Indice Frontespizio Colophon CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA Avvertenza del curatore dell’edizione italiana I. Sguardo preliminare II. La risonanza III. Il gioco di passaggio IV. Il salto V. La fondazione VI. I venturi VII. L’ultimo Dio VIII. L’Essere Nota del Curatore dell’edizione tedesca Martin Heidegger CONTRIBUTI ALLA FILOSOFIA (DALL’EVENTO) A cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann Edizione italiana a cura di Franco Volpi Traduzione di Alessandra Iadicicco Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2019 © 1989, 1994 VITTORIO KLOSTERMANN GMBH FRANKFURT AM MAIN © 2007 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-8074-9 AVVERTENZA DEL CURATORE DELL’EDIZIONE ITALIANA Intorno a quest’opera postuma aleggia da tempo un’aura esoterica. Annunciata come il più importante di una serie di trattati inediti del «secondo» Heidegger, se non come il suo «vero magnum opus» (O. Pöggeler) o la sua «seconda opera capitale (F.-W. von Herrmann), essa custodisce i segreti del suo pensiero e fornisce la chiave per accedervi. Nondimeno rimane, a parecchi anni dalla sua comparsa, ancora tutta da capire e da interpretare. Stesa tra il 1936 e il 1938, essa rappresenta il tentativo più organico e coerente – dopo il «fallimento» di Essere e tempo e dopo l’intermezzo politico del 1933 – di riprendere la problematica che avrebbe dovuto essere trattata nella parte inedita del capolavoro del 1927. Segna l’avvenuto abbandono dell’«analitica esistenziale» (existenziale Analytik) e offre la prima elaborazione di un pensiero conforme alla storia dell’Essere (seynsgeschichtliches Denken) in cui prende forma un universo speculativo nuovo e sorprendente. Messa da parte la comprensione quasi trascendentale dell’esserci, Heidegger risale ora verso l’immemoriale provenienza della fatticità, verso l’Essere stesso, che intende cogliere nel suo frangersi storicoeventuale senza ridurlo a una «cattiva finitudine». In quest’opera hanno dunque origine i temi apparentemente disparati che caratterizzano la meditazione dell’ultimo Heidegger e che qui si cristallizzano in una limpida e ardita visione d’insieme. Dopo un ampio «Sguardo preliminare» (vorblick) che presenta il tutto e ne illustra carattere e motivi, il testo si articola in sei «fughe» (Fugen) o «combinazioni (Fügungen), che strutturano l’accadere dell’Essere inteso come «evento- appropriazione» (Ereignis) e offrono la prospettiva per penetrarlo e comprenderlo: «La risonanza» (Der Anklang), «Il gioco di passaggio» (Das Zuspiel), «Il salto» (Der Sprung), «La fondazione» (Die Gründung), «I venturi» (Die Zu-künftigen) e «L’ultimo Dio» (Der letzte Gott). «La risonanza» intende mostrare che perfino nel completo abbandono dell’Essere, cioè nel nichilismo compiuto, risuona ancora una sua eco, anche se soltanto nella forma del «negarsi» (versagen) e di quella intensificazione del «diniego»(versagung, Versagnis) che è il «rifiuto (Verweigerung). La risonanza trova ascolto in quei «pochi e rari» che avvertono la condizione di «necessità» (Not) e insieme la «necessarietà» di una svolta (Not- wendigkeit), essendo essi disposti nello «stato d’animo» (Stimmung) del «ritegno» (Verhaltenheit), da cui sorgono «sgomento» (Erschrecken) e «pudore» (Scheu), e che li rende capaci di «presagire» (erahnen) i «cenni» (Winke) dell’Essere, analogamente a come i primi pensatori greci erano capaci di «stupirsi» (erstaunen) dell’ente. La seconda fuga è denominata «Il gioco di passaggio», un termine che allude a quanto avviene nel calcio quando la palla è passata, con un «suggerimento», da un giocatore a un altro. Sotto questa forma Heidegger concepisce il rapporto del pensiero dell’Essere con la storia della metafisica, alla cui interpretazione egli lavora nelle lezioni storico-filosofiche di questo periodo. Nella risonanza la storia della filosofia appare come un primo inizio del pensiero che «suggerisce» un altro inizio, «passando» in eredità un’intera serie di questioni che si tratta di ripensare, prima fra tutte quella dell’ente in quanto tale nella sua unità e nella sua polisemia. Tuttavia per questo ri-pensamento, che raccogliendo il passaggio apre l’alternativa alla metafisica, non ci sono ponti né mediazioni ermeneutiche praticabili. L’unica maniera per attuarlo è compiere «Il salto», la terza fuga, con la quale il pensiero si slancia dall’ente verso