinea il paradigma del selvaggio, l’animale barbaro – antropofago, privo di leggi, incapace di dedicarsi al lavoro agricolo, caratterizzato da una sessualità bestiale – che diventa principio e modello di una teratologia morale della specie umana. Per l’Aristotele dell’Etica Nicomachea il vizio estremo della specie umana è la «bestialità», definita dall’assenza del principio di razionalità. Nell’Inferno di Dante, che all’etica aristotelica si ispira, i dannati macchiatisi delle colpe più gravi – frodatori e traditori – sono descritti con paragoni animali (pensiamo ai ladri serpenti) che segnalano la perdita dell’umanità. I traditori, in particolare, che hanno commesso il crimine peggiore, sono raffigurati come bestie feroci. L’esempio più noto è quello di Ugolino della