l’Essere. La ricchezza che sgorga da esso non è più quella metafisica della polisemia categoriale, ma si presenta ora come il risultato di una dinamica interna all’evento-appropriazione stesso: l’Essere, nella sua «permanenza essenziale» (Wesung), prendendo a «vibrare» (erzittern) e a «oscillare» (erschzuingen) dilatandosi o contraendosi secondo lo «spazio-tempo» (Zeit- Raum), «si fende» (Zerklüftung) in modalità e quindi in molteplici aspetti e determinazioni. Con «La fondazione», la fuga più complessa e articolata, si entra nel cuore dell’evento-appropriazione, della sua Wesung. Essa è determinata dalla tensione polare di Essere ed esserci che fonda e lascia essere quel «frammezzo», l’esser-ci, in cui l’uomo – che non è semplicemente identico all’esserci – è gettato e a cui deve «far fronte» (Beständnis). Nel «Ci» si apre, come «radura» (Lichtung), la verità intesa in quanto evento della manifestazione e dell’occultamento dell’Essere. Le ultime due fughe, brevi ma particolarmente dense, intitolate «I venturi» e «L’ultimo Dio», rappresentano per così dire la coda escatologica – poetica (Hölderlin) e teologica – dell’opera. Il fatto che nel manoscritto l’opera si chiuda proprio con queste due fughe dà loro un particolare rilievo. Nell’edizione pubblicata, che la traduzione ha seguito, l’opera termina invece con la sezione «L’Essere» (Das Seyn): una sorta di compendio del tutto, che nel manoscritto è posto all’inizio, dopo lo «Sguardo preliminare», ma che il Curatore tedesco ha deciso di collocare alla fine. Dovendo rimandare ad altra sede, per disposizione degli eredi, ogni spiegazione in merito a genesi, stile e contenuto, forniamo qui solo le indicazioni terminologiche indispensabili. Per quanto riguarda Sein o Seyn, abbiamo segnalato la distinzione mediante l’iniziale minuscola o maiuscola: «essere o «Essere». Heidegger usa la prima per il concetto metafisico, la seconda per quello proprio, anche se non sempre in modo coerente. Egli ricorre inoltre alle risorse dell’etimologia, che insegna la derivazione di sein da tre radici: es, «vivere»; * bhu/*bheu, «dischiudersi», «sbocciare»; wes, «permanere». Da quest’ultima deriva il verbo wesen, durativo di sein, morto come tale nel tedesco odierno, ma conservato nel participio passato gewesen e nei composti anwesen («presentarsi», «venire alla presenza»), abwesen («assentarsi», «essere assente») e verwesen («degenerare», «putrefarsi»). Heidegger usa wesen nel senso di «essere durevolmente presente», «durare», «permanere», per indicare il modo in cui l’Essere è. Specialmente quando vuole sottolineare la differenza ontologica tra Essere ed ente, riserva wesen per il primo, sein per il secondo: «Das Seiende ist. Das Seyn west» (cfr. sotto, pp. 58 e 97). Dal verbo wesen Heidegger ricava inoltre il sostantivo Wesung, fondamentale e frequente nei Contributi. Mutatis mutandis, esso corrisponde al concetto greco di μονή, «manenza» o «permanenza» (da μένω, «rimango», «permango»), usato dai neoplatonici per indicare l’iniziale rimanere dell’Uno presso di sé, a cui succedono l’«emanazione» (εἲσοδος) e il «ritorno» (ἐπιστροϕή). Si è reso Wesung –escludendo l’impiego di «manenza» occupato dalla semantica neoplatonica – con «permanenza essenziale», a volte anche con «presentarsi essenziale». In un paio di occasioni, per indicare il processo di raggiungimento della Wesung, in opposizione a Verwesung, Heidegger usa Erwesung. (Il prefisso inseparabile er-, che aggiunto a un verbo indica in tedesco l’entrare in una determinata condizione oppure il raggiungere e l’ottenere qualcosa mediante l’azione indicata dal verbo stesso, è una tra le risorse linguistiche a cui Heidegger ricorre qui spesso. Oltre a erwesen, e naturalmente ereignen, forma erahnen, erfragen, erdenken, erschweigen, erschwingen, erwinken). Ma il concetto capitale nella concezione dell’Essere dei Contributi alla filosofia, intorno al quale ruota tutto il pensiero heideggeriano successivo, è Ereignis. Un concetto «intraducibile al pari della parola guida greca λóγος e di quella cinese Tao» dichiarerà in Identità e differenza (Neske, Pfullingen, 1957, p. 25). Riportando il termine a eigen e eignen – secondo una etimologia non provata – e ricorrendo anche alla grafia Er-eignis, o alla variante Ereignung, Heidegger lo intende nel senso di «appropriazione» o «evento-appropriazione», essendo tale per lui il modo in cui l’Essere si destina all’uomo facendolo avvenire e facendolo proprio in un rapporto di correlazione reciproca. L’esserci quindi non è più visto nel suo autoprogettarsi puro, addirittura come condizione ontologico-trascendentale del senso dell’essere, bensì nell’insondabile gratuità del suo presentarsi insieme alle cose che sono, in quella che è lodata come «la meraviglia delle meraviglie»: che l’ente è. Ma pensare l’esserci in questo modo significa pensarlo nell’orizzonte dell’Essere e in una essenziale congiunzione con esso. La condizione opposta all’Ereignis è quella dell’Ent-eignis, l’«espropriazione» nel cui orizzonte l’Essere invece si sottrae e si nasconde. In tale quadro va inteso ciò che si dice di due altri fenomeni salienti, per i quali la fonte di ispirazione è Hölderlin: la Götterung, cioè l’«accadere divino», nonché l’«ultimo Dio» e il suo «passar via» (Vorbeigang). Non si tratta owiamente di una semplice presa di posizione circa l’esistenza di Dio o la sua presunta morte. Piuttosto, con l’espressione «ultimo Dio» – già utilizzata da Schelling – Heidegger torna a interrogarsi su come assegnare all’architettura della finitudine una chiave di volta cercando di capire se la gratuità dell’esistenza in cui siamo gettati è ancora collegabile a un Dio quale sua spiegazione, oppure se anche l’«ultimo Dio è ormai passato via. Un altro termine il cui significato riceve qui una precisazione importante è Kehre, «svolta». Normalmente la parola indica quelle curve molto strette nelle strade di montagna, dette «tornanti», le quali, pur essendo cambiamenti di direzione, conducono alla medesima meta, la sommità della montagna. Dopo la guerra, Heidegger si servì di questa metafora per indicare il mutamento di prospettiva maturato in seguito al «fallimento» di Essere e tempo, avallando egli stesso l’idea che la «svolta» fosse anzitutto tale circostanza della propria biografia intellettuale. Dai Contributi alla filosofia, invece, risulta che il termine deve essere inteso anche in un senso diverso, filosoficamente ben più impegnativo, implicito nel tedesco Kehre e meno nell’italiano «svolta». Kehre è usato qui per esprimere l’opposizione polare (Widerwendigkeit, Gegenwendigkeit) che si sviluppa nell’evento-appropriazione tra i suoi due «lati» o le sue due «facce», l’Essere e l’esserci. L’evento dell’Essere presenta un doppio aspetto, si mostra da un lato ma anche dall’«altro», nell’una ma anche nell’«altra faccia». Un po’ come quando si dice che una medaglia ha un diritto e un «rovescio»: «l’altra faccia della medaglia» è in tedesco die Kehrseite der Medaille. Insomma, nell’evento- appropriazione la correlazione di Essere ed esserci non è fissa ma si «gira» o si «volta» da un termine all’altro, e l’Essere stesso passa dalla donazione alla sottrazione, dalla manifestazione all’occultamento, e viceversa. In tal senso Heidegger può affermare che l’Essere stesso è kehrig perché si volta «vicendevolmente», e «l’esser-ci è il punto di inversione nella svolta dell’evento, il centro aprentesi dell’antitesi di chiamata e appartenenza». La Kehre è detta perciò anche Wider-kehre, «vicendevole-svolta». Già da questi pochi ragguagli si ricava un’idea della sperimentazione linguistica e concettuale che Heidegger escogita per risignificare l’essere con un vocabolario libero dal condizionamento della tradizione. La preoccupazione di evitare ogni semantica metafisica spinge Heidegger verso termini, immagini e metafore stranianti. Così sappiamo che l’Essere sarebbe attraversato da un tremito o una «vibrazione» (Erzitterung) –reminiscenza del «cuore che non trema» (ἀτρεμὲςἦτορ) della Verità parmenidea? – che rompe la sua unità primigenia generando una «oscillazione» (Erschwindung). Quest’ultima, in una alternanza di «slancio»» (Schwung) e «controslancio» o «rimbalzo» (Gegenschwung), «fende» e frastaglia l’Essere (Zerklüftung) in modalità che generano ulteriore molteplicità. Uno dei primi «movimenti» che si verificherebbe così nella vita dell’Essere è quello dello «spazio-tempo» (Zeit-Raum): esso produce Entrückungen e Berückungen, dilatazioni e contrazioni, allontanamenti e avvicinamenti, «estasi» e «attrazioni», in cui il tempo (con le sue tre estasi) e lo spazio (con le sue dimensioni) si articolano aprendo la «radura» (Lichtung) in cui l’esser-ci è fatto avvenire e fatto proprio dall’Essere. In questo nuovo quadro anche il termine esserci